lunedì 27 aprile 2009

Non resistono quasi più


La retorica della liberazione, i partigiani, e tutti i “valori” hanno abbondamente rotto le scatole di un'Italia che volta pagina

Quest’orgia di valori è nauseante. I valori della resistenza, i valori della Costituzione, i valori della famiglia, i valori del cristianesimo... I valori i valori i valori. Più ne parlano e più li strapazzano e meno si ha la percezione di cosa siano. Nel linguaggio politico sono diventati luoghi comuni, tic lessicali, banalità, moneta bucata. Quando uno, nell’affanno di dover esprimere un concetto o concludere una frase, incespica e sta per annegare nel proprio eloquio stenterello si aggrappa al primo valore che gli viene in mente. Un ragazzo uccide la fidanzata o la mamma o il fratello o un amico o un passante? Chi è chiamato in tivù a commentare la tragedia, dopo aver dato fondo al bagaglio delle banalità, aggrotta la fronte e con aria da pensatore stitico afferma: il problema è che i giovani di oggi non credono più nei valori, nel valore della vita. Applausi del pubblico. Ogni uomo di partito si appella ai valori: i valori della destra, i valori della sinistra, i valori della democrazia, i valori della Patria. E i valori immobiliari? Quelli non si esaltano, si accumulano. Di Pietro ha addirittura fondato l'italia dei valori che rende di più della Borsa Valori.

Ieri i telegiornali erano inzuppati di valori della liberazione. Da sessantaquattro anni il 25 aprile, a pranzo e a cena, ci servono pane e valori della lotta partigiana, sempre lo stesso pane rancido. La liberazione è come il Festival di Sanremo e l'elezione di miss Italia: ci tocca.

Consola l'assenza di Pippo Baudo davanti al cippo dei caduti, ma non compensa il enso di stanchezza provocato dalla logorrea degli oratori resistenziali, da Napolitano all'ultimo presidente rionale dll'Anpi. Ai quali quest'anno – che Dio lo abbia in gloria – si è affiancato Berlusconi non sapendo rinunciare a unirsi al coro delle ovvietà patriottiche. Tu quoque, Silvio. Che depressione ascoltare il nostro Cavaliere errante in Abruzzo mentre elenca il menu “valoriale” di giornate.

Scusate lo sfogo, cari lettori, ma non ci importa nulla della liberazione, è storia antica, raccontata male, distorta a scopo propagandistico, deformata da vicende famigliari, e dal desiderio di rimuovere una colpa collettiva: l'adesione in massa al fascismo fino al 24 aprile, dopo di che tutti in piazzale Loreto a sputacchiare sul “Puzzone” e sulla ragazza giustiziata con lui in puro stile talebano; così per divertimento. Che è pur sempre un valore aggiunto.

A noi preme piuttosto la Libertà (oltre a Libero), quella che riusciamo con fatica a conquistarci giorno dopo giorno col lavoro e il rispetto delle leggi, persino quelle idioet approvate in mezzo secolo da un Parlamento dove prevale ogni interesse tranne quello del popolo considerato ormai una parolaccia. Altro che resistenza ci vuole per sopportare le insegnati finte malate da tre anni e la spesa sanitaria nelle regioni del Sud, miliardi (di deficit) sprecati in ospedali costruiti col lego, citando solo due cosette registrate ieri dalla cronaca.

In nome della libertà mi prendo la licenza di irridere alla liberazione e alle sue ipocrisie. E spengo il televisore sulla faccia di un Franceschini che si intorcina fra valori.


Vittorio Feltri (Libero)

Non ho tradito - Non Nobis Domine



Tremar dovesse la terra sotto
Il tuo gagliardo passo d'ardito,
Tu va' sicuro con il tuo motto:
Non ho tradito!
Se l'ira cieca, se l'odio tetro,
Al tuo passare ti segna a dito,
Rispondi senza guardare indietro:
Non ho tradito!
Se l'ingiustizia, se la vendetta,
Per la tua fede t'avran colpito,
La tua parola tu l'hai già detta:
Non ho tradito!
Se nel tuo sangue tu giacerai,
Spirito invitto, corpo ferito,
Più fieramente risponderai:
Non ho tradito!
E se la morte che t'è d'accanto
Ti vorrà in cielo, dall'infinito
Si udrà più forte, si udrà più santo
Non ho tradito!
Per l'onore d'Italia, per l’onore d'Italia
Non ho tradito, non ho tradito, non ho tradito!
Per l'onore d'Italia, per l’onore d'Italia
Non ho tradito, non ho tradito, non ho tradito!

martedì 21 aprile 2009

Buon Natale Roma!


