Non
riuscirono la legge Scelba, l'antifascismo militante, l'arco
costituzionale, i processi, le violenze, gli scontri di piazza, la
ghettizzazione, le scissioni pilotate e mille altri accidenti a far
sparire la destra in Italia. Ci è riuscito il suo ex leader Fini (salvo
accusare Berlusconi della sua scomparsa, lui che portò la destra al
governo, ma la destra si rivelò incapace d'incidere).
Esce ora il libro di un costituzionalista e una penna affilata, Paolo
Armaroli, già parlamentare di An, dal titolo significativo: «Lo strano
caso di Fini e il suo doppio» (edito da Pagliai). Armaroli fa la storia
del dottor Jekyll/Hyde della destra italiana ma conviene sulla tesi che
alla morte di Tatarella - il suo burattinaio - Fini fu ossessionato
dall'idea di liberarsi di Berlusconi. Legittima aspirazione, ma a tre
condizioni: una, di non succhiare benefici e incarichi da chi vuoi
abbattere; due, di non fare del proprio partito la pallida fotocopia del
suo; tre, di essere un vero leader e non solo uno speaker. In Fini non
ci fu niente di questo, lo muoveva solo il rancore, più qualche ormone
vagante.
Chi, come me, lo criticava da tempo e prevedeva questa parabola
(Armaroli ha contato negli anni cinquanta miei pezzi su Fini) non lo
faceva da berlusconiano ma da uomo di destra tradito da un suicidio con
infamia. Fini non meriterebbe il necrologio politico se non avesse
trascinato nella sua follìa omicida-suicida tre partiti e mezzo, un'area
politica, un governo e un Paese. A volte anche microbi possono produrre
catastrofi.
(di Marcello Veneziani)
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