Nel
1977 comprai una confezione di punti metallici, trentasei anni dopo
continuo a usare quei punti e la confezione è solo a metà. Mi commuove
pensare che da ragazzo feci un acquisto per la vita. Peccato che si
tratti di un'inezia come i punti metallici. Per il resto i miei
cellulari durano un anno, i computer due o tre, le stampanti anche meno.
E tutto, dagli alimenti ai vestiti, scade maledettamente sempre più in
fretta. In epoca neofrancescana come la nostra, acquista grande
importanza la denuncia delle cose pianificate per durare sempre meno.
È uscito in questi giorni in Italia un efficace libretto di Serge
Latouche - quel Latouche che piace alla nuova eco-sinistra e alla nuova
destra e piace ora ai grillini - intitolato Usa e getta che narra «le
follìe dell'obsolescenza programmata» come dice il sottotitolo (edito da
Bollati Boringhieri, come le altre sue opere, pagg. 114, euro 14,50).
Latouche è l'autore più noto della decrescita felice e dell'abbondanza
frugale, due ossimori per rendere dolce il sacrificio e gioiosa la
rinuncia. L'obbiettivo è riproporre i limiti dello sviluppo e dei
consumi, come si disse nel '72, ma come aveva già detto Mussolini alle
soglie degli anni Trenta criticando l'utopia dei consumi illimitati. Il
capostipite di questa denuncia di Latouche fu Vance Packard, l'autore de
I persuasori occulti, che già nel 1960, mentre noi ci beavamo nel boom
economico, in The Waste Makers denunciava la pianificazione del guasto,
la vita breve delle cose programmata per tenere vivo il ciclo dei
consumi. Prima di lui Thorstein Veblen aveva anticipato considerazioni
analoghe nella sua La teoria della classe agiata, anche se lui parlava
di adulterazione, non di obsolescenza.
Molti arnesi sono oggi programmati per sfasciarsi presto; e riparare
costa più che comprare il nuovo. La filosofia del consumo si basa sulla
crescita illimitata fine a se stessa, per nutrire il capitalismo. Ma
anche, aggiungiamo noi, per salvaguardare i livelli di benessere
raggiunti dalle masse come mai era accaduto. Bisogna saper vedere le
cose interamente, da ambo i lati. Però le risorse non sono illimitate e
la popolazione cresce a ritmo spaventoso. Il parametro lo indicò il
presidente americano Eisenhower che già negli anni '50 per fronteggiare
la recessione disse: comprate qualsiasi cosa (mitico precursore di
Berlusconi). Latouche così descrive «la giostra diabolica: la pubblicità
crea il desiderio di consumare, il credito ne fornisce i mezzi,
l'obsolescenza programmata ne rinnova la necessità». E cita i guru di
quest'industria che si autodefiniscono «mercanti di scontento» e si
prefiggono di farci «sbavare». Meglio dieci ladri che un solo asceta,
così Günther Anders coglieva l'essenza del consumismo e i suoi veri
nemici. Alla falsificazione, nota Latouche, è d'ostacolo la tradizione
che amava trasmettere anche le cose di generazione in generazione e
reputava virtù il risparmio e la durata. Ma in questa prospettiva
Latouche finisce con incontrare e rivalutare il fascismo, per la sua
politica dell'autarchia, per il riciclaggio delle cose e i prodotti a
chilometro zero; ma anche per l'uso dei filobus che utilizzavano il
carbon fossile anziché la benzina.
Una lettura significativa al riguardo è la ricerca di Marino
Ruzzenenti, L'autarchia verde (Jaca Book, 2011) dove quella politica
degli anni Trenta è vista come laboratorio della green economy. Ma il
fascismo, va detto, avviò pure un processo di forte modernizzazione e
industrializzazione. Più in generale la visione di Latouche collima con
quella visione della vita basata su «non sprecare il pane quotidiano»
come diceva un manifesto d'epoca, l'elogio del risparmio, l'etica del
sacrificio francescano che Mussolini definì «il più santo degli italiani
il più italiano dei santi». Temi cari a Latouche che però poi teme
nella nostra epoca il sorgere di forme di «ecofascismo».
Ma dove porta la critica catastrofista di Latouche e Dupuy, di Susan
George e Paolo Cacciari, degli «obiettori di crescita» contro
l'obsolescenza programmata? È sacrosanta la denuncia della fragilità
prestabilita delle merci, la loro deperibilità, sia programmata che
psicologica o simbolica. È vera la denuncia della scomparsa di tanti
mestieri fondati sulla riparazione. Ed è comprensibile il rimpianto del
tempo antico, con le sue cose durevoli come i sentimenti. Ricordo
anch'io con tenerezza chi risuolava le scarpe, chi riparava e rammendava
ogni cosa; da noi c'era perfino chi riaffilava le lamette usate... Ma
quel che vale sul piano poetico vale sul piano economico e sociale? Qui
risale l'aspetto utopico, l'idealizzazione di pratiche che avevano anche
il loro rovescio e si inserivano in un modello di vita che non sarebbe
più accettato. E poi come si esce da questa società? Con la catastrofe,
dice Latouche che in un altro, recente libro a più mani (Dove va il
mondo?, sempre di Bollati Boringhieri) vede come una fortuna: esplode la
bolla finanziaria, crolla il sistema finanziario, finisce l'euro. Ma
poi la catastrofe si abbatterà sulla vita reale dei popoli, e saranno
dolori per tutti, a partire dai più poveri e più deboli.
In secondo luogo la difesa dell'eco-sistema, tra green economy,
riciclaggio e limitazione dei consumi, ha efficacia se è una politica
mondiale. Se Paesi enormi in crescita come la Cina o l'India si
sottraggono a questi limiti, sono imprese destinate alla sconfitta
planetaria. Qui emerge il non detto o il detto in modo contraddittorio:
per fronteggiare adeguatamente la corsa folle dei consumi e la
devastazione del pianeta, occorrerebbe un governo mondiale unico e
autoritario. E Latouche da un verso teme il dominio di un Amministratore
unico mondiale, un Grande Fratello «decisamente poco fraterno», ma
dall'altro riconosce che le misure efficaci in tema ecologico richiedono
Stati forti, ampie statalizzazioni, uso in comune di beni durevoli,
economie collettive e scelte coercitive. E questo inquieta. Non so se il
giogo valga la candela... Ma questo ci riporterebbe nei paraggi del
fascismo, ecofascismo o socialfascismo, che alla fine resterebbe l'unico
modello coerente con le richieste di Latouche per uscire da questo
modello di società; uno Stato forte che decide, interviene, limita e
tutela. Altrimenti non restano che risposte puramente locali a problemi
che restano però mondiali; e poi class action, appelli e proteste
circoscritte.
O l'arcadia, il rimpianto poetico del passato. O la speranza mistica
che alla fine solo un dio ci potrà salvare. A questo punto, meglio
affrontare le cose con attivo realismo, fuori da utopie e tirannie ma
anche fuori da inerzie e complici cecità.
(di Marcello Veneziani)
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