Duemila duecento sessanta due ab Urbe Condita

Roma divina, a Te sul Campidoglio
dove eterno verdeggia il sacro alloro,
a Te nostra fortezza e nostro orgoglio,
ascende il coro.
Salve Dea Roma! Ti sfavilla in fronte
il Sol che nasce sulla nuova storia;
fulgida in arme, all'ultimo orizzonte
sta la Vittoria.

Sole che sorgi libero e giocondo
sul colle nostro i tuoi cavalli doma;
tu non vedrai nessuna cosa al mondo
maggior di Roma.

Per tutto il cielo è un volo di bandiere
e la pace del mondo oggi è latina:
il tricolore canta sul cantiere,
su l'officina.
Madre che doni ai popoli la legge
eterna e pura come il Sol che nasce,
benedici l'aratro antico e il gregge
folto che pasce!

Sole che sorgi libero e giocondo
sul colle nostro i tuoi cavalli doma;
tu non vedrai nessuna cosa al mondo
maggior di Roma.

Benedici il riposo e la fatica
che si rinnova per virtù d'amore,
la giovinezza florida e l'antica
età che muore.
Madre di uomini e di lanosi armenti,
d'opere schiette e di penose scuole,
tornano alle tue case i reggimenti
e sorge il sole.

Sole che sorgi libero e giocondo
sul colle nostro i tuoi cavalli doma;
tu non vedrai nessuna cosa al mondo
maggior di Roma.

Da Noreporter

Primavera di sangue a Belfast

Di Giorgio Ballario dal Fondo

Noi conosciamo il loro sogno; ci basta
sapere che chi sognava è morto;
e se l’eccessivo amore
li avesse ingannati tutti fino alla morte?
Lo scrivo in versi
Macdonagh e MacBride
e Connolly e Pearse
adesso e nel tempo che verrà,
dovunque si indossi il verde
sono cambiati, completamente cambiati:
nasce una tremenda bellezza.

Da “Pasqua 1916″ di William Butler Yeats

Il 24 aprile in Irlanda si celebrerà il 93° anniversario della “Pasqua di sangue”, come venne chiamata l’insurrezione armata che diede inizio al processo d’indipendenza della parte sud dell’isola di smeraldo. Whiskey e birra scura scorreranno a fiumi fra Dublino e Cork, Galway e Limerick; ma non ci sarà festa nelle Sei Contee dell’Irlanda del Nord, che gli irlandesi di fede repubblicana considerano ancora occupate dall’invasore britannico.

Non ci sarà festa soprattutto perché negli ultimi mesi si è assistito ad una escalation di violenza che sembrava relegata agli anni bui del passato, quelli precedenti al cessate il fuoco proclamato dall’Ira nel 1997 e ai successivi accordi fra cattolici e protestanti. E’ presto per dire se stia prepotentemente tornando a galla una delle ultime guerre europee, ma i segnali negativi ci sono tutti. L’intelligence di Londra era sul chi vive già da tempo, ma non ha potuto evitare i sanguinosi attentati di marzo: il 7, due militari britannici sono morti e altri due sono rimasti feriti in un attentato alla base militare di Massereene, nella Contea di Antrim; e due giorni dopo è stato ucciso un poliziotto a Craigavon, nella Contea di Armagh.

A firmare le aggressioni sono state due sigle tutt’altro che sconosciute, ma considerate “in sonno” da alcuni anni: a Massareene ha colpito la Real Ira, mentre l’uccisione del poliziotto - quasi una risposta politica all’attentato nella base militare - è stata firmata dalla Continuity Ira. Due frange militari che si sono staccate dall’Ira tradizionale denunciandone il “tradimento” dopo il cessate il fuoco del ‘97. «Assassini che non fermeranno il processo di pace», tuonano gli esponenti del Sinn Fein, l’ex ala politica dell’Ira ora coinvolta nel governo congiunto con i protestanti filo-britannici. «Non più di 300 irriducibili che hanno perso il contatto con la base cattolica», taglia corto sir Hugh Orde, capo della polizia nell’Ulster. Il quale, tuttavia, da mesi metteva i suoi in guardia sul pericolo di una ripresa dell’attività terroristica - ma anche di guerriglia urbana - degli estremisti repubblicani.

