Schiacciato dalla folla su una balaustra
all'ingresso della chiesa di San Marco a Roma, ho visto sfilare tutta la
destra italiana, quella nostalgica, quella moderata e quella radicale,
ai funerali di Pino Rauti. È stato un documentario dal vivo di un mondo
ferito e non suoni strano quel «vivo» riferito a un funerale.
Da qualche anno le manifestazioni più
vive e riuscite della destra sono i funerali. Non c'è solo l'antica
familiarità del mondo missino con i riti nostalgici per i caduti, con
l'estetica mortuaria. C'è la percezione comune di un mondo che volge
alla fine. Quella ferita ha ripreso a sanguinare alla vista di Fini,
contestato con feroce durezza: voglio pensare che Fini non abbia voluto -
almeno stavolta - disertare e rendere onore a un leader, pur sapendo di
andare incontro al pubblico vituperio. Non era il momento e il luogo
per contestare Fini, ma va compresa la rabbia e la delusione di quel
mondo ferito e ipersensibile ai tradimenti.
Ma lasciamo i Fini che passano e tentiamo un bilancio del rautismo.
Rauti tentò la folle impresa di far politica a colpi di idee e visioni
del mondo. Trasferì la nostalgia del piccolo mondo missino dalla
Repubblica Sociale al Sacro Romano Impero, immettendo il fascismo nel
più maestoso fiume della Tradizione, con la T maiuscola. Sognò l'Europa
in pieno nazionalismo missino, lanciò il comunitarismo in pieno
cameratismo, scoprì l'ecologia in piena ideologia e istigò alla lettura
giovani militanti, sottraendoli al puro attivismo e alla retorica
patriottarda. A lui si avvicinò l'ala colta giovanile che non si
accontentava dei saluti romani e del tricolore, leggeva Evola e lo
preferiva a Gentile, faceva i campi hobbit e riteneva il
liberal-capitalismo il nemico principale. Rauti esortò a leggere e
pensare un ambiente versato nell'azione, nell'etica della sconfitta e
nell'estetica del risentimento. «Veniamo da lontano» fu il suo motto.
Aveva la lungimiranza ideale dei grandi miopi e la scarsa dimestichezza
pratica. Le sue lenti spesse lo resero un alieno per la destra
militante. Rauti perse la sua aura di ayatollah intellettuale quando
perse le diottrie, dopo un'operazione agli occhi. È come se si fosse
secolarizzato, spogliandosi delle sue lenti.
Rauti cercò in un primo
tempo di trasferire il pensiero impolitico di Julius Evola nella
militanza politica del Msi e poi di Ordine nuovo e poi ancora del Msi,
in cui rientrò. Subì il carcere per il suo radicalismo ideologico,
coinvolto nella strage di Milano; ma ne uscì indenne, eletto a pieni
voti in Parlamento nelle elezioni del '72. Poi, alla morte di Evola ma
sul filo della sue opere più trasgressive - come Cavalcare la tigre -
Rauti intraprese, lui di destra tradizionale e radicale, un percorso
inedito che lo portò a vagheggiare «lo sfondamento a sinistra» e
l'alleanza rivoluzionaria. L'impresa si condensò soprattutto in una
vivace rivista quindicinale, Linea, da cui siamo passati in tanti, ed
ebbe un ruolo decisivo nella nascita della cosiddetta Nuova Destra. Era
una linea di forte suggestione che apriva nuovi scenari, pur
occhieggiando al fascismo sociale e rivoluzionario. E liberava la destra
militante dalla sindrome dell'assedio, del ghetto e della guerra civile
permanente con la sinistra. Ma la linea rautiana non ebbe interlocutori
a sinistra, e trovò scettica ironia a destra; si perse nel fumo
astratto di una lotta al liberalcapitalismo che non aveva compagni di
strada né strumenti idonei per così titanica impresa. La sua linea fu
sconfitta da Almirante che aveva più grande fascino oratorio e sapeva
toccare come pochi le corde della nostalgia. Almirante ti guardava negli
occhi con i suoi occhi azzurri; lo sguardo di Rauti si perdeva nei
vetri dei suoi occhiali. Nessuno dei due poteva dirsi stratega politico:
Rauti guardava troppo lontano, Almirante troppo vicino. L'uno faceva
della politica una Visione del Mondo piuttosto nebulosa; l'altro faceva
della politica un sublime teatro di piazza e di video, una fiammata che
durava l'arco di un comizio. L'Ideologo e l'Artista.
Per
galvanizzare i militanti Rauti soleva dire che il peggiore dei nostri è
meglio del migliore dei «loro»; frase utile per cementare un ambiente
diviso, ma falsa e foriera, nelle menti più deboli, di uno stupido
settarismo. La sezione non era il tempio di un ordine cavalleresco.
L'audace
svolta a sinistra di Rauti avvenne sull'orlo della scissione di
Democrazia nazionale dal Msi. Rauti, invece, restò nel Msi capeggiando
una corrente di minoranza e di opposizione interna ad Almirante e poi a
Fini. La sua casa madre fu per anni in via degli Scipioni in Roma, un
centro politico-librario in cui transitavano militanti e lettori. Poi la
breve ma infelice esperienza di segretario del Msi, fin troppo cauto,
curiosamente schierato a fianco della Nato nella guerra contro Saddam
Hussein, lui che rappresentava la destra filopalestinese e antiamericana
(mentre Fini, al seguito di Le Pen, andava a trovare il dittatore
irakeno). Negli anni seguenti, gli ex rautiani superarono di gran lunga i
rautiani e si disseminarono ovunque. Anche larga parte degli odierni
finiani provengono dalla corrente rautiana e antifiniana. Le idee che
mossero il mondo fu il suo libro più noto (a cui si aggiunse l'imponente
Storia del Fascismo scritta con Rutilio Sermonti). Con la nascita di
An, Rauti abbandonò il partito e suo genero, Gianni Alemanno, e tentò la
vana impresa di rianimare la fiamma tricolore. Finì male, tra diaspore e
microscissioni; più che un partitino avrebbe dovuto forse far nascere
una Fondazione per formare i giovani e garantire la continuità con le
radici sul piano storico e culturale. Passò per nostalgico, lui che ai
tempi in cui Fini esaltava il Duce, sosteneva di andare oltre il
fascismo. Rivoluzionario sul piano delle idee, Rauti era una persona
mite e cortese, con una vita tranquilla, sin da quando era redattore de
Il Tempo, attaccato alle sue abitudini domestiche (i più intransigenti
camerati gli rimproveravano la pennica pomeridiana e il braccino corto,
il familismo e il salotto col cancelletto per interdire l'accesso sui
divani al cane volpino).
Rauti può dirsi l'Ingrao della destra o
forse il Bertinotti. Restò a mezz'aria tra la politica e la cultura, ma
fece un pezzo di storia della destra, e non la peggiore. La brutta fine
della destra - e di Fini in particolare - esalta per contrasto la figura
e la statura di personaggi come Pino Rauti. Al loro cospetto,
giganteggia. Non solo le sue lenti erano di spessore. Mancò la fortuna,
forse il coraggio, non il valore.
(di Marcello Veneziani)
(di Marcello Veneziani)
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