venerdì 30 gennaio 2009

CHRISTUS VINCIT

LA TRADIZIONE NON SI SCOMUNICA

Firenze 1944-45, intellettuali nella tempesta

Un saggio di Marco Cigni ricostruisce gli anni tumultuosi della città toscana nella Rsi

Discorrendo, una settimana fa, con Giampaolo Pansa, è capitato a chi scrive di convenire con lui su un’impressione comune. Si tratta dell’avvento, nelle redazioni come nel mondo universitario, di una nuova generazione che si potrebbe definire postideologica: una generazione di 30-40enni cresciuti quando il Muro era caduto e la Guerra Fredda volgeva alla fine, capaci di guardare anche agli eventi del fascismo e della guerra civile con un distacco impensabile non solo nei loro padri, ma anche nei loro fratelli maggiori. D’altronde, leggendo molta saggistica, nata in molti casi dallo sviluppo di tesi di laurea, si ha l’impressione che qualcosa stia effettivamente cambiando, almeno fra i giovani più colti. Un esempio in questa direzione è costituito dal saggio di Marco Cigni Il fascismo repubblicano fiorentino (Edizioni Becocci, pp. 192, € 10), appena edito da una piccola casa editrice del capoluogo toscano e nato dallo sviluppo di una tesi di laurea discussa al “Cesare Alfieri” col professor Luigi Lotti come relatore. Lotti, che ha firmato la prefazione dell’opera ed è stato a lungo preside della facoltà, si distingue da tempo per la capacità di guardare con serenità all’esperienza fascista (e anche neofascista). Più di vent’anni fa, nella relazione tenuta al convegno La Toscana nel secondo dopoguerra, organizzato nel dicembre 1988 dall’Istituto Storico della Resistenza in Toscana e dall’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione, ebbe il coraggio di sostenere che la scelta del Comitato toscano di liberazione di insorgere l’11 agosto 1944 nacque «da un errore di valutazione del Cln toscano che voleva fare un’insurrezione simbolica nel momento in cui i tedeschi avessero abbandonato la città». Negli stessi anni, aggiornando la gloriosa storia dei partiti politici italiani di Carlo Morandi, riedita dalla Le Monnier, Lotti si segnalava per l’obiettività con cui trattava l’evoluzione del Msi, di cui prevedeva la fine dell’emarginazione anche in seguito alla progressiva «storicizzazione del fascismo». Il noto saggio del politologo Piero Ignazi sul “polo escluso” era d’altronde ancora di là da venire.Più di recente, Lotti ha promosso per i suoi laureandi una serie di studi monografici sul fascismo fiorentino negli anni della Rsi, di cui non fa parte solo il saggio di Cigni. Prima di lui si era cimentata su un argomento analogo Monica Pieraccini, in uno studio di ancor più vasta portata, poi edito in un volume già recensito su queste pagine (Firenze e la Repubblica Sociale Italiana. 1943-1944 Edizioni Medicea, Firenze 2003). Rispetto al saggio della Pieraccini, il volume di Cigni non cerca di ricostruire l’intera vita sociale e culturale del capoluogo toscano, ma concentra la sua attenzione, come recita il sottotitolo, sull’analisi della «organizzazione politica e militare negli undici mesi della Rsi». Anche in questo caso, si tratta solo all’apparenza di un saggio di storia locale, per il ruolo nazionale svolto in questo periodo dal fiorentino Alessandro Pavolini, che era segretario del Partito fascista repubblicano. Sulle rive dell’Arno, facendo organizzare i franchi tiratori, che sparavano senza indossare un’uniforme, Pavolini scelse per la prima volta di adottare tecniche della guerriglia adottate fino allora solo dalla Resistenza. E proprio dall’esperienza del capoluogo toscano maturò la sua decisione di istituire le Brigate nere, contrapposte anche nella denominazionealle brigate partigiane. La ricerca di Cigni, che si basa in buona parte sulle carte dell’Archivio centrale dello Stato e di altri fondi archivistici, ma anche sulla testimonianza del capo ufficio stampa del Pfr, Mario Vannini Parenti, e sui bollettini dell’Istituto storico della Repubblica sociale italiana, fornisce un quadro quasi completo sul personale politico del fascismo repubblicano fiorentino. La ricostruzione è tutt’altro che apologetica, ma non irrispettosa della complessità delle motivazioni che accompagnarono anche nel capoluogo toscano l’adesione alla Rsi. Un caso tipico: i due segretari federali che si succedettero negli undici mesi della Rsi sulle rive dell’Arno: Gino Meschiari, uomo “idealista e moderato”, di estrazione repubblicana, che cercò di ripulire la federazione dai delinquenti comuni e si oppose alla fucilazione degli ostaggi, e il suo successore Fortunato Polvani, ex squadrista, che fu tra gli organizzatori dei franchi tiratori.Dalla ricca documentazione di Cigni trovano conferma impressioni che chi scrive si era sentito esternare da persone che avevano vissuto quegli anni, come il fatto che il fascismo repubblicano fiorentino avesse interpretato la svolta sociale della Rsi in chiave populista, senza riuscire a “sfondare” nel proletariato operaio, ma aprendo le sue file a un sottoproletariato fra cui non mancavano i pregiudicati per reati comuni (inquietanti i precedenti di alcuni membri della banda Carità e di Giovanni Martelloni, responsabile dell’Ufficio affari ebraici). Se una critica può essere mossa al saggio è quello di avere limitato la ricerca all’ambito politico-militare, escludendo un aspetto tutt’altro che minoritario del fenomeno: la collaborazione di numerosi esponenti della cultura alle iniziative della Rsi. Il fascismo repubblicano fiorentino non fu soltanto fanatismo politico e in certi casi delinquenza comune. Fu anche Gentile assassinato, fu Primo Conti, Ardengo Soffici, Giovanni Spadolini, Arrigo Serpieri, che parteciparono all’esperienza di Italia e Civiltà. Fu quella straordinaria e purtroppo dimenticata figura di esploratore e geografo che corrisponde al nome di Giotto Dainelli, podestà di Firenze durante la Rsi, ma anche successore di Gentile all’Accademia d’Italia, epurato ma infine riabilitato. Non sempre si può però parlare di una generica contrapposizione fra moderati ed estremisti. Esponenti del fascismo repubblicano furono infatti almeno due qualificati esponenti della destra culturale: Attilio Mordini, vicino per qualche tempo a Carità, e Aniceto Del Massa, incaricato da Pavolini, insieme al suo segretario Puccio Pucci, di organizzare un servizio di spionaggio nei territori occupati dagli alleati, la cosiddetta organizzazione Pdm, dalle iniziali di entrambi. Se nel caso di Attilio Mordini, futuro collaboratore dell’Ultima ed esponente di spicco di un certo tradizionalismo cattolico (quello non oltranzista e aperto al dialogo inter-religioso), sull’apprezzamento generale poté influire la sua giovane età, più complesso è l’itinerario ideologico di Del Massa. Nato a Prato nel 1898, cresciuto nel clima delle riviste fiorentine del primo Novecento, bulimico autodidatta poco incline agli inquadramenti ideologici, dopo la partecipazione alla grande guerra Aniceto Del Massa aderì al fascismo, divenne redattore del quotidiano La Nazione, ma soprattutto condivise con Arturo Reghini, inquieto intellettuale di estrazione neopitagorica e massone dichiarato, l’esperienza esoterica delle riviste Atanòr e Ignis, per poi confluire nel cosiddetto “Gruppo di Ur” con Julius Evola e René Guénon. Ma il suo impegno culturale non può essere ridotto solo a queste esperienze che, per lui come per altri intellettuali, rappresentarono senz’altro un episodio importante. Per esempio, fu anche un finissimo critico d’arte e la sua raccolta di disegni di Lorenzo Viani, edita con Hoepli nel 1942, costituisce una delle prime testimonianze sul maestro viareggino. Dopo la guerra Del Massa pagò anche con il campo di concentramento, prima a Padula e poi a Terni, e con l’epurazione il suo impegno politico, salvo riprendere l’attività giornalistica e divenire responsabile delle pagine culturali del nostro Secolo d’Italia, di cui mantenne la responsabilità fino al 1961. Negli anni della vecchiaia tornò agli antichi interessi esoterici, avvicinandosi al taoismo e all’antroposofia di Rudolf Steiner. Morì nel 1975, nella generale indifferenza, ma negli ultimi anni si è registrato un ritorno d’interesse sulla sua figura. Se Giuseppe Parlato, nel suo Fascisti senza Mussolini, ne ha ricostruito il ruolo politico al termine della guerra, studiosi come Angelo Jacovella, Gianfranco de Turris e Gennaro Malgieri hanno cercato d’inserirne l’esperienza all’interno di una più ampia componente spiritualistica della cultura italiana. Jacovella, che già nel 2000 ne aveva ricostruito il sodalizio e l’interlocuzione con Ezra Pound in un saggio pubblicato sulla rivista Atrium, ha pubblicato di recente, per le edizioni “La Finestra”, una raccolta di suoi scritti, Pagine esoteriche, con prefazione di Malgieri. E Gianfranco de Turris gli ha dedicato adeguata attenzione nel suo volume sul Esoterismo e fascismo (Edizioni Mediterranee), in compagnia di autori come Arturo Reghini, Julius Evola, Massimo Scaligero, Guido De Giorgio, Roberto Assagioli, il duca Colonna di Cesarò. Al tempo stesso, la Fondazione Ugo Spirito ha acquisito le vastissime carte personali di Del Massa, comprendenti, fra l’altro, diari e testi inediti di notevole valore. Ci sono forse le condizioni per uno studio biografico su uno dei non pochi intellettuali della destra italiana che, tra fascismo, guerra e dopoguerra, riuscirono a coniugare politica, esoterismo e cultura.