In realtà le frange radicali, deluse dagli accordi di pace del 1998, stanno rapidamente guadagnando consensi nei quartieri cattolici di Belfast e nelle altre città nordirlandesi, soprattutto fra i giovani che negli ultimi dieci anni non hanno visto grossi miglioramenti da un punto di vista politico, economico e sociale. «Repubblicani e unionisti - spiega Joseph McKeowen, militante di Youthlink, l’agenzia che cerca di costruire un dialogo tra i giovani delle due comunità - vengono per lo più da zone molto povere: vivono nelle case popolari, campano con i sussidi. La crisi ha già avuto un impatto: spinge i ragazzi senza lavoro a frequentare i dissidenti. E trovano così un senso di appartenenza.»

Non è quindi un caso che a Lurgan, nelle scorse settimane, fossero proprio “nuove leve” repubblicane a tirare pietre e molotov contro gli agenti di polizia. I disordini sono esplosi quando un “grande vecchio” dell’Ira, Colin Duffy, è stato arrestato in relazione all’omicidio dei due soldati britannici. Con lui sono state fermate altre nove persone, quasi tutte rilasciate dopo pochi giorni. Già, perché anche da parte britannica la storia sembra aver insegnato poco: la risposta ai due attentati di marzo è stata prima di tutto repressiva. Retate, perquisizioni, arresti indiscriminati fra i militanti cattolici, tempi di fermo preventivo (senza accuse) che sforano spesso i sette giorni. Misure che hanno spinto ad intervenire persino Gerry Adams, numero uno del Sinn Fein ora al governo: «Ci sono alcune persone, tra cui un giovanotto di 17 anni, in custodia per periodi che si estendono al di là delle migliori pratiche in materia di diritti umani. Non è accettabile, dovrebbero essere accusati di qualcosa oppure rilasciati».

Duffy, ex prigioniero dell’Ira e fondatore di un gruppo politico, Eirigi, che non riconosce il governo di Belfast, sarebbe stato picchiato dagli agenti e sottoposto a forti pressioni psicologiche, tanto che in cella ha cominciato uno sciopero della fame per protesta, subito imitato da altri dieci militanti finiti dietro le sbarre. Fatti che inevitabilmente riportano indietro le lancette, ai tempi di Bobby Sands e agli altri “strike hungers” che si lasciarono morire all’inizio degli anni Ottanta. Così come riporta al passato il comportamento dei secondini del carcere di Maghaberry, che nei giorni scorsi hanno proibito ai detenuti politici repubblicani di indossare gli “easter lillies”, i gigli pasquali della tradizione cattolica che simboleggiano il ricordo dei compagni caduti. Chi l’ha fatto è stato messo in isolamento per 48 ore. «Dobbiamo congratularci con i prigionieri repubblicani per il loro onore e la disciplina mostrata rigettando tali regole assurde - ha dichiarato Richard Walsh, portavoce del Republican Sinn Fein, altro gruppo radicale nato da una scissione del partito cattolico governativo, considerato vicino alla Continuity Ira - Un plauso ai prigionieri per il loro spirito intatto a dispetto dei tentativi di emarginarli e criminalizzarli nel loro sforzo di portare alla liberazione dell’Irlanda.»

Insomma, se la situazione non è esplosiva, poco ci manca. «L’esercito britannico non tornerà a pattugliare le strade di Belfast» ha promesso il capo della polizia Orde. E per adesso anche i gruppi paramilitari unionisti assicurano di non avere nessuna intenzione di riprendere le armi in mano. Intanto, però, gli arsenali di entrambe le fazioni restano intatti e ben custoditi in luoghi segreti. «Ho combattuto quella guerra e so che ormai è finita», sostiene Martin McGuinness, ex leader dell’Ira, già detenuto politico nelle carceri inglesi, ora vicepremier del governo di Stormont. Fa un certo effetto vedere gente come lui e Gerry Adams, simboli della resistenza cattolica e repubblicana negli anni Settanta e Ottanta, venire trattati dalle frange radicali come “traditori”. «Sento queste persone parlare di cacciare il governo britannico e di liberare l’Irlanda, ma non riescono neppure a riunirsi tra di loro. Come possono sperare di riunificare l’Irlanda è un mistero per me», ha commentato amaro McGuinness.

Forse Adams, McGuinness e gli altri vecchi dell’Ira e del Sinn Fein si sono davvero imborghesiti, dopo aver scoperto gli agi del potere. Oppure la loro è la voce della saggezza, di chi ha visto un paio di generazioni morire o marcire in carcere inseguendo l’utopia di cacciare gli inglesi e riunificare l’isola. Quel che è certo è che nelle Sei Contee sono ancora in tanti a pensarla come la Continuity Ira, che nel comunicato di rivendicazione dell’omicidio del poliziotto ha scritto: «Fin quando ci sarà l’occupazione britannica, questi attacchi continueranno».

