venerdì 30 gennaio 2009
Firenze 1944-45, intellettuali nella tempesta
Discorrendo, una settimana fa, con Giampaolo Pansa, è capitato a chi scrive di convenire con lui su un’impressione comune. Si tratta dell’avvento, nelle redazioni come nel mondo universitario, di una nuova generazione che si potrebbe definire postideologica: una generazione di 30-40enni cresciuti quando il Muro era caduto e la Guerra Fredda volgeva alla fine, capaci di guardare anche agli eventi del fascismo e della guerra civile con un distacco impensabile non solo nei loro padri, ma anche nei loro fratelli maggiori. D’altronde, leggendo molta saggistica, nata in molti casi dallo sviluppo di tesi di laurea, si ha l’impressione che qualcosa stia effettivamente cambiando, almeno fra i giovani più colti. Un esempio in questa direzione è costituito dal saggio di Marco Cigni Il fascismo repubblicano fiorentino (Edizioni Becocci, pp. 192, € 10), appena edito da una piccola casa editrice del capoluogo toscano e nato dallo sviluppo di una tesi di laurea discussa al “Cesare Alfieri” col professor Luigi Lotti come relatore. Lotti, che ha firmato la prefazione dell’opera ed è stato a lungo preside della facoltà, si distingue da tempo per la capacità di guardare con serenità all’esperienza fascista (e anche neofascista). Più di vent’anni fa, nella relazione tenuta al convegno La Toscana nel secondo dopoguerra, organizzato nel dicembre 1988 dall’Istituto Storico della Resistenza in Toscana e dall’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione, ebbe il coraggio di sostenere che la scelta del Comitato toscano di liberazione di insorgere l’11 agosto 1944 nacque «da un errore di valutazione del Cln toscano che voleva fare un’insurrezione simbolica nel momento in cui i tedeschi avessero abbandonato la città». Negli stessi anni, aggiornando la gloriosa storia dei partiti politici italiani di Carlo Morandi, riedita dalla Le Monnier, Lotti si segnalava per l’obiettività con cui trattava l’evoluzione del Msi, di cui prevedeva la fine dell’emarginazione anche in seguito alla progressiva «storicizzazione del fascismo». Il noto saggio del politologo Piero Ignazi sul “polo escluso” era d’altronde ancora di là da venire.Più di recente, Lotti ha promosso per i suoi laureandi una serie di studi monografici sul fascismo fiorentino negli anni della Rsi, di cui non fa parte solo il saggio di Cigni. Prima di lui si era cimentata su un argomento analogo Monica Pieraccini, in uno studio di ancor più vasta portata, poi edito in un volume già recensito su queste pagine (Firenze e la Repubblica Sociale Italiana. 1943-1944 Edizioni Medicea, Firenze 2003). Rispetto al saggio della Pieraccini, il volume di Cigni non cerca di ricostruire l’intera vita sociale e culturale del capoluogo toscano, ma concentra la sua attenzione, come recita il sottotitolo, sull’analisi della «organizzazione politica e militare negli undici mesi della Rsi». Anche in questo caso, si tratta solo all’apparenza di un saggio di storia locale, per il ruolo nazionale svolto in questo periodo dal fiorentino Alessandro Pavolini, che era segretario del Partito fascista repubblicano. Sulle rive dell’Arno, facendo organizzare i franchi tiratori, che sparavano senza indossare un’uniforme, Pavolini scelse per la prima volta di adottare tecniche della guerriglia adottate fino allora solo dalla Resistenza. E proprio dall’esperienza del capoluogo toscano maturò la sua decisione di istituire le Brigate nere, contrapposte anche nella denominazionealle brigate partigiane. La ricerca di Cigni, che si basa in buona parte sulle carte dell’Archivio centrale dello Stato e di altri fondi archivistici, ma anche sulla testimonianza del capo ufficio stampa del Pfr, Mario Vannini Parenti, e sui bollettini dell’Istituto storico della Repubblica sociale italiana, fornisce un quadro quasi completo sul personale politico del fascismo repubblicano fiorentino. La