di Enrico Nistri (Il Secolo D'Italia)

Soru? Pescecane travestito da spigola

Giovanni Valentini, ex direttore dell’«Espresso», ex vicedirettore di «Repubblica», dal 2001 al 2003 direttore editoriale di Tiscali.
Come salì sulla barca di Soru?
«All’epoca, come molti colleghi, pensavo che il futuro della comunicazione fosse on line».
E si avvicinò al Berlusconi del web...
«Lo invitai a cena con Scalfari. Soru si presentò con la sua addetta stampa... E già rimasi perplesso. Dissi a mia moglie: questo è uno nuovo...».
Però Tiscali la stuzzicava...
«Ero intrigato: stava cambiando il modo di comunicare. Ne parlammo alla presentazione di un mio libro. Mi disse: guarda, io non ne so nulla, il mio mestiere è solo connettere i pc».
E l’avventura iniziò...
«Lasciai la vicedirezione di Repubblica e cominciai a lavorare tra Cagliari, Roma e Bruxelles. Individuai in Soru un protagonista dell’editoria digitale come Berlusconi lo fu per la tv».
Continuava a scrivere per «Repubblica»?
«Ezio Mauro ritenne opportuno sospendere la mia rubrica il sabato del villaggio. Quando accadde, Furio Colombo e Antonio Padellaro mi proposero di trasferire la rubrica sull’Unità».
E lei informò Soru...
«Sì e si arrabbiò moltissimo. Mi disse che non potevo farlo, che il giornale era troppo schierato, troppo politico».
Questa poi... Ora se l’è comprato...
«Gramsci si starà rotolando nella tomba. Un po’ come se Scalfari sapesse che la “sua” Repubblica l’avesse comprata Ricucci».
Cosa faceva per Tiscali?
«Curavo i contenuti del portale cercando di introdurre un po’ di cultura giornalistica. Ricordo le mie battaglie per far avere in redazione la mazzetta dei giornali».
E l’editore ci capiva qualcosa di giornalismo?
«Ben poco. Pensi che nel portale ci misi una rubrica, Vale Oggi, rassegna stampa ragionata con link, riferimenti, forum».
E che male c’era?
«Nulla, ma fui più volte rimproverato che la rassegna stampa era troppo antiberlusconiana».
E lei?
«Mi misi a ridere. Ribattei che erano gli altri giornali che scrivevano quelle cose, mica io...».
Rapporto burrascoso il vostro. Poi, Soru scese in campo...
«Le voci circolavano già nell’estate del 2003. In principio mi disse che voleva fare il sindaco di Cagliari».
Invece puntò alla Regione e il suo padrone divenne un politico.
«Quell’estate gli chiesi un colloquio e in un bar di Cagliari gli parlai chiaro».
Cosa disse?
«Che io, avendo fatto la battaglia sul conflitto di interessi di Berlusconi, non potevo non farla sul suo».
E lui?
«Sbattè i pugni su quel tavolino di ferro da far cadere il bicchiere di Coca».
Irascibile eh?
«Peggio: è iracondo, porta il dissenso a un passo dallo scontro fisico. L’ho visto maltrattare i suoi dipendenti in modo imbarazzante. Imbarazzante!».
Non dica così. Non è di sinistra?
«Se lui è di sinistra io, che sono nato in Puglia, sono austroungarico! Lui è un pescecane travestito da spigola. Lo dissi pure a Franca Ciampi».
Racconti...
«Una sera, a cena a casa Ciampi, donna Franca mi disse: “Mi sembra una persona così mite...”. Le spiegai che la sua immagine esterna è totalmente diversa da quello che è realmente».
Che abbia un caratteraccio lo dicono in molti.
«Più di quanti lei si possa immaginare. Avrà anche dei pregi, ma la realtà è che è un piccolo padroncino sardo che non ha avuto altri obiettivi che fare denaro. Nulla di male, ma almeno non si spacci per uomo di sinistra».
Però tiene alla sua Sardegna...
«Macché: le sue battaglie pseudo ambientaliste sono ridicole. Anche la legge dei due chilometri dal mare è una fesseria. In alcuni casi possono essere tanti, in altri troppo poco: dipende dalla conformazione della costa».
Lei fece un’inchiesta sull’energia in Sardegna che a Soru proprio non andò giù. Cosa successe?
«Soru ha sempre attaccato le pale eoliche e io feci un pezzo intitolato Don Chisciotte e i mulini a vento. Andò su tutte le furie. Ma invece di parlarmi vis-à-vis mi fece chiamare dall’amica comune Giulia Maria Crespi... Capisce che personaggio è?».

di Francesco Cramer (fonte: http://www.ilgiornale.it/)

