giovedì 21 marzo 2013

Nel cuore avventuroso di Ernst Jünger, il visionario razionale



E poi c'è una scrittura che non si è mai privata di una dimensione onirica, si rappresenta pregevole e di grandissimo livello e accompagna l'elaborazione filosofica in maniera armoniosa ed equilibrata. Di tutto questo dà una visione d'insieme il volume di Heimo Schwilk Ernst Jünger. Una vita lunga un secolo (Effatà, pagg. 720, euro 22) che usufruisce di documenti di prima mano (l'autore ha frequentato Jünger e ne ha scritto molto) e ci dona un'inusuale corposità aneddotica.

Immaginatevi tutti i flashback. Un giovane che, diciottenne, scappa di casa e si arruola nella Legione straniera. Va in Francia e in Algeria. Ma ben presto si accorge che i ludi africani non hanno nulla di romantico o di esotico e quando, per le pressioni del padre presso il ministero degli Esteri tedesco, viene richiamato in patria, si sente quasi sollevato. Cambia molti istituti scolastici (e qui sembra di rivivere le vicende italiane di Papini e Prezzolini) con l'aggravante di un padre complice: «Nei colloqui a tavola all'ora di pranzo - scrive Schwilk - schernisce davanti ai figli i metodi d'insegnamento di allora \. Sicché la vera e propria formazione culturale e personale si svolge del tutto al di fuori della scuola \».

All'inizio Ernst non ama nemmeno la divisa militare, eppure va da volontario alla Prima guerra mondiale. Ferito quattordici volte, viene insignito della Croce di ferro di prima classe e poi della più alta onorificenza prussiana, l'ordine Pour le Mérite. Scelte apparentemente contraddittorie, ma il motivo è ravvisabile nell'anarchismo che, nel tempo delle mobilitazioni delle masse, del disvelamento di tutte le inquietudini della modernità e del peso sempre più ossessivo del disumano, acquista in lui un rinnovato valore di libertà: «Ernst apprezza e ama l'ordine e non gli manca il gusto di infrangerlo. \ I problemi disciplinari e le insufficienti prestazioni scolastiche ne sono la conseguenza».

Resta per qualche tempo nell'esercito, ma ormai la fama gli consente di vivere con la scrittura. Quando Nelle tempeste d'acciaio viene messo sul mercato, nell'ottobre del '20, diventa subito una rarità per collezionisti. Inizia a collaborare con riviste in cui confluiscono radicali di ogni risma. Sin da questa fase è impossibile inserirlo in un orientamento filosofico o politico, perché egli non affronta con altezzosità accademica le varie tematiche, ma le dipana anche attraverso il vissuto quotidiano e i romanzi letterari. Si ha la sensazione che, come ricorda Schwilk, dovunque fugga «rimane un originale e un solitario. La problematicità della sua esistenza è anche la causa prima di un coraggio temerario, che non conosce ansie né paure di fronte al pericolo della morte, e anzi sembra andarne in cerca. Come se la morte fosse l'unica possibilità di vincere il senso di colpa per poi tornare all'origine materna della vita».

Utilizza infatti lo strumento letterario per svelare l'altra faccia della civilizzazione che è la barbarie; quell'angoscia heideggeriana che lega la libertà alla questione della tecnica. Si convince che la ricerca ossessiva della perfezione e della sicurezza cui aspiriamo in ogni ambito della vita individuale e sociale svela un incremento del livello di paura rispetto al passato. Ne Al muro del tempo scriverà che le democrazie si trasformano e ci trasformano in modo occulto e questa lettura si evince anche dalla comprensione per certi versi profetica della crisi degli stati nazionali i quali, nel momento in cui cedono quote di potenza alla tecnica e all'idea di sicurezza e di prevenzione, capitolano al grande fratello planetario. I romanzi Eumeswil, Le api di vetro, Il problema di Aladino, Heliopolis ci parlano di questo. Jünger ha infatti compreso prima di tutti che la mobilitazione è passata dai campi di battaglia alle officine, e ben presto passerà a ogni ambito di lavoro.