ricostruzione è tutt’altro che apologetica, ma non irrispettosa della complessità delle motivazioni che accompagnarono anche nel capoluogo toscano l’adesione alla Rsi. Un caso tipico: i due segretari federali che si succedettero negli undici mesi della Rsi sulle rive dell’Arno: Gino Meschiari, uomo “idealista e moderato”, di estrazione repubblicana, che cercò di ripulire la federazione dai delinquenti comuni e si oppose alla fucilazione degli ostaggi, e il suo successore Fortunato Polvani, ex squadrista, che fu tra gli organizzatori dei franchi tiratori.Dalla ricca documentazione di Cigni trovano conferma impressioni che chi scrive si era sentito esternare da persone che avevano vissuto quegli anni, come il fatto che il fascismo repubblicano fiorentino avesse interpretato la svolta sociale della Rsi in chiave populista, senza riuscire a “sfondare” nel proletariato operaio, ma aprendo le sue file a un sottoproletariato fra cui non mancavano i pregiudicati per reati comuni (inquietanti i precedenti di alcuni membri della banda Carità e di Giovanni Martelloni, responsabile dell’Ufficio affari ebraici). Se una critica può essere mossa al saggio è quello di avere limitato la ricerca all’ambito politico-militare, escludendo un aspetto tutt’altro che minoritario del fenomeno: la collaborazione di numerosi esponenti della cultura alle iniziative della Rsi. Il fascismo repubblicano fiorentino non fu soltanto fanatismo politico e in certi casi delinquenza comune. Fu anche Gentile assassinato, fu Primo Conti, Ardengo Soffici, Giovanni Spadolini, Arrigo Serpieri, che parteciparono all’esperienza di Italia e Civiltà. Fu quella straordinaria e purtroppo dimenticata figura di esploratore e geografo che corrisponde al nome di Giotto Dainelli, podestà di Firenze durante la Rsi, ma anche successore di Gentile all’Accademia d’Italia, epurato ma infine riabilitato. Non sempre si può però parlare di una generica contrapposizione fra moderati ed estremisti. Esponenti del fascismo repubblicano furono infatti almeno due qualificati esponenti della destra culturale: Attilio Mordini, vicino per qualche tempo a Carità, e Aniceto Del Massa, incaricato da Pavolini, insieme al suo segretario Puccio Pucci, di organizzare un servizio di spionaggio nei territori occupati dagli alleati, la cosiddetta organizzazione Pdm, dalle iniziali di entrambi. Se nel caso di Attilio Mordini, futuro collaboratore dell’Ultima ed esponente di spicco di un certo tradizionalismo cattolico (quello non oltranzista e aperto al dialogo inter-religioso), sull’apprezzamento generale poté influire la sua giovane età, più complesso è l’itinerario ideologico di Del Massa. Nato a Prato nel 1898, cresciuto nel clima delle riviste fiorentine del primo Novecento, bulimico autodidatta poco incline agli inquadramenti ideologici, dopo la partecipazione alla grande guerra Aniceto Del Massa aderì al fascismo, divenne redattore del quotidiano La Nazione, ma soprattutto condivise con Arturo Reghini, inquieto intellettuale di estrazione neopitagorica e massone dichiarato, l’esperienza esoterica delle riviste Atanòr e Ignis, per poi confluire nel cosiddetto “Gruppo di Ur” con Julius Evola e René Guénon. Ma il suo impegno culturale non può essere ridotto solo a queste esperienze che, per lui come per altri intellettuali, rappresentarono senz’altro un episodio importante. Per esempio, fu anche un finissimo critico d’arte e la sua raccolta di disegni di Lorenzo Viani, edita con Hoepli nel 1942, costituisce una delle prime testimonianze sul maestro viareggino. Dopo la guerra Del Massa pagò anche con il campo di concentramento, prima a Padula e poi a Terni, e con l’epurazione il suo impegno politico, salvo riprendere l’attività giornalistica e divenire responsabile delle pagine culturali del nostro Secolo d’Italia, di cui mantenne la responsabilità fino al 1961. Negli anni della vecchiaia tornò agli antichi interessi esoterici, avvicinandosi