Un calcio al dialogo eterno

Se potessimo, sceglieremmo noi il prossimo bestseller per il giallista Cesare Battisti, prefazione di Vargas (Fred, non Getúlio) e postfazione di Carlà: un bel racconto autobiografico, Quelqu’un m’a pris, storia di un ex terrorista che viene prelevato dall’intelligence italiana e portato a casa per essere sottoposto, come un qualsiasi mattatore di poveri cristi, al rituale di un giusto processo. Ma, non essendo gli agenti editoriali dell’ex sputafuoco dei Pac, attuale sputa-interviste, e sapendo che i nostri servizi segreti mai violerebbero il codice etico delle panciute democrazie europee, dobbiamo accontentarci di altro.
Il comportamento scandaloso del governo brasiliano sul caso Battisti merita una risposta che vada oltre i consueti balletti di scartoffie. Dichiarazioni limate dagli ambasciatori e pacche sulle spalle. E allora gli si dica, a Lula: cari voi, visto che potremmo boicottarvi solo samba, Copacabana e olio di colza, abbiamo deciso che non giochiamo a pallone. Niente partita, niente monetina per decidere a chi la palla a chi il campo, niente cori, niente inno, niente scambio di gagliardetti e marmocchi che tengono per mano i calciatori.
Perché questa amichevole sta trasformandosi, anzi si è già trasformata in un’inimichevole. Scusate, cari carioca e orecchie da mercante, caro ministro Tarso Genro, se siete persuasi che in Italia Battisti potrebbe essere ucciso perché da noi esistono ancora «apparati di repressione illegali», manco fossimo nel Brasile di Vargas (Getúlio, non Fred), ma che fate, un’amichevole con la nazionale di un Paese dove la gente viene seviziata, voi che rispettate ovunque i diritti umani, specie nelle favelas? Sapendo che film come Tropa de elite, dove si mostrano le pratiche di tortura in uso presso la polizia brasiliana, sono sporca propaganda imperialista, lo diciamo noi alla nazionale verdeoro: se ci tenete alla vostra qualità democratica, rifiutate di giocare con l’Italia. Trattateci come il Sud Africa dell’Apartheid. Sennò, sarà l’Italia a rifiutarsi.
La storia che bisogna tenere fuori lo sport dalla politica è buona per le favolette olimpioniche ma non per la dura realtà, e questo a maggior ragione vale per lo sport più popolare del mondo. I vicini di casa dei brasiliani lo sanno bene: con la vittoria ai mondiali del 1978 i generali argentini sono riusciti a rimandare il conto delle loro nefandezze, e la mano de dios di Maradona nel 1986 è valsa la rivincita simbolica sulla perfida Albione per la sconfitta alle Malvine. E, poi, la guerra serbo-croata non è cominciata con gli incidenti a una partita tra Stella Rossa Belgrado e Dinamo Zagabria? E partite come Real Madrid-Atletico Bilbao non sono il palcoscenico delle lotte tra spagnoli e baschi? Ecco qual è la valenza del calcio nell’immaginario popolare. Allora diamo una scossa alla nostra fama di eterni dialoganti: il 10 febbraio non si deve giocare. Anzi, se si può, s’appenda perfidamente al balcone il poster di Paolo Rossi che infilza Peres.

di Angelo Mellone (www.ilgiornale.it)

giovedì 29 gennaio 2009

Rose rosse per ricordare le vittime di Battisti

Roma, 29 gennaio. Ieri pomeriggio Roberta Angelilli, Capo Delegazione di An presso il Parlamento Europeo, insieme a Federico Iadicicco, consigliere provinciale del Pdl e Cesare Giardina, presidente di Azione Giovani Roma, hanno depositato davanti all'Altare della Patria centinaia di rose rosse in ricordo delle vittime del terrorista Cesare Battisti e del dolore dei familiari. Insieme a Roberta Angelilli anche una cinquantina di ragazzi di Azione Giovani Roma che hanno esposto dei cartelli con scritto 'Battisti, estradizione subito'.
''Con la negazione dell'estradizione da parte del Brasile e' stata infangata la memoria delle vittime", ha dichiarato Roberta Angelilli, annunciando che da sabato prossimo verranno promosse numerose iniziative per chiedere l'estradizione dell'ex leader dei Proletari armati per il comunismo. (Adnkronos)

Così Soru per combattere i ricchi mette ko il turismo in Sardegna


Castelsardo (Sassari) - Il porticciolo di Castelsardo è un gioiello anche spazzato dal maestrale, attrezzato e in ordine, protetto dal castello medievale dei Doria che resiste in cima al promontorio. Ottocento posti che accolgono natanti lunghi fino a 30 metri, l'orgoglio del giovane sindaco Franco Cuccureddu, presidente della Rete dei porti della Sardegna. «Sa quante barche qui hanno pagato la tassa sul lusso? Nessuna. L'abbiamo ufficialmente boicottata e i fatti ci hanno dato ragione».
I fatti sono che il governatore dimissionario ha fatto di tutto per smantellare la fetta più redditizia del turismo sardo, quella dei vacanzieri ricchi, che hanno (o vorrebbero avere) la villa fronte mare, atterrano in elicottero o attraccano con lo yacht e spendono, spendono, spendono. «Cento battelli valgono centomila camperisti - dice Cuccureddu -. Ogni passeggero di una barca di 40 metri spende mille euro al giorno, stima prudente. La Sardegna non può puntare sul turismo di massa ma su quello di qualità».
Politica opposta a quella di Mister Tiscali. «Pochi giorni dopo la sua vittoria elettorale - racconta il sindaco, ora candidato per l'Mpa con Ugo Cappellacci - incontrai un docente universitario di antropologia che aveva contribuito a scrivere il programma di Soru. Mi disse: dobbiamo sommessamente uscire dal turismo, è la mercificazione dell'ospitalità dei sardi, è un disvalore, non possiamo svenderla. Pensavo fosse una battuta, al massimo la strampalata teoria di un accademico».
Invece era una sintesi programmatica. Soru ha cominciato cancellando le agenzie del turismo (l'Ente sardo industria e turismo, gli Enti provinciali del turismo e le Aziende di soggiorno). Erano le strutture che sul territorio facevano la promozione, assegnavano le stelle agli alberghi e raccoglievano i dati statistici. Tutto sparito, eliminato l'unico termometro che analizzava i flussi. Le competenze dovevano passare all'assessorato regionale al Turismo, a sua volta soppresso dalla legge statutaria.
Un'altra legnata si è abbattuta con il piano paesaggistico, che non ha soltanto vietato (salvo deroga concordata direttamente con il governatore) di costruire alberghi fuori dei centri abitati, ma prevedeva di eliminare la segnaletica turistica: cartelli e frecce imbruttivano l'isola. Il Tar ha annullato il provvedimento. «Girava la battuta che Soru avesse interessi in qualche ditta di navigatori» scherza Cuccureddu.
Ma la mina più grossa per l'immagine della Sardegna è stata la tassa sul lusso, la stangata su seconde case, approdo delle barche sopra i 14 metri, scalo dei velivoli. Se sei ricco, per mettere piede sull'isola paghi. Una sorta di dazio medievale. Un provvedimento così sconclusionato che costava più di quanto fruttava, perché le spese di riscossione affidata alla forestale erano maggiori del gettito (1,5 milioni di euro nel 2006), e che continua a pesare sulle casse pubbliche: siccome la Corte costituzionale ha abolito il grosso della tassa, Soru ha dovuto istituire un ufficio per restituire i prelievi non dovuti.
Il danno di immagine sul turismo è incalcolabile. Dall’1 giugno al 30 settembre 2005, nei 13 scali della Rete porti (tra cui Alghero, Arbatax, Santa Teresa di Gallura e La Maddalena) erano attraccate 1741 imbarcazioni sopra i 14 metri; nello stesso periodo del 2006, dopo l'introduzione della tassa, 1007: il 42,2 per cento in meno, crollo consolidato nel 2007 e 2008. In Corsica hanno tappezzato le capitanerie di porto con le tariffe sarde: si fregano ancora le mani.
I servizi legati alla nautica (agenzie, ristoranti, tassisti, benzinai) hanno perso il 30 per cento del fatturato. Alcuni porti hanno dovuto alzare le tariffe di ormeggio annuali, e i proprietari di queste barche è prevalentemente gente del posto. Più che sul lusso, è una tassa sui sardi. Da molti Paesi europei sono piovute disdette di accordi già stipulati: «A seguito assurda tassa desisteremo da visite alla Sardegna», ha scritto la potente Adac tedesca.
In un'intervista all'agenzia Reuters del luglio 2007, rilanciata da giornali e tv di tutto il mondo, il governatore si giustificò così: «Pranzare in un ristorante sardo può costare 5000 euro, e non c'è una tassa regionale». Mille euro per un posto barca (che salivano a 15mila per quelle di oltre 60 metri), 5000 per sedersi a tavola: la Sardegna di Soru è l'isola di Tafazzi.

di Stefano Filippi (www.ilgiornale.it)

