Il papa dei non credenti. Così è stato celebrato il Cardinal Martini dai giornali, dai telegiornali e dagli intellettuali. Salutandolo come capofila del cattolicesimo
progressista, sono stati elencati i suoi principali meriti: istituì la
cattedra dei non credenti, preferì rivolgersi ai pensanti piuttosto che
ai credenti, si distinse dalla Chiesa aprendo all'eutanasia, al
preservativo, alle coppie gay, agli atei, rifiutò la messa in latino e
sostenne la necessità di «superare le tradizioni religiose». Un
curriculum notevole per un intellettuale, con i suoi dubbi e le sue
aperture; ma per un sacerdote, per un cardinale, per un uomo della
Chiesa, può dirsi altrettanto? Certo, il Cardinal Martini non fu solo
questo, fu anche un biblista insigne, una figura carismatica, si ritirò a
Gerusalemme; ma la ragione per cui è stato osannato dai media è questa e
l'ha ben riassunta un intervistato: «Non ragionava come un uomo della
Chiesa, non sembrava un Cardinale».
Ma è davvero un elogio non sembrare quel che
si è, mimetizzare la propria missione, confondersi con il proprio tempo
e tingersi dei suoi colori? E allora torno a domandare: ma è questo che
chiediamo a un pastore, a un uomo di fede e di chiesa, di parlare come
tutti gli altri, di assecondare lo spirito del tempo anziché invocare il
tempo dello spirito? Non ci bastano e ci avanzano le tante cattedre di
ateismo, di laicismo e di progressismo che ci sono in giro per chiedere
che anche dentro la religione vi siano spazi e argomenti in favore dei
non credenti e delle loro tesi? Siamo bombardati dai precetti laici
della modernità miscredente e dai canoni del progresso; non avremmo
piuttosto bisogno di qualcuno che ci rappresenti l'amore per il sacro,
per la trascendenza e per la tradizione? E chi dovrebbe farlo se non un
uomo della Chiesa, un Arcivescovo, un Sacerdote?
É demolita ovunque l'Autorità e
l'autorevolezza delle istituzioni, anche se poi al loro posto ci sono
nuovi canoni obbligati, nuovi poteri dominanti a volte più dispotici e
intolleranti degli altri: non si chiede oggi a chi rappresenta la
religione di assumersi sulle spalle la croce di contravvenire a questi
nuovi dispotismi nel nome perenne della Tradizione e della fede in Dio?
Un conto è dialogare con i «gentili», come
fa anche Ratzinger, un altro è sposare il loro punto di vista o scendere
sul loro stesso terreno, fino a omologarsi, e rappresentare soltanto la
versione religiosa all'interno dell'ateismo dominante. Non si tratta di
barricarsi nella Chiesa degli anatemi e dell'integralismo e di ignorare
il mondo e il nichilismo che avanza; si tratta di affrontare il mondo a
viso aperto, testimoniando la passione di verità e non la priorità del
dubbio, testimoniando l'amore per l'eterno e non solo per il proprio
tempo. Una scelta spirituale che si incarna, e non una scelta
intellettuale, o peggio ideologica, che si storicizza.Giunge a proposito
la questione sollevata da Papa Ratzinger su Giuda. Secondo Benedetto
XVI, Giuda tradì Gesù perché voleva spingere Cristo non a fondare una
nuovo religione, ma un movimento politico ribelle contro l'impero
romano. La lettura di Ratzinger lancia un forte messaggio al nostro
tempo: chi riduce Gesù a un rivoluzionario e il cristianesimo a
messaggio di redenzione politica e di riscatto sociale, tradisce Cristo
come Giuda. Il ribelle zelota Giuda nega il valore religioso del
cristianesimo e lo riduce a rivolta politica, attaccando l'impero romano
ma non intaccando la religione ebraica. Viceversa, Cristo secondo
Ratzinger non è avversario di Roma e non è un rivoluzionario, ma fonda
una nuova religione, e dunque dissente dal sinedrio, che lo condanna al
patibolo.
Su la Repubblica Gustavo Zagrebelsky ha
scritto un dotto excursus tra le interpretazioni di Giuda per sposare
alla fine la tesi di don Primo Mazzolari di un Cristo ribelle,
distruttore, liberatore e nemico del potere. Un Gesù giacobino, da
popolo viola, «uno come noi», scrive il professore giustizialista. Uno
come noi, è anche la parola d'ordine per elogiare il cardinal Martini
dal punto di vista dei non credenti. Il Cristo di Mazzolari-Zagrebelsky è
una versione opposta a quella di Ratzinger. E si sposa assai bene con
l'elogio progressista di Martini. Peccato che il giurista non citi tra
le interpretazioni di Giuda come esecutore del disegno divino quella di
Giuseppe Berto (ripresa da scrittori cattolici come Mario Pomilio e
Francesco Grisi): Giuda tradendo provoca la morte e la resurrezione di
Cristo. Come in una vera eterogenesi dei fini - espressione del
cattolico Augusto del Noce che però piace a Zagrebelskj - il tradimento
di Giuda ha un movente politico ma produce un risultato escatologico:
non provoca la ribellione degli zeloti ma la salvezza del mondo tramite
il sacrificio di Cristo sulla Croce. Perché la promessa cristiana è la
resurrezione, non la rivoluzione; è l'eternità, non il progresso.
Post scriptum. A proposito di Crocifisso,
avrete letto la profanazione di Ulrich Seidl alla Mostra del Cinema di
Venezia. Una trovata miserabile, non solo perché offende i credenti e
coloro che, pur non credenti, sono nati e cresciuti in una civiltà
cristiana. Ma per due altre ragioni: la sua profanazione non ha nemmeno
l'alibi di sfidare coraggiosamente un regime teocratico, ma infierisce
contro una fede debole, soccombente, e su questo piano, inoffensiva. E
poi non ha nemmeno il crisma dell'originalità, perché arriva dopo
decenni di profanazioni spettacolari, dai film di Pasolini, che però
erano almeno tormentati vangeli, alle esibizioni di Madonna, Lady Gaga e
dei Soliti Idioti. Quel film rientra nello squallido conformismo della
profanazione contro una fede inerme, come Colui che fu inchiodato sulla
croce.
(di Marcello Veneziani)
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