al taoismo e all’antroposofia di Rudolf Steiner. Morì nel 1975, nella generale indifferenza, ma negli ultimi anni si è registrato un ritorno d’interesse sulla sua figura. Se Giuseppe Parlato, nel suo Fascisti senza Mussolini, ne ha ricostruito il ruolo politico al termine della guerra, studiosi come Angelo Jacovella, Gianfranco de Turris e Gennaro Malgieri hanno cercato d’inserirne l’esperienza all’interno di una più ampia componente spiritualistica della cultura italiana. Jacovella, che già nel 2000 ne aveva ricostruito il sodalizio e l’interlocuzione con Ezra Pound in un saggio pubblicato sulla rivista Atrium, ha pubblicato di recente, per le edizioni “La Finestra”, una raccolta di suoi scritti, Pagine esoteriche, con prefazione di Malgieri. E Gianfranco de Turris gli ha dedicato adeguata attenzione nel suo volume sul Esoterismo e fascismo (Edizioni Mediterranee), in compagnia di autori come Arturo Reghini, Julius Evola, Massimo Scaligero, Guido De Giorgio, Roberto Assagioli, il duca Colonna di Cesarò. Al tempo stesso, la Fondazione Ugo Spirito ha acquisito le vastissime carte personali di Del Massa, comprendenti, fra l’altro, diari e testi inediti di notevole valore. Ci sono forse le condizioni per uno studio biografico su uno dei non pochi intellettuali della destra italiana che, tra fascismo, guerra e dopoguerra, riuscirono a coniugare politica, esoterismo e cultura.
di Enrico Nistri (Il Secolo D'Italia)
Soru? Pescecane travestito da spigola
di Francesco Cramer (fonte: http://www.ilgiornale.it/)
Un calcio al dialogo eterno
Il comportamento scandaloso del governo brasiliano sul caso Battisti merita una risposta che vada oltre i consueti balletti di scartoffie. Dichiarazioni limate dagli ambasciatori e pacche sulle spalle. E allora gli si dica, a Lula: cari voi, visto che potremmo boicottarvi solo samba, Copacabana e olio di colza, abbiamo deciso che non giochiamo a pallone. Niente partita, niente monetina per decidere a chi la palla a chi il campo, niente cori, niente inno, niente scambio di gagliardetti e marmocchi che tengono per mano i calciatori.
Perché questa amichevole sta trasformandosi, anzi si è già trasformata in un’inimichevole. Scusate, cari carioca e orecchie da mercante, caro ministro Tarso Genro, se siete persuasi che in Italia Battisti potrebbe essere ucciso perché da noi esistono ancora «apparati di repressione illegali», manco fossimo nel Brasile di Vargas (Getúlio, non Fred), ma che fate, un’amichevole con la nazionale di un Paese dove la gente viene seviziata, voi che rispettate ovunque i diritti umani, specie nelle favelas? Sapendo che film come Tropa de elite, dove si mostrano le pratiche di tortura in uso presso la polizia brasiliana, sono sporca propaganda imperialista, lo diciamo noi alla nazionale verdeoro: se ci tenete alla vostra qualità democratica, rifiutate di giocare con l’Italia. Trattateci come il Sud Africa dell’Apartheid. Sennò, sarà l’Italia a rifiutarsi.
La storia che bisogna tenere fuori lo sport dalla politica è buona per le favolette olimpioniche ma non per la dura realtà, e questo a maggior ragione vale per lo sport più popolare del mondo. I vicini di casa dei brasiliani lo sanno bene: con la vittoria ai mondiali del 1978 i generali argentini sono riusciti a rimandare il conto delle loro nefandezze, e la mano de dios di Maradona nel 1986 è valsa la rivincita simbolica sulla perfida Albione per la sconfitta alle Malvine. E, poi, la guerra serbo-croata non è cominciata con gli incidenti a una partita tra Stella Rossa Belgrado e Dinamo Zagabria? E partite come Real Madrid-Atletico Bilbao non sono il palcoscenico delle lotte tra spagnoli e baschi? Ecco qual è la valenza del calcio nell’immaginario popolare. Allora diamo una scossa alla nostra fama di eterni dialoganti: il 10 febbraio non si deve giocare. Anzi, se si può, s’appenda perfidamente al balcone il poster di Paolo Rossi che infilza Peres.