Tolgono i bimbi ai nonni per darli a una coppia gay


Londra - Meglio adottati da una coppia gay che dai loro nonni. Due bimbi scozzesi, fratello e sorella di cinque e quattro anni, sono stati tolti dai servizi sociali di Edimburgo ai loro nonni naturali e stanno per venir adottati definitivamente da una coppia omosessuale ritenuta più adatta agli interessi dei bimbi.
Per la legge infatti i genitori della madre dei piccoli, che da tempo non è in grado di occuparsene perché eroinomane, sono troppo vecchi per crescere i nipoti. Cinquantanove anni lui, quarantasei lei, i signori, la cui identità non è stata rivelata ai giornali, hanno lottato per due anni per riottenere la custodia dei bimbi fino all’esaurimento di tutte le loro risorse finanziarie. Quando non sono più stati in grado di pagare le spese legali hanno dovuto desistere rassegnandosi all’ipotesi di un’adozione.
Di certo però, non si aspettavano che ad adottare i nipoti sarebbero stati due uomini. Come hanno raccontato ieri al tabloid inglese Daily Mail, sapevano che in lista d’attesa per l’adozione c’erano anche molte coppie eterosessuali e la decisione di dare la priorità ad una coppia gay è parsa loro profondamente squilibrata.
Eppure, quando il nonno ha osato protestare, sembra gli sia stato detto che nel caso si fossero rivelati ostili a questa decisione non avrebbero più rivisto i bambini. «Mi si spezza il cuore a pensare che i nostri nipoti siano costretti a crescere in un ambiente familiare privo di una figura materna - ha spiegato il nonno affranto - noi non abbiamo pregiudizi nei confronti dei gay, ma sfido chiunque a spiegarmi come una simile scelta possa rivelarsi la migliore nei confronti dei piccoli».
Gli stessi operatori dei servizi sociali hanno dovuto ammettere che, soprattutto la bambina, non si trova particolarmente a proprio agio con gli uomini e quindi l’inserimento in una famiglia tutta maschile potrebbe essere più problematica per lei.
Il caso ha già sollevato feroci polemiche in Scozia, un Paese dove alle coppie omosessuali è stato consentito di adottare nel 2006, nonostante una consultazione pubblica avesse chiaramente rivelato che il 90 per cento della popolazione era contro un simile provvedimento. Ora, l’opinione pubblica inizia ad interrogarsi su quale livello di interferenza nella vita privata e familiare sia accettabile da parte delle autorità locali. Soprattutto quando i protagonisti sono dei minori.
I più critici hanno sottolineato che di questi tempi, alcune autorità locali hanno negato il diritto all’adozione a coppie di fumatori o di obesi, ma hanno sostenuto fortemente l’affido e l’adozione per le coppie gay sebbene gli studi scientifici abbiano dimostrato che un bambino cresce meglio in una famiglia tradizionale composta da un padre e da una madre. Ieri anche un portavoce della chiesa cattolica ha condannato la decisione delle autorità di Edimburgo. «Si tratta di una scelta devastante - ha dichiarato - che avrà un grave impatto sul benessere dei bambini coinvolti».

di Erica Orsini (http://www.ilgiornale.it/)

martedì 27 gennaio 2009

Se un assassino diventa rifugiato politico

Azione giovani ha già manifestato a piazza Navona per esprimere il suo sdegno e per chiedere motivazioni in merito all'atto che ha riconosciuto lo status di rifugiato politico al terrorista rosso Cesare Battisti. La manifestazione ha visto esposto uno striscione che recitava: "Non è persecuzione, è giustizia. Battisti estradizione subito".

Il presidente di Azione giovani Roma, Cesare Giardina, presente alla manifestazione, ha detto: "E' vergognoso che il ministro della Giustizia brasiliano abbia concesso a Battisti lo status di rifugiato politico, bloccando l'iter per l'estradizione, nascondendo inoltre la motivazione dietro un improbabile rischio di persecuzione". "Le uniche persecuzioni che fanno testo, nella fattispecie, sono quelle perpetrate da Cesare Battisti - che non ha scontato in Italia nemmeno un giorno della prevista condanna all'ergastolo - ai danni di cittadini inermi, arrivando ad uccidere ben quattro persone - ha aggiunto - Continueremo a manifestare finché Cesare Battisti non pagherà il suo tributo alla giustizia italiana". "Chiediamo al governo brasiliano di rivedere la sua decisione e concedere l'estradizione dell'ex leader dei 'proletari armati' - ha concluso - Deve tornare in Italia e pagare per rispetto alle vittime e perché non può esistere pacificazione senza giustizia".

"Anche se fatto in buona fede, quello del governo brasiliano figura come un atto di ostilità agli occhi del popolo italiano. Esso è frutto di un pregiudizio ideologico che deforma la realtà dei fatti". E' quanto dichiara il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, in merito alla negata estradizione di Cesare Battisti."Quale giustificazione politica - prosegue il ministro - può mai consentire l'impunità di fronte agli omicidi pianificati e commessi da Battisti di un poliziotto, di un gioielliere, di una guardia penitenziaria e di un macellaio?". "Voglio ricordare al governo del Brasile che abbiamo una lunga, lunghissima tradizione giuridica alle nostre spalle, ed è improntata al garantismo e alla giustizia. Considerare, da parte del ministro della Giustizia brasiliano, il nostro impianto civile e giudiziario alla stregua di un barbaro sistema basato sulla regola 'occhio per occhio, dente per dente', è sintomo di grave superficialità e scarso senso della storia". "Mi ha fatto molto piacere constatare - conclude Meloni - come sia politicamente trasversale l'indignazione dell'Italia. Ho sentito telefonicamente il nostro ministro degli Esteri, che intende intraprendere ogni iniziativa utile ad una revisione della decisione assunta dal governo del presidente Lula".

lunedì 26 gennaio 2009

Il falò dell’etica che incenerisce il corpo

Può apparire singolare e perverso che, nell’epoca dove l’ossessione della privatezza e la smaterializzazione della vita collettiva, il corpo, il corpo nudo, il corpo nella sua datità indifesa o esibita, diventi centro di gravità di dibattito e conflitto. Il virtuale si capovolge in iperreale, il corpo si apre alla possibilità di ogni genere di manipolazione e sfruttamento. Lo abbiamo appreso nei lunghi anni di lotta del femminismo, lo abbiamo ritrovato nella lotta simbolica sulla fecondazione artificiale, continuiamo a scoprirlo quotidianamente nella degenerazione pop della chirurgia estetica come nuovo farmaco delle nostre nevrosi. Il corpo, così, diventa ancor più che in passato un oggetto politico. Un tempo il leader poteva contare solo sul contatto immediato con i suoi seguaci. Oggi, più il capo politico si allontana, facendosi rarefatto nella sua proiezione televisiva e spettacolare, più si rende necessario un recupero della fisicità. E il corpo ritorna mediaticamente come essenza del potere sovrano e incarnazione dell’istanza di comando.L’esibizione di tonicità e benessere scolpita nei pettorali di Putin, negli addominali di Obama, nelle bluse da jogging di Sarkozy, nelle pose atletiche di Bush quand’era incoronato commander in chief della nazione, sono già stati analizzati e discussi come attributi di una buona salute della leadership. Scopriamo da sondaggi scientifici e piccanti che le donne apprezzano il «lato sexy» di capi di Stato e uomini di governo, e loro ricambiano spogliandosi, mettendosi in mostra, raccontando di sessioni massacranti dal personal trainer, stimolando l’equiparazione tra bel governo e buon governo. E, in Italia, si è già accumulata tanta letteratura sul potere del corpo nella costruzione del carisma berlusconiano come contatto anche fisico tra il leader e il suo popolo. Fin quando si discute di «potere del corpo» e «corpo del potere», tutto può andar bene, dall’analisi sociologica al pettegolezzo corroborante. In questi giorni però l’urgenza degli avvenimenti trasporta la riflessione pubblica sul corpo in un’altra direzione, che confina sadicamente con la pornografia.Abbiamo già speso abbastanza energie nel decretare se la pubblicazione delle immagini dei corpi dei bimbi di Gaza finiti sotto i bombardamenti fosse doloroso diritto di cronaca o un favore alla più bieca delle macchine pubblicitarie del fondamentalismo islamico, e tutte le risposte sono parse inadeguate, pezzi di una verità incomponibile. Epperò non c’è niente da fare, abbiamo continuamente bisogno di corpi da gettare nella fornace della macchina delle notizie, corpi che diano sostanza alle nostre parole, forza alle nostre idee, violenta efficacia al nostro argomentare. Nulla viene risparmiato, e così la nostra agenda pubblica, gli editoriali, le agenzie, il chiacchiericcio, osservano l’incrocio involontario del destino di altri due corpi, ai lati del ring mediatico, sottoposti a ciò che una volta il cardinal Bagnasco definì «deprezzamento della corporeità». In un angolo c’è il corpo straziato di una povera ragazza, una disgraziata che ha incontrato l’orrore nella periferia romana, incarnato in cinque corpi luridi e privi di qualunque senso di umanità. E la coperta che la mano pietosa di un inserviente d’albergo ha posato su quel corpo, prima che fosse trasportato in caserma, è stata immediatamente fatta a pezzi, stracciata nei mille coriandoli dei comunicati stampa, delle prese di posizione, del ping pong sulla sicurezza delle periferie. Il corpo di quella ragazza andrebbe immediatamente protetto dalle brame degli sciacalli, le luci di una dolorosa notorietà andrebbero subito spente da un basilare istinto di pietà, ma forse non ne siamo capaci, perché un virgolettato sul giornale o un boccone di dichiarazione televisiva valgono bene una violazione di quel corpo già violato dalla violenza più brutale dello stupro, l’irruzione dell’animalesco nel nostro mondo di istinti addomesticati. No, sarà cinismo, sarà un’irrefrenabile cupidigia mediatica, ma è troppo forte la tentazione di richiamare in campo la signora Reggiani, il braccialetto antistupro, il batti e ribatti delle campagne elettorali.Nell’altro angolo c’è il corpo privo di stimoli, riflessi, palpitazioni, sussulti di vitalità, di Eluana Englaro che, idealmente, senza alcun rispetto del suo riposo forzato, viene trasportata da un capo all’altro del Paese in attesa di sapere che cosa sarà di lei, se alla fine vincerà la legge divina o quella degli uomini. È un corpo disteso, che non può difendersi in alcun modo, dagli aggressori familiari e da quelli sconosciuti, nemmeno quando la sua superficie liscia si trasforma nel campo di una battaglia cruenta fatta di appelli, cartelli, petizioni, sanzioni, dichiarazioni, obiettori e ayatollah, pietas e veritas. Una scarica di spilli vengono infilzati in quel corpo inerme, e nessuno sembra farsene un problema. La ragazza X, il cui nome mai vorremmo sapere, ed Eluana, il cui nome purtroppo ci è stranoto: da «il corpo è mio» a «il mio corpo è di tutti». Dietro, dentro e attorno a questi corpi, si narra una storia straziante d’assenza di pudore, il falò di ogni etica del rispetto, la paurosa latitanza di una vera cultura civile.

