I libri. Erano questi a segnare la differenza tra Pino Rauti e il resto delle destre. Nazionali o sociali che fossero. Il suo ritratto, ciò che lo tramanda, sono gli occhiali: veri e propri fondi di bottiglia. Ed era questo lui, uno studioso. Per fare dottrina e prospettiva. Magari anche per sbagliare. Ma nell’immediato. Non nelle visioni. Non in quel cammino dove il tempo trasfigura i destini dei popoli. Ebbe l’utopia propria dei calabresi. Fu soldato ed ebbe accanto una militia fatta di facce mirabili, quella di Paolo Andriani, quella di Giulio Maceratini, quella di Giampiero Rubei, quella di Marcello Perina, quella di Ignazio Diminica, quella di Fabrizio Falvo, quella di Fabio Granata, quella di Flavia Perina, quella di Enzo Cipriano e quella di Umberto Croppi. E poi tanti altri, tutti segnati dalla rivoluzione dei libri. Libri che si stampavano in faccia. Libri che avevano fatto delle rovine di un popolo e di un secolo una biblioteca. Questo fu il rautismo: uno scaffale. Senza di lui non ci sarebbe stata la Nuova Destra, senza di lui non ci sarebbe stato il socialismo tricolore di Beppe Niccolai, senza di lui Gianfranco Fini non avrebbe potuto sperimentare l’eresia perché solo con Rauti la destra poté scoprire di essere a sinistra, andando oltre. Senza fischiare. Piuttosto leggendo i Cantos. Con Manfredi.
(di Pietrangelo Buttafuoco)
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