domenica 5 maggio 2013

Gramsci leninista perfetto. Altro che erede di Gobetti


Tutta l'opera di Antonio Gramsci è stata il poderoso tentativo di tradurre il marx-leninismo in italiano. Per compiere questa traduzione, Gramsci mobilita la storia d'Italia e i suoi principali teorici, da Machiavelli a Gioberti, da Gentile a Croce, dai sociologi delle élites alla letteratura nazionale. 

Le sue idee chiave, i suoi concetti cardine derivano da Lenin. Perfino l'adozione della via nazionale al comunismo e della democrazia come fase transitoria verso la dittatura del proletariato derivano da Lenin, anzi furono ascoltati dalla sua viva voce, nel corso della permanenza di Gramsci a Mosca tra il 1922 e il 1923, mentre in Italia andava al potere Mussolini. Gramsci si propose di far combaciare il Principe di Machiavelli col Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels. I due traduttori del marxismo in filosofia della praxis sono per Gramsci Georges Sorel e Giovanni Gentile. Sorel è citato all'esordio della sue Noterelle su Machiavelli come l'autore che eleva il Principe a Mito, cioè a creazione della «fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva». Gentile, invece, è il filosofo che reinterpreta Marx, anzi per Gramsci «è il filosofo italiano che più in questi ultimi anni abbia prodotto nel campo del pensiero lo sviluppo ultimo dell'idealismo». Era il 1918, e poco dopo Gramsci, Tasca e Togliatti daranno vita a Ordine Nuovo, una rivista di marxisti gentiliani. Il riferimento a Gentile poi sparisce e nei Quaderni dal carcere si fa critico perché Gentile è diventato il filosofo del fascismo. Resta l'impronta gentiliana nella visione gramsciana dello stato pedagogico e totalitario, nel primato del noi, nella centralità della cultura, nell'identità di teoria e prassi, filosofia e politica, nella riforma morale, intellettuale e civile. Ma i riferimenti a Sorel e Gentile non tradiscono il leninismo, anzi sono ambedue rigorosamente iscritti dentro il leninismo: Gentile fu l'unico filosofo vivente citato positivamente da Lenin nel suo profilo di Marx (riferimento poi cancellato da Togliatti nella traduzione italiana del 1950). E di Sorel, alla sua morte, si contesero le spoglie Mussolini e Lenin che lo consideravano ambedue maestro e precursore. È curioso pensare che il perimetro Marx-Sorel-Gentile-Machiavelli unisca Gramsci a Mussolini. Li separerà la lotta di classe che in Mussolini si fa lotta tra le nazioni.

Anche il nazionalpopolare è di marca russo-leninista e Gramsci lo traduce nella linea giobertiana e gentiliana; ma sostituisce l'ispirazione romantica e risorgimentale dei primi con l'impronta illuministica e rivoluzionaria. Il progetto di Gramsci è portare l'illuminismo alle masse, tramite il partito giacobino, nuovo Principe, che per Gramsci s'incarna nel Partito Comunista. Quel partito giacobino che, a suo dire, mancò al tempo del Risorgimento privando l'unità di una direzione progressiva. Il giacobinismo riporta Gramsci a Lenin e alla linea radicale dell'illuminismo e lo separa da Sorel e da Gentile, che furono antigiacobini. 

Il pensiero di Gramsci non divorzia da Lenin neanche quando teorizza l'egemonia, ferma restando la meta della dittatura del proletariato, o quando definisce il partito totalitario erede rivoluzionario del Principe. Gramsci pensa a Lenin quando oppone il cesarismo progressivo dei bolscevichi al cesarismo regressivo dei fascisti, la violenza progressiva degli uni alla violenza reazionaria degli altri, il totalitarismo espansivo dei primi al totalitarismo repressivo. Ma chi stabilisce quel che è progressivo e quel che è regressivo, la violenza terapeutica e quella sistematica, il totalitarismo buono e quello cattivo? Il Partito: «ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o nell'imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita». Mirabile sintesi di un processo che porta dal relativismo all'assolutismo: non esistono valori oggettivi né principi superiori, ma tutto è commisurato all'utilità del soggetto-principe che decide sui princìpi, sui valori, sulla morale. E dunque uno stesso atto può diventare legittimo o illegale, ammissibile o inammissibile, eroico o infame, morale e immorale, vero o falso se compiuto dal Principe o dai suoi nemici. Quanto abbia inciso questa concezione, relativista e assolutista al tempo stesso, sull'ideologia dell'intellettuale Collettivo, il partito, e dei singoli militanti, è ancora sotto i nostri occhi. 

Precorrendo la svolta giudiziaria dei nostri anni, Gramsci scrive sull'Avanti! torinese del 18 febbraio 1920: «il controllo della forza armata dovrebbe passare dalle mani del governo nelle mani di un potere indipendente dal governo e dal parlamento, nelle mani dell'ordine giudiziario, divenuto potere attraverso un'assemblea costituente». Un regime dei giudici, insomma. Sempre nello stesso scritto, Gramsci critica lo Stato unitario italiano con gli stessi argomenti dell'odierna vulgata antirisorgimentale. Per Gramsci «lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti» (Il Lanzo ubriaco, ne L'Ordine Nuovo, Einaudi, 1954).

Il destino tragico di Gramsci ebbe un risvolto paradossale: una dittatura ostile lo costrinse al carcere, una dittatura comunista lo avrebbe eliminato; e in mezzo ai due regimi totalitari, Gramsci teorizzava in carcere un altro sistema totalitario. Senza il carcere, Gramsci avrebbe probabilmente guidato una scissione nel Partito Comunista. 

La fortuna di Gramsci culminò nell'Italia degli anni Settanta, dopo Togliatti. Poi sorsero due letture revisioniste di Gramsci: a sinistra il cosìddetto gramsciazionismo, ovvero un Gramsci letto come la prosecuzione di Gobetti, una versione radical-liberal che sbarcò anche negli Usa. Dall'altra parte sorse il gramscismo di destra che coglieva l'idea gramsciana di conquistare consenso e potere tramite la conquista della cultura. La matrice era gentiliana o nell'idealismo militante del primo '900 e Gramsci teorizzava in carcere quel che lo stesso Gentile e Bottai realizzavano nel fascismo. Il progetto fu ripreso nel dopoguerra da Togliatti che gettò le basi all'egemonia culturale del Pci; dopo il '68 mutò in egemonia della sinistra radical giacobina.

Resta viva di Gramsci la lucidità intellettuale di una visione ideologica che rilegge la storia, il pensiero e la letteratura; il primato civile della cultura, la centralità del nazional-popolare, la fragilità del fisico unita al vigore eroico del suo pensiero, la tenerezza dei suoi sentimenti intimi. Tra le sue struggenti lettere ai famigliari ce n'è una scritta a sua madre Peppina per l'onomastico. Era il 1934 e non avevano detto a Nino che sua madre era morta un anno e mezzo prima. Il Natale prima aveva ricevuto un pacco di biscotti e lui aveva spiegato ai carabinieri «li ha fatti certamente mammà», non sapendo che era deceduta da tempo. Il carcere negò a Gramsci la verità anche nella sfera degli affetti più cari.

(di Marcello Veneziani)

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