Di Angelo Mellone (http://www.ilgiornale.it/)

domenica 25 gennaio 2009

Tributo a Ottavio Dinale: una vita sulle barricate


"Tutto diviene: ma non bisogna aspettare, urge far divenire."
Ottavio Dinale, 1904

"Come è vero ed assurdo che una guerra rivoluzionaria abbia finito per portare l’Italia a destra invece che a sinistra, così è altrettanto vero e non assurdo che avrebbe dovuto e potuto spingerla a sinistra."
Ottavio Dinale, 1953

Ottavio Dinale , figura chiave del sindacalismo rivoluzionario,nasce a Marostica il 20 maggio del 1871. Laureatosi in Lettere a Padova intraprende l’attività d’insegnante presso un ginnasio di Mirandola in provincia di Modena, salvo essere estromesso dall’insegnamento nel 1898 a causa della sua accesa attività politica fra le masse bracciantili. Riottene il posto, l’anno successivo, sotto stretta sorveglianza delle autorità locali. Nel 1898 è autore di un opuscolo diretto ad avvicinare i giovani al socialismo, una sorta di manuale di dottrina, semplificato, corredato di massime e definizioni che possa “inoculare l’idea nei cuori giovanili, infiammare le giovani menti, prepararle per la conquista dell’avvenire”. Nelle campagne modenesi ha l’opportunità di vivere a contatto con i contadini e trarre le debite conclusioni rispetto alla loro condizione.
L’analisi di Dinali riguardante il divario fra proletariato agrario e quello urbano è sferzante: «Mentre l’industria fece in tutto il mondo progressi meravigliosi, dal telaio a mano sino alle macchine più complicate, l’agricoltura, a non tener conto degli ultimi timidi tentativi e di poche eccezioni che non hanno valore in considerazioni generali, non si mosse e così, mentre l’artigiano ignorante e incosciente della corporazione diventò il proletario istruito e cosciente dello stabilimento, il contadino rimase il contadino. Il quale oltre ad essere vittima della stazionarietà del suo mestiere, per ragion d’ambiente, ebbe anche la sventura di vivere lontano dal telegrafo, dal vapore, dalla stampa, dal soffio potente della civiltà, col corpo al padrone e l’anima al prete».

Agli inizi del ‘900 nelle bassa padana vediamo l’affermarsi d’innumerevoli Leghe dei lavoratori, unico mezzo di riscossione sociale e rivendicazione salariale. Durante un congresso svoltosi a Bologna, indetto allo scopo di unire le Leghe in un unico movimento, Dinale afferma: «Ecco i due programmi dell’organizzazione dei lavoratori della terra, il minimo - sciopero generale - il massimo - socializzazione della terra. Attorno a questi due centri deve rivolgersi l’azione direttrice del partito socialista, da questi due fuochi può partire una luce che irraggi e vivifichi le coscienze nuove e vergini dei nostri contadini». Il padronato è colto di sorpresa, gli scioperi dilagano le leghe cercano di ottenere un riconoscimento giuridico che i proprietari terrieri vogliono negare. La gioia dovuta ai primi successi e agli effettivi miglioramenti delle condizioni di lavoro, viene ridimensionata dalla reazione padronale che riorganizzatasi a sua volta in Leghe di resistenza, risponde agli scioperi, con l’assunzione di contadini non organizzati o vicini all’ala democratico cristiana (con buona pace della solidarietà classista), oppure ricorrendo all’escomio, disdettando le locazioni a mezzadri e coloni.

E’ in questo clima che vengono a crearsi i primi dissensi fra l’ala riformista del partito socialista modenese e Dinale. Mentre il partito, con la costituzione della Camera del Lavoro di Modena cerca di mantenere le posizioni conquistate, intavolando una trattativa con la reazione, Dinale che nel 1903 era stato considerato “indegno di appartenere al Partito Socialista Italiano” cerca invece di canalizzare la forza prorompente delle Leghe in un unico soggetto politico la Federazione Sindacalista d’Italia a cui aderiscono 34 leghe. Il 7 gennaio del 1905 vede la luce Lotta proletaria nuovo organo di stampa da cui Dinale lancia le sue più feroci invettive a partito e padroni. Una volta rotto con il PSI, inizia la sua collaborazione con gli anarchici che considera: «(…)buoni amici, la cui azione si deve incrociare con la nostra per lo scopo comune. Le disquisizioni filosofiche le faremo poi attorno al collettivismo o al comunismo, quando, per l’azione concorde di tutti i sovversivi, non vi sarà più il capitalismo». Più tardi,dal canto loro gli anarchici così descriveranno i sindacalisti: «Noi che partecipavamo al movimento operaio, nell’opporci ai socialisti riformisti e giolittiani, ci trovavamo spesso a camminare a fianco coi cosiddetti sindacalisti [...]Noi partivamo da Bakunin. Essi partivano da Marx, per quanto un Marx riveduto e corretto da G. Sorel» (Filippo Corridoni, combattente indomabile, Sindacato Operaio, 11 giugno 1921)

Nel 1906 per reati a mezzo stampa è costretto a rifugiarsi all’estero dove progetta la fondazione, al quanto utopica, di una colonia comunista del Texas. Tra il 1907 ed il 1911 nasce Demolizione periodico di “propaganda razionalista”, allo scopo di “difendersi contro le menzogne religiose ed autoritarie”, considerate la prima causa dello sfruttamento sociale. Demolizione appunto da attuarsi contro “i degenerati della democrazia, contro i furfanti del politicantismo”. Alla rivista collaborano sindacalisti rivoluzionari, anarchici e futuristi quali Marinetti e Belli. In esilio conosce l’altro futuro esiliato dal “paradiso” del PSI, Benito Mussolini.