Anche per questo non aderì mai al nazismo nonostante i ponti d'oro fattigli da Goebbels. Tuttavia non si fece mancare neanche un'indiretta responsabilità nel più famoso attentato a Hitler. Era infatti a conoscenza dell'operazione Valchiria, tanto che in quelle ore drammatiche iniziò a figurare il suo nome tra i congiurati. Qualcuno disse che Hitler avesse ordinato di non toccarlo, ma intanto i gerarchi nazisti mandarono suo figlio Ernstel a morire a Carrara in prima linea. Il coinvolgimento non fu mai provato, e tutta la seconda parte di una vita ultracentenaria la trascorse a Wilflingen, nella foresteria del castello dei von Stauffenberg, e la cronaca di quei drammatici giorni fatta da Schwilk ce lo mostra timoroso per se stesso e per la sua famiglia e attento a far sparire carte di vario tipo.

Dagli anni Sessanta continua il suo percorso di ricerca esplorando strade parallele. Sperimenta le droghe, in particolare l'LSD, e poi dirige insieme a Mircea Eliade la rivista Antaios che si occupa di storia delle religioni. Cerca insomma il bosco in ogni modo: «Trovarsi soli di fronte alla propria finitezza è uno dei grandi incontri. Né dèi, né animali, ne sono partecipi». Si confronta con Carl Schmitt e Martin Heidegger non senza qualche chiosa puntuta a livello personale, ma questi scambi restano tra i punti più alti della produzione intellettuale del Novecento.
Intanto si è messo a studiare i coleotteri. La scelta è chiara. È convinto che il nostro tempo rappresenti una tappa di transizione fra due momenti della storia, come accadde al tempo di Eraclito: «Egli si trovava tra il Mito e la Storia. Noi invece ci troviamo in una fase ulteriore e transitoria dominata dal titanismo. Dobbiamo esplorare le profondità, introdurci negli interstizi». Quindi passa dallo stato mondiale alla caccia sottile. E così Wilflingen diventa il suo mondo. Morì cinque anni dopo il secondogenito Alexander che si era tolto la vita.

E poi c'è una scrittura che non si è mai privata di una dimensione onirica, si rappresenta pregevole e di grandissimo livello e accompagna l'elaborazione filosofica in maniera armoniosa ed equilibrata. Di tutto questo dà una visione d'insieme il volume di Heimo Schwilk Ernst Jünger. Una vita lunga un secolo (Effatà, pagg. 720, euro 22) che usufruisce di documenti di prima mano (l'autore ha frequentato Jünger e ne ha scritto molto) e ci dona un'inusuale corposità aneddotica.

Immaginatevi tutti i flashback. Un giovane che, diciottenne, scappa di casa e si arruola nella Legione straniera. Va in Francia e in Algeria. Ma ben presto si accorge che i ludi africani non hanno nulla di romantico o di esotico e quando, per le pressioni del padre presso il ministero degli Esteri tedesco, viene richiamato in patria, si sente quasi sollevato. Cambia molti istituti scolastici (e qui sembra di rivivere le vicende italiane di Papini e Prezzolini) con l'aggravante di un padre complice: «Nei colloqui a tavola all'ora di pranzo - scrive Schwilk - schernisce davanti ai figli i metodi d'insegnamento di allora \. Sicché la vera e propria formazione culturale e personale si svolge del tutto al di fuori della scuola \».

All'inizio Ernst non ama nemmeno la divisa militare, eppure va da volontario alla Prima guerra mondiale. Ferito quattordici volte, viene insignito della Croce di ferro di prima classe e poi della più alta onorificenza prussiana, l'ordine Pour le Mérite. Scelte apparentemente contraddittorie, ma il motivo è ravvisabile nell'anarchismo che, nel tempo delle mobilitazioni delle masse, del disvelamento di tutte le inquietudini della modernità e del peso sempre più ossessivo del disumano, acquista in lui un rinnovato valore di libertà: «Ernst apprezza e ama l'ordine e non gli manca il gusto di infrangerlo. \ I problemi disciplinari e le insufficienti prestazioni scolastiche ne sono la conseguenza».