di Angelo Mellone (www.ilgiornale.it)
giovedì 29 gennaio 2009
Rose rosse per ricordare le vittime di Battisti
''Con la negazione dell'estradizione da parte del Brasile e' stata infangata la memoria delle vittime", ha dichiarato Roberta Angelilli, annunciando che da sabato prossimo verranno promosse numerose iniziative per chiedere l'estradizione dell'ex leader dei Proletari armati per il comunismo. (Adnkronos)
Così Soru per combattere i ricchi mette ko il turismo in Sardegna
I fatti sono che il governatore dimissionario ha fatto di tutto per smantellare la fetta più redditizia del turismo sardo, quella dei vacanzieri ricchi, che hanno (o vorrebbero avere) la villa fronte mare, atterrano in elicottero o attraccano con lo yacht e spendono, spendono, spendono. «Cento battelli valgono centomila camperisti - dice Cuccureddu -. Ogni passeggero di una barca di 40 metri spende mille euro al giorno, stima prudente. La Sardegna non può puntare sul turismo di massa ma su quello di qualità».
Politica opposta a quella di Mister Tiscali. «Pochi giorni dopo la sua vittoria elettorale - racconta il sindaco, ora candidato per l'Mpa con Ugo Cappellacci - incontrai un docente universitario di antropologia che aveva contribuito a scrivere il programma di Soru. Mi disse: dobbiamo sommessamente uscire dal turismo, è la mercificazione dell'ospitalità dei sardi, è un disvalore, non possiamo svenderla. Pensavo fosse una battuta, al massimo la strampalata teoria di un accademico».
Invece era una sintesi programmatica. Soru ha cominciato cancellando le agenzie del turismo (l'Ente sardo industria e turismo, gli Enti provinciali del turismo e le Aziende di soggiorno). Erano le strutture che sul territorio facevano la promozione, assegnavano le stelle agli alberghi e raccoglievano i dati statistici. Tutto sparito, eliminato l'unico termometro che analizzava i flussi. Le competenze dovevano passare all'assessorato regionale al Turismo, a sua volta soppresso dalla legge statutaria.
Un'altra legnata si è abbattuta con il piano paesaggistico, che non ha soltanto vietato (salvo deroga concordata direttamente con il governatore) di costruire alberghi fuori dei centri abitati, ma prevedeva di eliminare la segnaletica turistica: cartelli e frecce imbruttivano l'isola. Il Tar ha annullato il provvedimento. «Girava la battuta che Soru avesse interessi in qualche ditta di navigatori» scherza Cuccureddu.
Ma la mina più grossa per l'immagine della Sardegna è stata la tassa sul lusso, la stangata su seconde case, approdo delle barche sopra i 14 metri, scalo dei velivoli. Se sei ricco, per mettere piede sull'isola paghi. Una sorta di dazio medievale. Un provvedimento così sconclusionato che costava più di quanto fruttava, perché le spese di riscossione affidata alla forestale erano maggiori del gettito (1,5 milioni di euro nel 2006), e che continua a pesare sulle casse pubbliche: siccome la Corte costituzionale ha abolito il grosso della tassa, Soru ha dovuto istituire un ufficio per restituire i prelievi non dovuti.
Il danno di immagine sul turismo è incalcolabile. Dall’1 giugno al 30 settembre 2005, nei 13 scali della Rete porti (tra cui Alghero, Arbatax, Santa Teresa di Gallura e La Maddalena) erano attraccate 1741 imbarcazioni sopra i 14 metri; nello stesso periodo del 2006, dopo l'introduzione della tassa, 1007: il 42,2 per cento in meno, crollo consolidato nel 2007 e 2008. In Corsica hanno tappezzato le capitanerie di porto con le tariffe sarde: si fregano ancora le mani.
I servizi legati alla nautica (agenzie, ristoranti, tassisti, benzinai) hanno perso il 30 per cento del fatturato. Alcuni porti hanno dovuto alzare le tariffe di ormeggio annuali, e i proprietari di queste barche è prevalentemente gente del posto. Più che sul lusso, è una tassa sui sardi. Da molti Paesi europei sono piovute disdette di accordi già stipulati: «A seguito assurda tassa desisteremo da visite alla Sardegna», ha scritto la potente Adac tedesca.
