Ricorderemo a lungo le elezioni politiche che si sono appena svolte. E
per tanti motivi che non starò qui ad elencare tanto sono noti e
all’attenzione di tutti. Ma ce n’è uno che sarebbe storicamente ingiusto
sottovalutare. Dai risultati emerge l’assenza dal Parlamento di un
soggetto unitario di destra. Non era mai accaduto dal 1948.
Prima con il Movimento Sociale Italiano (sia pure nel 1976 con
l’appendice scissionistica di Democrazia nazionale), poi con Alleanza
nazionale, c’è sempre stata nelle massime assemblee rappresentative un
movimento riconducibile ad una storia, ad una cultura, a dei valori che
sono stati qualificati “di destra” e come tali sono stati percepiti e
riconosciuti da masse crescenti di cittadini.
Non saranno i nove deputati di Fratelli d’Italia e i pochi
“destristi” sopravvissuti alla mattanza consumatasi nella compilazione
delle liste del Pdl, a poter rappresentare la destra per quel che è o
dovrebbe essere. Chi ritiene, mettendosi la coscienza a posto, che
bastano appunto poche frammentarie e slegate, per quanto
rispettabilissime presenze, riferite ad un mondo in via di estinzione
(almeno dal punto di vista parlamentare), per poter sostenere che la
destra esiste, vuol dire che si accontenta di poco. E magari cerca alibi
alla propria inerzia.
La verità è che la destra è stata scientificamente asfaltata. Gli
esponenti e gli aspiranti candidati esclusi che non hanno inteso seguire
l’impervia e rispettabile strada intrapresa da Fratelli d’Italia, né si
sono riconosciuti nel partito di Storace, adesso sono senza casa. Ma, a
ben vedere, lo sono anche i pochi inquilini che hanno trovato posto
nelle liste berlusconiane che tuttavia per le posizioni ottenute non
sono stati eletti.
I parlamentari provenienti da An che si sono acconciati a
testimoniare le loro differenze, dando vita a Fratelli d’Italia e a La
Destra (che non ha ottenuto seggi), da quello che doveva essere il
partito unico del centrodestra, non credo, comunque, che possano
sentirsi appagati della loro scelta. Immagino che registrino, come
tutti, il fallimento di un progetto del partito unico del centrodestra
che, a conti fatti, non era maturo, né culturalmente, né tantomeno
politicamente. Fallimento suggellato dalla scomparsa politica di
Gianfranco Fini e del suo velleitario movimento che, in verità, non è
mai decollato proprio perché negava la destra in radice.
La storia di questi ultimi cinque anni la si può leggere in tanti
modi, ma credo che con la piega che hanno preso gli eventi si possa dire
che la destra è stata “cannibalizzata” per non aver saputo esprimere
all’interno del contesto berlusconiano una propria identità, fattore
che ha pregiudicato il suo apporto alla costruzione del nuovo partito.
L’errore di sciogliersi in un indistinto movimento a vocazione
carismatica nel febbraio 2008 ha segnato la fine di An e l’inizio della
fase più acuta dello scontro tra Fini e Berlusconi con gli esiti che
sappiamo. Il partito unico non era alla portata: operazioni del genere,
che implicano la condivisione culturale e politica di un progetto che
può affinarsi nel tempo attraverso una riflessione profonda, se non
producono un amalgama sono destinati a fallire. Il “fusionismo” è una
grande lezione che pochi a destra hanno appreso dal conservatorismo
americano: esso si fonda sulla necessità di non disperdere energie e
risorse unendo tutti coloro che sono animati da una stessa visione
valoriale del mondo e della vita. Quando mai nel centrodestra è stata
avviata una discussione sulla consistenza identitaria derivante dalle
cessioni di identità dei vari soggetti che hanno concorso a formarlo?
Pochi, e per di più inascoltati, hanno richiamato questa esigenza che,
tradotta in termini politici, avrebbe portato ad una unione tra le
diverse componenti fondata su una nuova cultura e su una più efficace e
radicata rappresentanza territoriale.
