Attraversava la notte romana, Teodoro Buontempo – i sampietrini restituivano il calore del sole, cena con cozze, una grappa e grandi risate. Abbracciava spazzini, salutava coatti, chiacchierava con tutti. Avvinghiava il cronista dell’Unità e spartiva storie e risate e memorie di botte – mai di risentimenti. “In Abruzzo dicono che solo due animali non si addomesticano: il lupo e il cafone. E io so’ lupo e cafone”. Raccontava sempre, Teodoro. Della monaca camerata che gli faceva il saluto romano, di quando abitava con Evelino Loi detto “Stasera mi butto” perché periodicamente saliva in cima al Colosseo e minacciava il gesto estremo, della discoteca dove si era esibito nel “fascio disco dance” – diceva. Gli anni Novanta di gloria destrorsa sorgente, l’odor di fogna alle spalle, come la Cinquecento amaranto parcheggiata a Villa Borghese dove dormiva appena arrivato a Roma: er Pecora, appunto, nel suo ovile di ferraglia e di passioni. Andò in visita alla Camera dei Lord a Londra – e al ritorno ne traeva stupori e risate e affilate considerazioni. “Mah… Uno stava con la panza per aria, uno si scaccolava, un altro metteva i piedi sul tavolo… Lo sai che te dico? Che alla fine, là dentro, l’unico vero Lord ero io!”.
Era simpatico, Teodoro, straordinariamente simpatico. Molto umano – con quell’odore di terra e di fatica e di scontri, del vero rimosso dal birignao del politicamente corretto che fa tutti uguali, e tutti noiosi. E di così tante storie. E forse di qualche rimpianto. “Ma scusa, non era meglio quando voi eravate comunisti e noi fascisti?”. Una notte la passammo a far ore piccole, dopo un fortuito incontro tra edicole e piazze, con il professor Augusto Barbera, illustre costituzionalista e deputato Pds, e Primo Greganti, il compagno G., che molto Teodoro elogiò e molto ammirò – “è stato in cella e non ha parlato, uno coi coglioni, mica come ’sti cagasotto del Polo”. E il caffè e un’altra grappa e ancora risate. “Viviamo in una società di merda, se non dai un pugno allo stomaco nessuno si accorge di niente”. E ti sorprendeva spiegandoti che non mangiava carne perché la memoria dell’animale ucciso, il suo sangue, per sempre conserva l’incancellabile attimo di terrore della morte – e il ragionare suo quello di Plutarco, che sublime e feroce contro il divorare bestie si scagliava, quasi ricalcava. “Ma tu non sei mussoliniano, sei plutarchiano!”. E allora si faceva pensoso, e poi ancora rideva: “Plutarchiano va bene, ma pure mussoliniano non è male”. E rideva pure quel giorno d’estate a Montecitorio, quando fu superato all’ingresso da una collega polista arditamente abbigliata, pantaloni pitonati e maglietta al minimo. Sulla soglia, i soldatini di guardia seguivano con sguardo sbavante il vistoso posteriore dell’eletta che transitava in mezzo a loro. Così, nell’afa di luglio, s’udì nella piazza rimbombare l’urlo d’allarme di Teodoro: “Ahò, fate largo, che mo’ lì dentro arriva la società civile!” (arrivò, purtroppo).
Era la perfetta icona del fascista da sbattere in gazzetta, in quei pazzotici anni Novanta, pur se lui, per ben figurare, e per adeguatamente sfottere Repubblica che gli chiedeva quali libri avesse mai letto, si consigliava e comunicava: “‘Sexual Personae’, di Camille Paglia” – fu allora un fiorire di pensose, filosofiche interviste al Pecora venuto da Ortona – che ne godeva, e ancor di più ne sghignazzava. Rivendicava e s’accalorava: “Rischiavamo la pelle e la libertà mentre la società degli anni Settanta scopava, ballava, si divertiva e comprava il televisore a colori…”. Riuscì a parlare in Aula per 28 ore di seguito, “mangiavo miele e acciughe, come Enrico Caruso”. Gli regalai un paio di gemelli con il fascio littorio, rinvenuti in un cassetto. “A me certo non servono”. “A me sì!”. Li scrutò con ardita tenerezza, poi passò lo sguardo dubbioso sui colleghi polisti lì a fianco: “Se me li metto, a quelli gli piglia un colpo!”. Un giorno, con giusto sdegno, una raffinata collega spagnola lo intervistava su certe fiaccolate contro i trans che aveva animato. E lui, cercando le parole nella lingua ignota, provò così a spiegarsi: “Vede, segniorìta, los frocios…”. Fu pieno di passioni, di pensieri molto politicamente scorretti, di vita dura che bruciava. Ma almeno è sempre vita vera.