In un'intervista all'agenzia Reuters del luglio 2007, rilanciata da giornali e tv di tutto il mondo, il governatore si giustificò così: «Pranzare in un ristorante sardo può costare 5000 euro, e non c'è una tassa regionale». Mille euro per un posto barca (che salivano a 15mila per quelle di oltre 60 metri), 5000 per sedersi a tavola: la Sardegna di Soru è l'isola di Tafazzi.
di Stefano Filippi (www.ilgiornale.it)
Tolgono i bimbi ai nonni per darli a una coppia gay
Londra - Meglio adottati da una coppia gay che dai loro nonni. Due bimbi scozzesi, fratello e sorella di cinque e quattro anni, sono stati tolti dai servizi sociali di Edimburgo ai loro nonni naturali e stanno per venir adottati definitivamente da una coppia omosessuale ritenuta più adatta agli interessi dei bimbi.
Per la legge infatti i genitori della madre dei piccoli, che da tempo non è in grado di occuparsene perché eroinomane, sono troppo vecchi per crescere i nipoti. Cinquantanove anni lui, quarantasei lei, i signori, la cui identità non è stata rivelata ai giornali, hanno lottato per due anni per riottenere la custodia dei bimbi fino all’esaurimento di tutte le loro risorse finanziarie. Quando non sono più stati in grado di pagare le spese legali hanno dovuto desistere rassegnandosi all’ipotesi di un’adozione.
Di certo però, non si aspettavano che ad adottare i nipoti sarebbero stati due uomini. Come hanno raccontato ieri al tabloid inglese Daily Mail, sapevano che in lista d’attesa per l’adozione c’erano anche molte coppie eterosessuali e la decisione di dare la priorità ad una coppia gay è parsa loro profondamente squilibrata.
Eppure, quando il nonno ha osato protestare, sembra gli sia stato detto che nel caso si fossero rivelati ostili a questa decisione non avrebbero più rivisto i bambini. «Mi si spezza il cuore a pensare che i nostri nipoti siano costretti a crescere in un ambiente familiare privo di una figura materna - ha spiegato il nonno affranto - noi non abbiamo pregiudizi nei confronti dei gay, ma sfido chiunque a spiegarmi come una simile scelta possa rivelarsi la migliore nei confronti dei piccoli».
Gli stessi operatori dei servizi sociali hanno dovuto ammettere che, soprattutto la bambina, non si trova particolarmente a proprio agio con gli uomini e quindi l’inserimento in una famiglia tutta maschile potrebbe essere più problematica per lei.
Il caso ha già sollevato feroci polemiche in Scozia, un Paese dove alle coppie omosessuali è stato consentito di adottare nel 2006, nonostante una consultazione pubblica avesse chiaramente rivelato che il 90 per cento della popolazione era contro un simile provvedimento. Ora, l’opinione pubblica inizia ad interrogarsi su quale livello di interferenza nella vita privata e familiare sia accettabile da parte delle autorità locali. Soprattutto quando i protagonisti sono dei minori.
I più critici hanno sottolineato che di questi tempi, alcune autorità locali hanno negato il diritto all’adozione a coppie di fumatori o di obesi, ma hanno sostenuto fortemente l’affido e l’adozione per le coppie gay sebbene gli studi scientifici abbiano dimostrato che un bambino cresce meglio in una famiglia tradizionale composta da un padre e da una madre. Ieri anche un portavoce della chiesa cattolica ha condannato la decisione delle autorità di Edimburgo. «Si tratta di una scelta devastante - ha dichiarato - che avrà un grave impatto sul benessere dei bambini coinvolti».