Al rientro in Italia è alla redazione del Popolo d’Italia firmandosi con lo pseudonimo “Farinata”. Si allontana dal suo direttore solo quando questi decide di trasformare i fasci di combattimento in partito politico. Essendo un idealista,rimasto bruciato molto spesso sulla via istituzionale, Dinale non accetta che la rivoluzione passi per i meandri sudaticci del parlamentarismo giolittiano. Durante il ventennio ricopre il ruolo di prefetto in vari capoluoghi d’Italia, restando volutamente ai margini e su posizioni molto critiche rispetto alle derive reazionarie del fascismo regime, cosa che comunque non gli impedisce di essere a fianco del vecchio compagno di barricata nel crepuscolo di Salò. Qui, insieme al comunista Nicola Bombacci e al socialista Carlo Silvestri è uno dei maggiori confidenti dell’ultimo Mussolini che Dinale così descrive:

«Non era e non aveva l’aspetto di un vinto, quell’uomo che pareva si sforzasse a nascondere tutto quanto vibrava nel suo cervello e nel suo cuore. Era un forte, piegato da una violenza sovraumana, crudele, maligna, beffarda.(…) Un leone che, anche se avesse avuto tuttora disponibili gli artigli aguzzi, li avrebbe ovattati e non aperti all’offesa, in un segno supremo di amore».

Negli ultimi mesi della guerra, Dinale e altri “irriducibili”, da vita al “Gruppo rivoluzionario repubblicano” che insieme al “Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista”, guidato dal filosofo Edmondo Cione, avrebbe dovuto creare un fronte di opposizione nella R.S.I., allo scopo di tarpare le ali alle forze ultraconservatrici e socialmente regressive, che imperversavano in seno alla Repubblica.

Morirà a Roma il 7 marzo 1959.

Romano Guatta Caldini (www.mirorenzaglia.org)

Il comunismo morto? Rinasce in nove partiti

Roma E cinque, più precisamente nove, ma fate pure undici. Ieri Nichi Vendola ha annunciato formalmente il suo distacco da Rifondazione comunista, e la nascita di una nuova formazione, Rps, Rifondazione per la sinistra. Così i partiti comunisti nel nostro Paese, quelli più noti che son stati in Parlamento e aspirano a tornare almeno a Strasburgo in primavera, salgono a cinque. Ma in realtà nove, contando i meno noti di tradizione trotskista o maoista, che han comunque presentato il loro simbolo, con tanto di falce e martello, alle elezioni dell’anno scorso. E aggiungendo al conto anche quelli che tengono l’ideale nel cuore ma stanno ugualmente all’estrema sinistra, Sole che ride e Sinistra democratica, eccoci a undici.
Tombola! E ci son poi postcomunisti come Veltroni e D’Alema che ironizzano su Berlusconi perché «vede ancora comunisti dappertutto» e fa «propaganda archeologica». Ma vi sembra un Paese normale, radicato in Europa e nell’Occidente, quello dove i partiti comunisti fioriscono e si moltiplicano, invece di scomparire? Nemmeno in Africa e in America Latina, come nel Belpaese. C’è un posto al mondo - oltre Cina, Cuba e Corea del Nord ove son ben saldati al potere e ai privilegi - dove dirsi o esser stati comunisti sia un vanto e un merito? In ogni altro Paese civile e democratico il comunismo «realizzato» è colpa e vergogna, nessuno si sognerebbe di giustificare le stragi compiute da Lenin, da Trotsky, da Stalin e pure da Breznev.
Ma quanto siamo fighi e intelligenti, noi italiani. Abbiamo il Partito della Rifondazione comunista guidato da Paolo Ferrero, dal quale si stacca ora con l’ennesima scissione la Rifondazione del governatore pugliese. Poi il Partito dei comunisti italiani di Oliviero Diliberto. Quindi il Partito comunista dei lavoratori di Marco Ferrando, che ha avuto par condicio nelle tribune elettorali pur rimanendo escluso, come gli altri compagni più «grandi» in verità, dal Parlamento. Non avrete dimenticato Sinistra critica, ecologista, comunista, femminista di Flavia D’Angeli, quel peperino che dava lezioni anche a Porta a porta. I più attenti alle vicende globali della sinistra infine, conoscono bene Iniziativa comunista di Norberto Natali, costola rifondarola anch’egli, implicato con le nuove Br e poi prosciolto totalmente. Così il Partito comunista italiano marxista-leninista diretto da Domenico Savio, che contende l’eredità maoista alla Lista comunista per il blocco popolare di Pietro Vangeli. Infine il Partito di alternativa comunista, con la gobba della falce a sinistra come si conviene ai buoni trotskisti, affiliato alla Quarta Internazionale, Fabiana Stefanoni leader. Tutti regolarmente registrati al Viminale per le scorse elezioni.
A questo totale di otto, ora aggiunge lievito Vendola, che ieri a Chianciano - dove Ferrero lo aveva sconfitto nella corsa alla segreteria - ha formalizzato lo strappo. In prima fila ad applaudirlo c’erano ovviamente Franco Giordano e Gennaro Migliore. Nel logo del nuovo partito rifondarolo non c’è per ora la falce e martello, ma la stella rossa sì. Vendola dice che questo addio «non è un partire indolore», ma insiste spiegando che il Prc, nel congresso vinto da Ferrero «è precipitato in un buco nero». Ferrero, da Milano ha invitato «i compagni e le compagne riuniti a Chianciano a ripensare all’ipotesi di una scissione», ma Vendola ha seccamente risposto che «la scissione c’è già stata, nei fatti». O non è un susseguirsi di scissioni l’intera storia della sinistra italiana, anche quella riformista e democratica?
Amen, è andata così. Ben arrivato anche il nuovo partito comunista, che si presenterà alle elezioni europee strappando almeno un paio di eurodeputati. Voi, se volete ironizzare, pensate invece a Bertinotti, il compañero Fausto, padre nobile di tutti i rifondaroli, che inascoltato dai suoi epigoni va invece ripetendo - anche ieri sull’Unità - come «in Italia la sinistra non esiste più», e ammonisce i compagni: «Si può essere morti, senza saperlo». Ma è davvero un paradosso e un’assurdità, contare - e mantenere - undici partiti di estrema sinistra di cui ben nove dichiaratamente «comunisti»? A ben pensarci, mica tanto. Almeno per l’unico Paese al mondo dove i postcomunisti sono riusciti ad andare al governo dopo la caduta del Muro di Berlino. E dove un postcomunista che aveva benedetto i carrarmati sovietici a Budapest è diventato presidente della Repubblica. Dei lontani «fatti d’Ungheria» - avete notato che li chiamano ancora così, «fatti»? - Giorgio Napolitano s’è pentito facendo ampia ammenda, direte. Sì, ma della sua accanita battaglia contro l’installazione dei missili a Comiso, che è molto più recente, ha per caso fatto ammenda? Dunque tenetevi anche la pletora di partiti comunisti.