La destra, forse più strutturata anche “ideologicamente”, avrebbe
potuto offrire un apporto decisivo alla composizione di un movimento
che, in senso europeo, si sarebbe potuto qualificare e rappresentare
come “conservatore”, dinamico e riformista nella sfera della
modernizzazione istituzionale e sociale ed al tempo stesso custode dei
principi della tradizione nazionale e popolare.
Diciamocelo francamente: non è stata all’altezza appiattendosi su un
berlusconismo di comodo che non ha giovato neppure allo stesso
Berlusconi il quale avrebbe, molto probabilmente, tratto maggiori
vantaggi politici dal contributo di una destra che non dimenticava se
stessa ed era perciò in grado di intercettare quel suo elettorato che
con fatica si è visto trascinare nell’indistinto di un sistema partitico
che non gli apparteneva, che sentiva estraneo.
Non sarebbe stato certo un dramma se, constatata l’impossibilità
della convivenza, si fosse dato luogo, nell’ambito del centrodestra ad
una federazione di soggetti, ognuno legato ad una ben precisa porzione
di opinione pubblica. Dal punto di vista elettorale avrebbe consentito a
tutti di cooperare per il bene comune di una coalizione composita e
plurale nella quale le differenze sarebbero state il lievito della
crescita fino a quando non fossero maturate le condizioni, in un sistema
effettivamente bipolare, per la costruzione di quel “partito degli
italiani” che è sempre stato l’obiettivo di una destra attestata sul
fronte della pacificazione, alla quale nulla è risultato in questi anni
più estraneo della contrapposizione muscolare tra avversari.
La destra, dunque, si è sostanzialmente dispersa, un po’ per il fatto
di non aver creduto nelle sue potenzialità, e un po’ perché ha smarrito
la sua strada cadendo in azzardi politicisti che hanno finito per
perderla come comunità. Dopotutto, checché se ne dica, questa era la sua
forza: una comunità di destino nella quale i principi dell’autorità,
della gerarchia, del libero dialogo tra pari, il culto della memoria
storica e del primato della politica, della lealtà e della fedeltà
valevano più di ogni altra considerazione rispetto alle logiche di
potere che l’hanno snaturata ben oltre la volontà di chi, probabilmente,
si è distratto rispetto alle prospettive che il suo mondo nutriva.
Detto degli errori, su cui chi vorrà avrà tempo e modo di indagare,
non è scusabile l’atteggiamento di vera e propria ostilità di quanti la
destra l’hanno marginalizzata in vista delle elezioni. Utilizzando
criteri a dir poco discutibili, smentiti da deroghe arbitrarie, si è
fatta macelleria politica con allegrezza quasi. Tanto da ritenere che
quella destra che Fini portò in dote a Berlusconi e che poi abbandonò
non per fare un’altra destra, ma qualcosa di indistinto, confuso,
incomprensibile, come si è visto, non ritenuta più utile ad un qualche
scopo è stata senza eleganza messa fuori dal Parlamento.Tutti adesso,
provenienti da uno stesso mondo, sono “fratelli separati”: una storia
che abbiamo già visto consumarsi a sinistra, ma ripetendosi a destra non
si palesa come una farsa, contraddicendo per una volta il vecchio Karl
Marx, bensì come una fuga dove non c’è niente e nessuno.
La fine di un movimento politico, comunque, non dà automaticamente
luogo alla fine delle idee che storicamente lo hanno caratterizzato e
che, bene o male, ha rappresentato producendosi, tra l’altro, in un
lungo lavorio teso all’elaborazione culturale e al superamento di
anticaglie che ne pregiudicavano l’agibilità sul terreno della
partecipazione alla vita pubblica. Esiste una “destra diffusa”, insomma.
Attende che qualcuno la ricomponga sotto un tetto. E le dia un avvenire
sia pure in un tempo che i protagonisti di oggi forse non riusciranno a
vedere.
(di Gennaro Malgieri)
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