di Erica Orsini (http://www.ilgiornale.it/)
martedì 27 gennaio 2009
Se un assassino diventa rifugiato politico
Il presidente di Azione giovani Roma, Cesare Giardina, presente alla manifestazione, ha detto: "E' vergognoso che il ministro della Giustizia brasiliano abbia concesso a Battisti lo status di rifugiato politico, bloccando l'iter per l'estradizione, nascondendo inoltre la motivazione dietro un improbabile rischio di persecuzione". "Le uniche persecuzioni che fanno testo, nella fattispecie, sono quelle perpetrate da Cesare Battisti - che non ha scontato in Italia nemmeno un giorno della prevista condanna all'ergastolo - ai danni di cittadini inermi, arrivando ad uccidere ben quattro persone - ha aggiunto - Continueremo a manifestare finché Cesare Battisti non pagherà il suo tributo alla giustizia italiana". "Chiediamo al governo brasiliano di rivedere la sua decisione e concedere l'estradizione dell'ex leader dei 'proletari armati' - ha concluso - Deve tornare in Italia e pagare per rispetto alle vittime e perché non può esistere pacificazione senza giustizia".
"Anche se fatto in buona fede, quello del governo brasiliano figura come un atto di ostilità agli occhi del popolo italiano. Esso è frutto di un pregiudizio ideologico che deforma la realtà dei fatti". E' quanto dichiara il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, in merito alla negata estradizione di Cesare Battisti."Quale giustificazione politica - prosegue il ministro - può mai consentire l'impunità di fronte agli omicidi pianificati e commessi da Battisti di un poliziotto, di un gioielliere, di una guardia penitenziaria e di un macellaio?". "Voglio ricordare al governo del Brasile che abbiamo una lunga, lunghissima tradizione giuridica alle nostre spalle, ed è improntata al garantismo e alla giustizia. Considerare, da parte del ministro della Giustizia brasiliano, il nostro impianto civile e giudiziario alla stregua di un barbaro sistema basato sulla regola 'occhio per occhio, dente per dente', è sintomo di grave superficialità e scarso senso della storia". "Mi ha fatto molto piacere constatare - conclude Meloni - come sia politicamente trasversale l'indignazione dell'Italia. Ho sentito telefonicamente il nostro ministro degli Esteri, che intende intraprendere ogni iniziativa utile ad una revisione della decisione assunta dal governo del presidente Lula".
lunedì 26 gennaio 2009
Il falò dell’etica che incenerisce il corpo
domenica 25 gennaio 2009
Tributo a Ottavio Dinale: una vita sulle barricate
"Come è vero ed assurdo che una guerra rivoluzionaria abbia finito per portare l’Italia a destra invece che a sinistra, così è altrettanto vero e non assurdo che avrebbe dovuto e potuto spingerla a sinistra."
Ottavio Dinale , figura chiave del sindacalismo rivoluzionario,nasce a Marostica il 20 maggio del 1871. Laureatosi in Lettere a Padova intraprende l’attività d’insegnante presso un ginnasio di Mirandola in provincia di Modena, salvo essere estromesso dall’insegnamento nel 1898 a causa della sua accesa attività politica fra le masse bracciantili. Riottene il posto, l’anno successivo, sotto stretta sorveglianza delle autorità locali. Nel 1898 è autore di un opuscolo diretto ad avvicinare i giovani al socialismo, una sorta di manuale di dottrina, semplificato, corredato di massime e definizioni che possa “inoculare l’idea nei cuori giovanili, infiammare le giovani menti, prepararle per la conquista dell’avvenire”. Nelle campagne modenesi ha l’opportunità di vivere a contatto con i contadini e trarre le debite conclusioni rispetto alla loro condizione.
Agli inizi del ‘900 nelle bassa padana vediamo l’affermarsi d’innumerevoli Leghe dei lavoratori, unico mezzo di riscossione sociale e rivendicazione salariale. Durante un congresso svoltosi a Bologna, indetto allo scopo di unire le Leghe in un unico movimento, Dinale afferma: «Ecco i due programmi dell’organizzazione dei lavoratori della terra, il minimo - sciopero generale - il massimo - socializzazione della terra. Attorno a questi due centri deve rivolgersi l’azione direttrice del partito socialista, da questi due fuochi può partire una luce che irraggi e vivifichi le coscienze nuove e vergini dei nostri contadini». Il padronato è colto di sorpresa, gli scioperi dilagano le leghe cercano di ottenere un riconoscimento giuridico che i proprietari terrieri vogliono negare. La gioia dovuta ai primi successi e agli effettivi miglioramenti delle condizioni di lavoro, viene ridimensionata dalla reazione padronale che riorganizzatasi a sua volta in Leghe di resistenza, risponde agli scioperi, con l’assunzione di contadini non organizzati o vicini all’ala democratico cristiana (con buona pace della solidarietà classista), oppure ricorrendo all’escomio, disdettando le locazioni a mezzadri e coloni.