di Gianni Pennacchi (www.ilgiornale.it)

venerdì 23 gennaio 2009

Tiscali in crisi: Soru licenzia 250 lavoratori


Piomba un’altra tegola sulla testa dell’Obama di Sanluri. Renato Soru, candidato governatore della Sardegna e patron di Tiscali aveva rassicurato tutti in tv: «Il momento è difficile per le aziende di tutto il mondo ma credo che Tiscali, per quello che potrò fare e per quello che potrò suggerire, non lascerà a casa nessuno». Era il 7 dicembre scorso e davanti a Fabio Fazio, a Che tempo che fa, il dimissionario governatore seminava promesse: «Seppure non abbia alcun ruolo nell’azienda, certamente la società metterà al primo posto la tutela dei lavoratori».Le ultime parole famose. Ieri la notizia ufficiale battuta da tutte le agenzie di stampa: Tiscali manderà a casa 250 lavoratori, su un totale di 850 dipendenti in Italia. In pratica un terzo del personale per una cura dimagrante da cavallo. Soru rinfrancava i lavoratori davanti alle telecamere di mamma Rai, proprio mentre i vertici aziendali contrattavano con i sindacati l’entità dei tagli. Un vero e proprio disboscamento a colpi di scure, che dovrebbe abbattersi inmanieratrasversale su tutte le attività della società. Semplice, ricca, dinamica, democratica e innovativa: così l’azienda sardaaveva presentato la propria televisione digitale, ovvero la Iptv Tiscali.Nel giro di un anno hanno però sospeso il servizio e adesso la maggior parte della falciatura colpirà proprio lì. Il gruppo naviga in pessime acque e la necessità di tirare la cinghia comporterebbe risparmi ancora più massicci. L’obiettivo, per ora, è di ridurre i costi per 40 milioni di euro, 16 milioni legati al personale. In azienda si spera comunque che vada in porto la trattativa con BSkyB di Rupert Murdoch per la cessione degli asset britannici e fare così cassa. La situazione è grave, visto che l’azienda ha un’esposizione complessiva nei confronti delle banche di circa 650 milioni di euro.E in attesa del piano industriale, che verrà presentato ufficialmente nei prossimi mesi, Piazza Affari boccia Tiscali. Lunedì il titolo aveva perso il 5,25 per cento; ieri l’8,58 per cento, scivolando a 0,49 euro. Peri dipendenti Tiscali, tuttavia, ci potrebbe essere una sorta di «salvagente». Potrebbero, cioè, trovare spazio nella nuova azienda di Soru: quella Regione sarda che già in passato ha accolto e/o dato lavoro a molti ex tiscalini.È accaduto a Sergio Benoni, ex direttore editoriale di Tiscali e poi a capo della Sardinia Media Factory, consorzio di imprese sarde cui doveva andare per forza il subappalto della Saatchi & Saatchi, per il quale Soru è indagato per falso, abuso d’ufficio e turbativa d’asta. È accaduto a Chicco Porcu,l’uomo che ha curato la campagna di Tiscali e che poi ha trovato una poltrona in consiglio regionale, chiaramente nella squadra di Soru. Oppure ai tanti carneadi che, attraverso consulenze, si dice popolino la sede della Regione.

Curcio, la lotta armata non dà la pensione

A volte, quando dicono di Renato Curcio: «non si è mai macchiato di reati di sangue», ha voglia di ruggire. Se non altro perché lei, Silvia Giralucci, sua padre non l’ha mai conosciuto. Graziano fu ucciso nel 1974, a Padova. Il primo delitto delle Br, il primo rivendicato. A scrivere quel comunicato fu proprio Curcio. Per quel delitto è stato condannato: «Concorso morale in omicidio». Ho conosciuto Silvia scrivendo un libro che raccontava (anche) la storia della sua famiglia, nel 2003: aveva tre anni il giorno del delitto, ora 37. In questi anni ha parlato in pubblico raramente. È giornalista, madre di due figli. Ma non ama discutere di quelle storie. Anche la memoria le provoca dolore: «Per me sono ferite ancora aperte». Silvia non è animata da spiriti di vendetta, non sogna la legge del taglione, ma tiene a un principio: «La mia famiglia, le vittime degli anni di piombo, la società, hanno subito lutti irreversibili. Io mi porterò il mio peso per sempre. Credo che, anche scontato la pena, gli ex Br dovrebbero sapersi portare dietro il loro».Silvia mi ha raccontato che da bambina, a volte sveniva. Così le fecero un encefalogramma. Per giustificare tutti quei fili le dissero: «Serve a capire perché non stai bene. Così, mentre era attaccata alla macchina, lei pensava intensamente: “Voglio-voglio-voglio il mio papà”. Quando l’esame fu concluso guardò il referto e pensò, delusa: «È pieno di scarabocchi. La macchina non ha capito». Aveva solo sei anni. Si parla spesso di Curcio. Per le polemiche legate alle sue conferenze. E ora anche per il fatto che non abbia diritto a una pensione. Si parla anche di Battisti, di pene, di soluzioni politiche. Quando riesco a convincerla a questa intervista, mi spiega: «Il dibattito è impostato male».Lei si considera figlia di una vittima, ma anche vittima. «Di mio padre io non ho nemmeno un ricordo. Non ho potuto conoscerlo. Non so che cosa significhi, un padre. Questa è una delle più grandi privazioni che si possano subire».Ha desideri di vendetta?«Nessuno. Ma voglio che si applichi la legge, che si scontino le pene».Ha perdonato?«La parola non ha significato».Perché?«Perché per me, al di fuori di una relazione, il perdono non esiste».Ha incontrato Curcio?«Mai. Al processo per mio padre e Mazzola non è mai venuto».Lui, e altri ex Br denunciano un ergastolo bianco oltre alla pena.«Quando ho saputo che veniva a parlare a Padova, leggendo il giornale per strada, sono quasi svenuta».Non doveva venire?«No. E fossi in lui non andrei a tenere conferenze. Esiste la discrezione»È giusto definirlo omicida anche se non ha sparato?«Sapeva che un commando sarebbe entrato nei locali dove erano mio padre e Mazzola. Erano armati, a volto scoperto, con pistole silenziate, di giorno. Potevano andare di notte...».Curcio sapeva che ci sarebbe stato un duplice omicidio?«A giudizio del Tribunale sapeva che sarebbe potuto accadere. E dopo che è accaduto, ha voluto, con gli altri capi, una rivendicazione. Per la legge è concorso in omicidio».Curcio ha definito quel delitto un «incidente di percorso».«Non entro nella brutalità di questa definizione. Ma non credo fosse sincero»Aveva già altre condanne, pensa che ne volesse evitare una?«Molti brigatisti tengono a questa immagine: non hanno commesso delitti, pagano per dei reati politici».Accade anche per Battisti.«Condannato a quattro omicidi, ha scontato un anno di carcere. Come si può farlo passare per vittima».Curcio ha diritto alla pensione?«Solo nel rispetto della legalità».Ovvero?«Se non ha versato i contributi minimi per averne diritto, no».Non ha maturato il minimo perché ha fatto quasi venti anni... «Allora forse dovrebbe chiedersi che lavoro faceva prima».Lei lo sa: faceva la lotta armata.«È questo il nodo. Non avere contributi è frutto delle sue scelte. È una delle conseguenze che deve affrontare».Non le pare due volte punitivo?«No. Perché è così per tutti gli altri cittadini. Se vale per una precaria, o un commerciante, perché non dovrebbe valere per lui?».Molti ex Br rischiano indigenza.«Curcio no: non ha diritto alla pensione sociale, quindi sua moglie ha un reddito. Anche questo vale per tutti gli italiani, perché non deve valere per lui?».Se lui leggesse queste righe la considererebbe ostile?«Non mi importa cosa pensa Curcio, ma non do la caccia ai terroristi. Se dopo la pena un detenuto trova senso nella vita per me è un dono. Vale per tutti, anche per gli ex Br. Ma le conseguenze le devono assumere. Gli assassini di mio padre non mi pare l’abbiamo fatto».In che senso?«Ad agosto sono stati condannati, nella causa civile, a un risarcimento del danno per 350mila euro. Non li avremo mai. Ma il punto è: non hanno pagato neppure le spese processuali!».Perché?«Ma molti Br sono nullatententi. Le case in cui vivono, per evitare problemi, non sono intestate a loro».Curcio desidera la pensione...«Vorrei tanto che fosse un segnale che è tornato a rispettare lo Stato».In che senso?«Dopo aver cercato di abbatterlo, adesso vogliono le sue tutele».Anche qui non lo crede sincero?«Spero che lo sia. Molte di queste persone, che non rispettano la legalità, hanno una certa disinvoltura nell’arraffare quello che possono».Lo Stato fa abbastanza per voi?«Non l’ha fatto in passato. Non abbiamo avuto, per anni, assistenza: né economica né psicologica»Come si definisce?«Una donna, una madre. Ma anche una vittima. Ho in me un vuoto che con gli anni, invece di diminuire, cresce. Mi sento mutilata».