Era simpatico, Teodoro, straordinariamente simpatico. Molto umano – con quell’odore di terra e di fatica e di scontri, del vero rimosso dal birignao del politicamente corretto che fa tutti uguali, e tutti noiosi. E di così tante storie. E forse di qualche rimpianto. “Ma scusa, non era meglio quando voi eravate comunisti e noi fascisti?”. Una notte la passammo a far ore piccole, dopo un fortuito incontro tra edicole e piazze, con il professor Augusto Barbera, illustre costituzionalista e deputato Pds, e Primo Greganti, il compagno G., che molto Teodoro elogiò e molto ammirò – “è stato in cella e non ha parlato, uno coi coglioni, mica come ’sti cagasotto del Polo”. E il caffè e un’altra grappa e ancora risate. “Viviamo in una società di merda, se non dai un pugno allo stomaco nessuno si accorge di niente”. E ti sorprendeva spiegandoti che non mangiava carne perché la memoria dell’animale ucciso, il suo sangue, per sempre conserva l’incancellabile attimo di terrore della morte – e il ragionare suo quello di Plutarco, che sublime e feroce contro il divorare bestie si scagliava, quasi ricalcava. “Ma tu non sei mussoliniano, sei plutarchiano!”. E allora si faceva pensoso, e poi ancora rideva: “Plutarchiano va bene, ma pure mussoliniano non è male”. E rideva pure quel giorno d’estate a Montecitorio, quando fu superato all’ingresso da una collega polista arditamente abbigliata, pantaloni pitonati e maglietta al minimo. Sulla soglia, i soldatini di guardia seguivano con sguardo sbavante il vistoso posteriore dell’eletta che transitava in mezzo a loro. Così, nell’afa di luglio, s’udì nella piazza rimbombare l’urlo d’allarme di Teodoro: “Ahò, fate largo, che mo’ lì dentro arriva la società civile!” (arrivò, purtroppo).
Era la perfetta icona del fascista da sbattere in gazzetta, in quei pazzotici anni Novanta, pur se lui, per ben figurare, e per adeguatamente sfottere Repubblica che gli chiedeva quali libri avesse mai letto, si consigliava e comunicava: “‘Sexual Personae’, di Camille Paglia” – fu allora un fiorire di pensose, filosofiche interviste al Pecora venuto da Ortona – che ne godeva, e ancor di più ne sghignazzava. Rivendicava e s’accalorava: “Rischiavamo la pelle e la libertà mentre la società degli anni Settanta scopava, ballava, si divertiva e comprava il televisore a colori…”. Riuscì a parlare in Aula per 28 ore di seguito, “mangiavo miele e acciughe, come Enrico Caruso”. Gli regalai un paio di gemelli con il fascio littorio, rinvenuti in un cassetto. “A me certo non servono”. “A me sì!”. Li scrutò con ardita tenerezza, poi passò lo sguardo dubbioso sui colleghi polisti lì a fianco: “Se me li metto, a quelli gli piglia un colpo!”. Un giorno, con giusto sdegno, una raffinata collega spagnola lo intervistava su certe fiaccolate contro i trans che aveva animato. E lui, cercando le parole nella lingua ignota, provò così a spiegarsi: “Vede, segniorìta, los frocios…”. Fu pieno di passioni, di pensieri molto politicamente scorretti, di vita dura che bruciava. Ma almeno è sempre vita vera.
(di Stefano Di Michele)
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