E’ in questo clima che vengono a crearsi i primi dissensi fra l’ala riformista del partito socialista modenese e Dinale. Mentre il partito, con la costituzione della Camera del Lavoro di Modena cerca di mantenere le posizioni conquistate, intavolando una trattativa con la reazione, Dinale che nel 1903 era stato considerato “indegno di appartenere al Partito Socialista Italiano” cerca invece di canalizzare la forza prorompente delle Leghe in un unico soggetto politico la Federazione Sindacalista d’Italia a cui aderiscono 34 leghe. Il 7 gennaio del 1905 vede la luce Lotta proletaria nuovo organo di stampa da cui Dinale lancia le sue più feroci invettive a partito e padroni. Una volta rotto con il PSI, inizia la sua collaborazione con gli anarchici che considera: «(…)buoni amici, la cui azione si deve incrociare con la nostra per lo scopo comune. Le disquisizioni filosofiche le faremo poi attorno al collettivismo o al comunismo, quando, per l’azione concorde di tutti i sovversivi, non vi sarà più il capitalismo». Più tardi,dal canto loro gli anarchici così descriveranno i sindacalisti: «Noi che partecipavamo al movimento operaio, nell’opporci ai socialisti riformisti e giolittiani, ci trovavamo spesso a camminare a fianco coi cosiddetti sindacalisti [...]Noi partivamo da Bakunin. Essi partivano da Marx, per quanto un Marx riveduto e corretto da G. Sorel» (Filippo Corridoni, combattente indomabile, Sindacato Operaio, 11 giugno 1921)
Nel 1906 per reati a mezzo stampa è costretto a rifugiarsi all’estero dove progetta la fondazione, al quanto utopica, di una colonia comunista del Texas. Tra il 1907 ed il 1911 nasce Demolizione periodico di “propaganda razionalista”, allo scopo di “difendersi contro le menzogne religiose ed autoritarie”, considerate la prima causa dello sfruttamento sociale. Demolizione appunto da attuarsi contro “i degenerati della democrazia, contro i furfanti del politicantismo”. Alla rivista collaborano sindacalisti rivoluzionari, anarchici e futuristi quali Marinetti e Belli. In esilio conosce l’altro futuro esiliato dal “paradiso” del PSI, Benito Mussolini.
Al rientro in Italia è alla redazione del Popolo d’Italia firmandosi con lo pseudonimo “Farinata”. Si allontana dal suo direttore solo quando questi decide di trasformare i fasci di combattimento in partito politico. Essendo un idealista,rimasto bruciato molto spesso sulla via istituzionale, Dinale non accetta che la rivoluzione passi per i meandri sudaticci del parlamentarismo giolittiano. Durante il ventennio ricopre il ruolo di prefetto in vari capoluoghi d’Italia, restando volutamente ai margini e su posizioni molto critiche rispetto alle derive reazionarie del fascismo regime, cosa che comunque non gli impedisce di essere a fianco del vecchio compagno di barricata nel crepuscolo di Salò. Qui, insieme al comunista Nicola Bombacci e al socialista Carlo Silvestri è uno dei maggiori confidenti dell’ultimo Mussolini che Dinale così descrive:
«Non era e non aveva l’aspetto di un vinto, quell’uomo che pareva si sforzasse a nascondere tutto quanto vibrava nel suo cervello e nel suo cuore. Era un forte, piegato da una violenza sovraumana, crudele, maligna, beffarda.(…) Un leone che, anche se avesse avuto tuttora disponibili gli artigli aguzzi, li avrebbe ovattati e non aperti all’offesa, in un segno supremo di amore».