di Luca Telese (http://www.ilgiornale.it/)

Che Dio ci conservi i conservatori


In Francia c’è un detto scurrile: «La parola conservatorismo comincia male» (per i francesi «con» è come «mona» per i veneti). Ciò non spiega tutto, ma resta che nessun politico, movimento, giornale o rivista del Paese s’è mai definito «conservatore». Invece in Germania, Inghilterra, Stati Uniti e Canada i conservatori sono una famiglia a parte intera e il termine è molto usato (non negativamente) per indicare un’area politico-culturale, dove coesistono varie tendenze; e poi questa corrente di pensiero ha una forte tradizione intellettuale (da Hume a Oakeshott, passando per Burke e Coleridge, nel caso dei Whigs inglesi), mentre «conservatore» e «conservatorismo» si fanno notare per l’assenza dal vocabolario politico francese.Naturalmente la parola esiste (è d’origine francese, del resto), ma la si usa quasi solo come peggiorativo. Un «conservatore» in Francia è anzitutto un reazionario, legato al passato, contrario a ogni novità, ansioso d’impedire ogni evoluzione sociale: uno che vuol mantenere l’ordine sociale esistente (lo statu quo) a ogni costo, sempre che non sogni un’impossibile restaurazione o un «ritorno» ai valori tradizionali (statu quo ante), perché «prima tutto era meglio». Nel migliore dei casi, il conservatorismo è un bel museo, ma un museo morto. Definizione che Edmund Burke non avrebbe sottoscritto, perché per lui «uno Stato senza mezzi per cambiare è anche senza mezzi per durare» (Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, 1790, tr. it., Utet).In Italia la situazione è simile: «conservatore» ha assunto una risonanza peggiorativa e raramente si sono definiti così autori ora considerati tali, da Benedetto Croce e Giuseppe Prezzolini ad Augusto del Noce, Giovannino Guareschi, Elémire Zolla e Sergio Romano, passando per Vilfredo Pareto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Maffeo Pantaleoni, Giovanni Papini, Luigi Pirandello e Leo Longanesi.Anche la sinistra francese ha spesso denunciato figure e movimenti di destra come «conservatori», inadatti al cambio dei costumi e a rispondere alle sfide del tempo. Ma la destra usa il termine anche per stigmatizzare l’«arcaismo» dei sindacati e il «passatismo» di ecologisti e Verdi. Più in generale la classe politica d’ogni tendenza chiama «conservatrici» le reticenze del corpo sociale davanti alle riforme «necessarie». Su Le Figaro un giornalista commentava così le difficoltà del governo per far approvare le riforme (scuola, audiovisivo, sistema sanitario e pensionistico, ecc.): «Conservatorismo, fatalità francese?».Una frazione della destra francese - certi ambienti liberali - ha elogiato il «conservatorismo» solo all’epoca della «rivoluzione conservatrice» di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, o più di recente per simpatia verso i «neoconservatori» attorno a George W. Bush. Gli stessi ambienti hanno talora presentato Nicolas Sarkozy, di cui avevano sostenuto la candidatura presidenziale nell’aprile 2007, come capace di compiere - sull’esempio di Reagan e della Thatcher, ma anche di Aznar in Spagna, Howard in Australia e Koizumi in Giappone - una «rivoluzione conservatrice alla francese». Il termine «conservatore» era allora usato nel senso anglo-americano. Ma Sarkozy ha subito respinto l’etichetta: «La forza dei conservatorismi non va sottovalutata. La loro capacità di nuocere è certa, ma la loro forza è minore dell’aspirazione naturale d’ogni società ai cambiamenti, alla riforma, alla modernizzazione». In Germania si chiama «conservatorismo» ciò che in Francia è «destra». Ma i due termini non sono esattamente sinonimi. In Francia si distinguono tre grandi famiglie a destra: la contro-rivoluzionaria, forte nel secolo XIX (quando i monarchici erano ancora una forza politica e le istituzioni repubblicane non erano ancora bene in sella); la destra bonapartista, che ha condotto alla destra rivoluzionaria, al fascismo e al gollismo; la destra «orleanista», cioè liberale, oggi largamente dominante. Come spiegare l’assenza del «conservatorismo» nel paesaggio politico francese? Per rispondere, François Huguenin ha appena pubblicato Le conservatisme impossible. Libéraux et réactionnaires en France depuis 1789 (ed. La Table ronde).Huguenin dà una spiegazione storica. Osservando che in Germania e nei Paesi anglosassoni fra i conservatori ci sono tanto «nazionali» quanto «liberali», sottolinea che tale alleanza è divenuta impossibile in Francia con la rivoluzione del 1789. Infatti essa ha opposto irrimediabilmente chi negava del tutto le idee rivoluzionarie (da Joseph de Maistre e Louis de Bonald a Charles Maurras) e chi, a destra, ne accettava l’essenziale, pur rifiutandone la pratica (da Alexis de Tocqueville e Benjamin Constant a Raymond Aron e Bertrand de Jouvenel). Certo gli uni e gli altri, per lo più, hanno denunciato la passione dell’uguaglianza e della religione della sovranità popolare difesa da Jean-Jacques Rousseau, ma da punti di vista ben diversi. Infatti i liberali continuano a vedere nei principi rivoluzionari principi emancipatori, latori di libertà, e rifiutano gli aspetti propriamente bellicosi e virtualmente totalitari del movimento, di cui testimoniano il genocidio in Vandea e il Terrore.«Il popolo onnipotente è più pericoloso che un tiranno», diceva Benjamin Constant. Invece i contro-rivoluzionari, vedendo nella Rivoluzione un «blocco» indissociabile, ne condannavano i principi in toto. I due campi si sono così scissi definitivamente, rendendo impossibile ogni «conservatorismo». Nei secoli XIX e XX la destra liberale, acquisita all’ideologia del progresso, legata al primato individuale e tradizionalmente diffidente del potere politico, s’è sempre opposta a una destra che, tradizionalista o no, invece difendeva in primo luogo le prerogative statali, il concetto di «bene comune» e una concezione organica e comunitaria della vita sociale. Per complicare tutto, a queste destre, una contro-rivoluzionaria e l’altra liberale («orleanista»), s’è presto aggiunta la terza, la destra «bonapartista», di cui s’è parlato, tipica per la rivalutazione della rivoluzione francese, un partito preso a favore del popolo (e delle classi popolari), una certa indifferenza per i temi religiosi, un’adesione senza riserve ai principi repubblicani e un certo favore per forme di governo autoritarie o plebiscitarie.Deplorando tale situazione, Huguenin auspica l’unificazione delle due correnti in un vasto movimento «conservatore» e invita i liberali ad abbandonare l’idealismo morale, centrato sui diritti individuali, l’inclinazione a rifiutare il principio stesso dell’autorità politica in nome delle prerogative dell’economia e del mercato, dandosi una «visione positiva del potere». Gli eredi dei contro-rivoluzionari dovrebbero invece rinunciare alla visione assolutista della sovranità, alle reticenze per la democrazia e alla stessa idea di libertà. Tesi commentata (il giornale monarchico Les Epées ha presentato il conservatorismo come «idea d’avanguardia»), ma senza effetto.Ma la spiegazione di Huguenin non vale per l’Italia, che non ha avuto la Riforma, ma solo la Controriforma, né la Rivoluzione, ma solo l’occupazione francese. Nel 1950 il politologo inglese R.J. White scriveva: «Imbottigliare il conservatorismo, con tanto d’etichetta, è come voler liquefare l’atmosfera \[...\]. La difficoltà sta nella natura della cosa. Più che dottrina politica, il conservatorismo è abitudine spirituale, modo di sentire, modo di vivere».


di Alain de Benoist (http://www.ilgiornale.it/)