Dura lex sed lex diranno i feticisti del diritto, quelli che, come spiegò una volta l'onorevole e poi presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, la toga di magistrato ce l'avevano cucita nel petto.
E dunque, se si deve arrestare il 
direttore di un quotidiano si va in sede, si sale nel suo ufficio e lo 
si porta via. Che volete che sia. Se in ottemperanza alla legge si 
preleva a forza un bambino all'uscita di una scuola, non si potrà 
portare via un uomo grande dall'interno di un giornale? Sì, certo, c'è 
la sacralità della libertà di stampa, la salvaguardia del quarto potere,
 il giornalismo cane da guardia delle istituzioni, la lettura dei 
giornali come preghiera kantiana e mattutina dell'uomo laico, la tutela 
delle fonti e insomma tutto l'armamentario della libertà d'opinione e 
dello Stato di diritto, ma, appunto, dura lex sed lex. Detto nell'anno 
di grazia 2012, e visto il pasticcio politico-giuridico che ruota 
intorno al caso Sallusti, questo principio del Digesto sembra più, con 
rispetto parlando, una battuta di Totò.
Gli inventori del diritto romano sapevano benissimo che Summus ius 
summa iniuria, e non c'è bisogno di sapere il latino per capire di che 
cosa stiamo parlando. Nel tentativo di uscire dall'impasse, si violano 
le norme più elementari del vivere civile, della dignità professionale, 
del buon senso. Fino a ieri, quando si perquisivano le abitazioni dei 
giornalisti e si mettevano sotto sequestro i loro strumenti di lavoro, 
era tutto un gridare indignati all'attentato contro le libertà 
costituzionali, oggi si salgono le scale del Giornale in via Negri 4, si
 porta via, elegantemente blindato, senza manette, ma sotto scorta, il 
suo direttore e davvero non è successo nulla, davvero ci vogliono far 
credere che non si poteva fare altrimenti, meglio, non si doveva fare 
altrimenti? Ma davvero pensano i politici e i responsabili 
dell'ordinamento giudiziario che ci beviamo la favola del rispetto della
 legge? Favola, va da sé, che proviene da due caste braminiche che tutto
 sono tranne che eguali al semplice cittadino quanto a privilegi e 
guarentigie.
Diceva Thoreau che «sotto un governo che imprigiona ingiustamente, il
 vero posto per un uomo giusto è la prigione». L'essenza della vicenda 
Sallusti è tutta qui, ma siccome è talmente evidente, per l'uomo della 
strada, che andare in galera per omesso controllo di un articolo, è un 
non senso giuridico ed etico, si sarebbe preferito che Sallusti avesse 
acconsentito all'«aiutino», tanto la nostra classe politico-giudiziaria 
assomiglia ormai a un gioco a quiz corredato di pacchi regalo: grazie al
 jolly, pescato da noi, ti diamo i domiciliari, non sei contento? Così 
si dà anche il destro a molti servi di scena e di redazione di 
ironizzare, di fare la morale con il piglio dell'uomo di mondo, gli 
stessi che pur di far rimettere una querela darebbero in cambio la 
madre.
La fine di un regime politico la si vede anche da questo, 
dall'incapacità di misurare le azioni e le conseguenze, dal delirio 
cieco con cui si ignorano le più elementari regole del fair play, il 
gioco pulito, il tener conto delle storie, delle persone, di ciò che 
esse, nel grande come nel piccolo, rappresentano. La fine di un regime 
politico la si vede quando è incapace di legiferare, fare luce, evitare i
 fraintendimenti. Niente è più attuale rispetto all'attuale politica 
italiana del vecchio Tacito degli Annali: Corruptissima repubblica 
plurimae leges, quando lo Stato è corrottissimo le leggi sono 
moltissime. Sallusti si è sempre limitato a chiederne una: se sono 
colpevole vado in galera. Punto, tutto il resto è corruzione.
Per 
anni, quelli che adesso fanno i giustizialisti col botto si deliziavano 
con una frase di Gaetano Salvemini: «Se mi accusano di aver stuprato la 
statua della Madonnina del Duomo, per prima cosa fuggo all'estero». Ma, 
si sa, Salvemini era un sincero democratico e un vero antifascista. Qui 
invece c'è un Sallusti pericoloso criminale che non vuole sconti ma, 
guarda un po', la certezza del diritto. Pur di togliersi un peso, 
imponendogli quei domiciliari con cui pensano di salvare la capra 
giudiziaria e il cavolo della politica siamo certi che sarebbero andati a
 prenderlo persino dentro al Duomo di Milano, perché la sacralità dei 
luoghi alla fine è un optional rispetto al braminismo delle caste.
Un grande giurista, Salvatore Satta, ha scritto che «il giudizio è una pena, è la sola vera pena. Il genio di Pascal ha fissato per sempre questa verità in un sublime pensiero: Gesù Cristo non ha voluto essere ucciso senza le forme di giustizia, perché è ben più ignominioso morire attraverso un giudizio che per sedizione ingiusta». Il caso Sallusti è la dimostrazione di uno Stato che il giudizio non sa nemmeno cosa sia.
Un grande giurista, Salvatore Satta, ha scritto che «il giudizio è una pena, è la sola vera pena. Il genio di Pascal ha fissato per sempre questa verità in un sublime pensiero: Gesù Cristo non ha voluto essere ucciso senza le forme di giustizia, perché è ben più ignominioso morire attraverso un giudizio che per sedizione ingiusta». Il caso Sallusti è la dimostrazione di uno Stato che il giudizio non sa nemmeno cosa sia.
(di Stenio Solinas)
 

 
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