Il comunismo morto? Rinasce in nove partiti
Tombola! E ci son poi postcomunisti come Veltroni e D’Alema che ironizzano su Berlusconi perché «vede ancora comunisti dappertutto» e fa «propaganda archeologica». Ma vi sembra un Paese normale, radicato in Europa e nell’Occidente, quello dove i partiti comunisti fioriscono e si moltiplicano, invece di scomparire? Nemmeno in Africa e in America Latina, come nel Belpaese. C’è un posto al mondo - oltre Cina, Cuba e Corea del Nord ove son ben saldati al potere e ai privilegi - dove dirsi o esser stati comunisti sia un vanto e un merito? In ogni altro Paese civile e democratico il comunismo «realizzato» è colpa e vergogna, nessuno si sognerebbe di giustificare le stragi compiute da Lenin, da Trotsky, da Stalin e pure da Breznev.
Ma quanto siamo fighi e intelligenti, noi italiani. Abbiamo il Partito della Rifondazione comunista guidato da Paolo Ferrero, dal quale si stacca ora con l’ennesima scissione la Rifondazione del governatore pugliese. Poi il Partito dei comunisti italiani di Oliviero Diliberto. Quindi il Partito comunista dei lavoratori di Marco Ferrando, che ha avuto par condicio nelle tribune elettorali pur rimanendo escluso, come gli altri compagni più «grandi» in verità, dal Parlamento. Non avrete dimenticato Sinistra critica, ecologista, comunista, femminista di Flavia D’Angeli, quel peperino che dava lezioni anche a Porta a porta. I più attenti alle vicende globali della sinistra infine, conoscono bene Iniziativa comunista di Norberto Natali, costola rifondarola anch’egli, implicato con le nuove Br e poi prosciolto totalmente. Così il Partito comunista italiano marxista-leninista diretto da Domenico Savio, che contende l’eredità maoista alla Lista comunista per il blocco popolare di Pietro Vangeli. Infine il Partito di alternativa comunista, con la gobba della falce a sinistra come si conviene ai buoni trotskisti, affiliato alla Quarta Internazionale, Fabiana Stefanoni leader. Tutti regolarmente registrati al Viminale per le scorse elezioni.
A questo totale di otto, ora aggiunge lievito Vendola, che ieri a Chianciano - dove Ferrero lo aveva sconfitto nella corsa alla segreteria - ha formalizzato lo strappo. In prima fila ad applaudirlo c’erano ovviamente Franco Giordano e Gennaro Migliore. Nel logo del nuovo partito rifondarolo non c’è per ora la falce e martello, ma la stella rossa sì. Vendola dice che questo addio «non è un partire indolore», ma insiste spiegando che il Prc, nel congresso vinto da Ferrero «è precipitato in un buco nero». Ferrero, da Milano ha invitato «i compagni e le compagne riuniti a Chianciano a ripensare all’ipotesi di una scissione», ma Vendola ha seccamente risposto che «la scissione c’è già stata, nei fatti». O non è un susseguirsi di scissioni l’intera storia della sinistra italiana, anche quella riformista e democratica?
Amen, è andata così. Ben arrivato anche il nuovo partito comunista, che si presenterà alle elezioni europee strappando almeno un paio di eurodeputati. Voi, se volete ironizzare, pensate invece a Bertinotti, il compañero Fausto, padre nobile di tutti i rifondaroli, che inascoltato dai suoi epigoni va invece ripetendo - anche ieri sull’Unità - come «in Italia la sinistra non esiste più», e ammonisce i compagni: «Si può essere morti, senza saperlo». Ma è davvero un paradosso e un’assurdità, contare - e mantenere - undici partiti di estrema sinistra di cui ben nove dichiaratamente «comunisti»? A ben pensarci, mica tanto. Almeno per l’unico Paese al mondo dove i postcomunisti sono riusciti ad andare al governo dopo la caduta del Muro di Berlino. E dove un postcomunista che aveva benedetto i carrarmati sovietici a Budapest è diventato presidente della Repubblica. Dei lontani «fatti d’Ungheria» - avete notato che li chiamano ancora così, «fatti»? - Giorgio Napolitano s’è pentito facendo ampia ammenda, direte. Sì, ma della sua accanita battaglia contro l’installazione dei missili a Comiso, che è molto più recente, ha per caso fatto ammenda? Dunque tenetevi anche la pletora di partiti comunisti.
di Gianni Pennacchi (www.ilgiornale.it)