Resta per qualche tempo nell'esercito, ma ormai la fama gli consente di vivere con la scrittura. Quando Nelle tempeste d'acciaio viene messo sul mercato, nell'ottobre del '20, diventa subito una rarità per collezionisti. Inizia a collaborare con riviste in cui confluiscono radicali di ogni risma. Sin da questa fase è impossibile inserirlo in un orientamento filosofico o politico, perché egli non affronta con altezzosità accademica le varie tematiche, ma le dipana anche attraverso il vissuto quotidiano e i romanzi letterari. Si ha la sensazione che, come ricorda Schwilk, dovunque fugga «rimane un originale e un solitario. La problematicità della sua esistenza è anche la causa prima di un coraggio temerario, che non conosce ansie né paure di fronte al pericolo della morte, e anzi sembra andarne in cerca. Come se la morte fosse l'unica possibilità di vincere il senso di colpa per poi tornare all'origine materna della vita».

Utilizza infatti lo strumento letterario per svelare l'altra faccia della civilizzazione che è la barbarie; quell'angoscia heideggeriana che lega la libertà alla questione della tecnica. Si convince che la ricerca ossessiva della perfezione e della sicurezza cui aspiriamo in ogni ambito della vita individuale e sociale svela un incremento del livello di paura rispetto al passato. Ne Al muro del tempo scriverà che le democrazie si trasformano e ci trasformano in modo occulto e questa lettura si evince anche dalla comprensione per certi versi profetica della crisi degli stati nazionali i quali, nel momento in cui cedono quote di potenza alla tecnica e all'idea di sicurezza e di prevenzione, capitolano al grande fratello planetario. I romanzi Eumeswil, Le api di vetro, Il problema di Aladino, Heliopolis ci parlano di questo. Jünger ha infatti compreso prima di tutti che la mobilitazione è passata dai campi di battaglia alle officine, e ben presto passerà a ogni ambito di lavoro.

Anche per questo non aderì mai al nazismo nonostante i ponti d'oro fattigli da Goebbels. Tuttavia non si fece mancare neanche un'indiretta responsabilità nel più famoso attentato a Hitler. Era infatti a conoscenza dell'operazione Valchiria, tanto che in quelle ore drammatiche iniziò a figurare il suo nome tra i congiurati. Qualcuno disse che Hitler avesse ordinato di non toccarlo, ma intanto i gerarchi nazisti mandarono suo figlio Ernstel a morire a Carrara in prima linea. Il coinvolgimento non fu mai provato, e tutta la seconda parte di una vita ultracentenaria la trascorse a Wilflingen, nella foresteria del castello dei von Stauffenberg, e la cronaca di quei drammatici giorni fatta da Schwilk ce lo mostra timoroso per se stesso e per la sua famiglia e attento a far sparire carte di vario tipo.

Dagli anni Sessanta continua il suo percorso di ricerca esplorando strade parallele. Sperimenta le droghe, in particolare l'LSD, e poi dirige insieme a Mircea Eliade la rivista Antaios che si occupa di storia delle religioni. Cerca insomma il bosco in ogni modo: «Trovarsi soli di fronte alla propria finitezza è uno dei grandi incontri. Né dèi, né animali, ne sono partecipi». Si confronta con Carl Schmitt e Martin Heidegger non senza qualche chiosa puntuta a livello personale, ma questi scambi restano tra i punti più alti della produzione intellettuale del Novecento.

Intanto si è messo a studiare i coleotteri. La scelta è chiara. È convinto che il nostro tempo rappresenti una tappa di transizione fra due momenti della storia, come accadde al tempo di Eraclito: «Egli si trovava tra il Mito e la Storia. Noi invece ci troviamo in una fase ulteriore e transitoria dominata dal titanismo. Dobbiamo esplorare le profondità, introdurci negli interstizi». Quindi passa dallo stato mondiale alla caccia sottile. E così Wilflingen diventa il suo mondo. Morì cinque anni dopo il secondogenito Alexander che si era tolto la vita.

(di Luigi Iannone)

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