domenica 15 febbraio 2009

Il cristianesimo è vulnerabile, ma le misericordine tengono botta

Tutti hanno criticato lo spettacolo indecente della politica che si avventa sul dramma Englaro e specula sulla morte di una donna. Lasciate che io esprima un’opinione totalmente discorde: ho visto la politica finalmente pronunciarsi su temi concreti, alti ed essenziali che riguardano la vita e la morte. Ma come, critichiamo la politica ridotta a teatrino e interessi personali, condanniamo giustamente la politica occupata solo a gestire il potere, a dividersi gli utili e a scannarsi per le poltrone, e una volta che entra la dimensione etica, religiosa, civile, drammatica dell’esistenza umana, ci indigniamo? Non fraintendete, non sto auspicando l’appalto pubblico dei sentimenti privati, la politicizzazione della morte, l’uso elettorale di aborti, eutanasie, malattie e tragedie. Io sto dicendo che la politica sale di livello, ad altezza d’uomo, quando smette di dividersi su interessi di bottega e affronta quel che ormai si chiama da Foucault in poi, la biopolitica.
Finite le ideologie, non possiamo dividere la politica solo su basi giudiziarie o su conflitti malavitosi tra affaristi; la politica assume contenuti e concretezza quando si occupa del diritto alla vita e alla morte, di religione civile e di etica, di famiglia e coppie, di aborto e di eutanasia, di droga e di violenza ai minori, alle donne, nei quartieri. Sul tema specifico sollevato dal caso Eluana, lasciate che io esprima un’idea non condivisa né dai guelfi né dai ghibellini. Penso che ogni evento significativo della vita investa una dimensione personale e una comunitaria. E non si può sopprimere una o l’altra; esiste una tensione dialettica inevitabile, a volte drammatica, tra la sfera pubblica e la sfera privata.
Io credo che a livello personale, davanti all’agonia infinita di una vita, davanti alla sua perdita irreversibile di coscienza e di dignità, possa insorgere una scelta, che forse è una tentazione, non cristiana, ma umana, molto umana, di non prolungare l’esistenza. Una scelta del genere può avere pure un significato alto, che chiamerò stoico, nobilmente pagano: non insistere a difendere la sopravvivenza a ogni costo ma riconoscere una soglia di dignità, di accettabilità e di stanchezza. La capisco, la rispetto, non mi sento di chiamare assassino chi lo pensa, se lo pensa sulla propria vita o su una vita a lui strettamente intrecciata, di cui per una sorte eccezionale e drammatica, esercita supplenza di sovranità. In quel caso estremo capisco che decida di interrompere la vita, di non accanirsi a difenderne il prolungamento. Ma si assume tutta la responsabilità dell’atto. Una giustizia vera ma animata da pietas, saprà condannare l’atto, ma se sono vere tutte le circostanze addotte, saprà pure sospendere sine die l’esecuzione della pena. Credo infatti che passando dalla dimensione privata e personale alla dimensione comunitaria, pubblica, sia essa sul piano sanitario che sul piano giudiziario, ma anche sul piano legislativo, la salvaguardia della vita, e il soccorso, sia il dovere primo e assoluto. Non perché la legge ti espropria della sovranità sulla tua vita, ma perché una vera comunità ha il dovere di soccorrere una vita, assisterla e prolungarla, fino a che ci sarà un pur flebile alito di vita e di speranza.
E’ contraddittoria, schizofrenica questa divaricazione tra il personale e il comunitario? Può darsi ma non vedo soluzione migliore o alternativa dal punto di vista umano e civile, sul piano della vita o dei valori. E’ il punto di mediazione più alto tra i diritti sacrosanti della vita e il diritto sacrosanto alla vita, tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, tra pubblico e privato. La comunità ti vuole vivo, e difende la tua vita, persino da te stesso; ma alla fine sei tu, morente o tu famigliare del morente che ne fai le veci, a decidere, e ad assumerti la responsabilità suprema. Nel caso Englaro, il padre avrebbe dovuto assumersi lui la responsabilità della decisione finale, senza fare di sua figlia una testimonial di una lunga campagna pro eutanasia. E un giudice giusto e misericordioso avrebbe dovuto condannarlo e insieme sospendere la pena, per sancire la condanna della comunità di fronte a un atto che ha spento una vita; ma il rispetto, l’umana pietà, verso chi ha compiuto questo gesto disperato nella convinzione suprema di tutelare la dignità di quella vita e risparmiarle l’eventuale sofferenza.
Il governo, da parte, sua, ha fatto bene a pronunciarsi dalla parte della vita; può aver sbagliato procedura, ma non ha sbagliato scelta di fondo. E poi sappiamo bene che si usano questi casi limite, drammatici, per allargare poi l’interruzione di vita, come l’interruzione di gravidanza, ben oltre i casi straordinari come Eluana. Quel che si può rimproverare all’iniziativa del governo è solo il ritardo; una legge come quella andava proposta al Parlamento e varata molto prima. Ma per non dividere i propri schieramenti né la destra né la sinistra avevano finora osato prendere posizione; l’errore però non è essersi pronunciati, ma averlo fatto troppo tardi. Il cinismo era in quel silenzio, non nell’assumersi la responsabilità di pronunciarsi. Perciò a me non è parso un imbarbarimento quella disputa, se non in alcuni toni; ma un innalzamento della politica all’altezza della vita e dei suoi limiti. Se la politica è il luogo che regola il con-vivere, è giusto che affronti le decisioni che riguardano la vita insieme, fino alla morte. Perché la politica non è tecnica o pura gestione, ma dovrebbe essere il luogo in cui si mediano e si rappresentano valori e interessi, bisogni e sentimenti. E’ la sua umanità.
Di Marcello Veneziani (www.ilfoglio.it)

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