Guareschi, Ferrazzoli e (non solo) Don Camillo

Da Il Fondo: Susanna Dolci intervista Marco Ferrazzoli

Dunque facciamo il computo: il prossimo primo maggio saranno i suoi 101 anni dalla nascita (1908) + 41 dalla morte (1968) = disegnatore, umorista, giornalista, scrittore. Moltiplicato per “Bertoldo”, “Candido”, “Borghese”, “La Notte”, “Oggi” e, tra i numerosi libri, “Il destino si chiama Clotilde” (1942), “Diario Clandestino” (1946), “Lo Zibaldino” (1948), “Mondo piccolo: Don Camillo” (1948). Dividiamo la sua bravura anche con i furono Fernandel e Gino Cervi e tiriamo le somme. No anzi, per carità, ancora no la riga del totale. I conti tornano solo se aggiungiamo la penna di Marco Ferrazzoli [nella foto sotto] che nel 2001 ed a fine 2008 ha editato due libri su di Lui. Giornalista professionista e capo ufficio stampa del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Ferrazzoli ha al suo attivo una mole di pagine scritte, quasi avesse un po’ preso il vizio del nostro di cui stiamo scrivendo… Giovannino Guareschi. O meglio per dirla con il titolo dell’ultimo volume ferrazzoliano, alla sua seconda edizione, Non solo Don Camillo. L’intellettuale civile Giovannino Guareschi (L’Uomo Libero Onlus, www.luomolibero.it). Guareschi va sempre rispettato, amato e ricordato ad ogni e da ciascuna generazione. Guareschi va ammirato per la sua azione indipendente e scevra da legami politici, partitici e legata “solo” a quelle dignità, forza d’animo ed eticità che sempre lo hanno contraddistinto. La sua scrittura è stata adamantina e franca. Di quella lucida schiettezza intellettuale di chi è andato all’inferno e tornato dopo aver obliterato con il sangue, le lacrime, la disperazione lacerante i documenti di viaggio. Di chi, però ed anche, ha imparato ad usare il bisturi dell’ironia per rimuovere la purulenza delle nefandezze della guerra, della politica, della religione al pari della laicità. Al duro prezzo, certamente, dell’agognata verità. Meglio: Libertà. «No, niente appello: per rimanere liberi bisogna a un bel momento prendere senza esitare la via della prigione», scriveva Guareschi. Alzi la mano se c’è ancora qualcuno disposto a fare ciò! Se tuttora c’è, lo premierò personalmente con il migliore dei lauri… riconoscendogli ciò che gli è di spettanza, foss’anche un niente di nullo valore. Perché è stato il niente il dovuto a Guareschi. Ma Egli ne fece, pur sempre, il preferibile ed inappuntabile dei patrimoni… E lontane echeggiano quelle parole di piombo di chi fu al suo pari integro, Ezra Pound: «Il tesoro d’una nazione è la sua onestà»… O, almeno, dovrebbe… Anche per ogni singolo: dovrebbe… Ma dipende sempre dai quei benedetti/maledetti punti di vista…. Lascio qui la parola a Marco Ferrazzoli, catturato da Il Fondo tra una presentazione e l’altra del suo volume, e ringraziato sentitamente per la sua pronta disponibilità.

Quanti libri hai scritto su Giovannino Guareschi? E perché la passione per questo pazzo ed eccezionale scrittore ed uomo?

Due: Guareschi. L’eretico della risata, edito da Costantino Marco nel 2001, e Non solo Don Camillo, uscito a fine 2008 per l’Uomo Libero. Più ovviamente una quantità di articoli, relazioni, etc. La passione come lettore è nata da bambino, quella come saggista da adulto, quando già lavoravo come giornalista.

Ci puoi parlare de “L’Uomo Libero”?

Nata come sodalizio culturale, l’Associazione “l’Uomo Libero” ha esteso le sue attività alle iniziative umanitarie che, con il trascorrere degli anni, si sono moltiplicate: Romania, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Lituania, ex-Jugoslavia. In Serbia ha ricostruito l’ospedale di neurologia infantile di Belgrado, danneggiato dai bombardamenti Nato. E poi Bolivia, Cile, Ecuador e Tibet, con la realizzazione di un Centro per l’infanzia a Bhandhara. L’associazione si è impegnata nella premiazione del Dalai Lama al Premio Internazionale di Solidarietà Alpina nel 2001. Negli ultimi anni l’associazione è assorbita dal progetto “Evita” in favore della popolazione argentina e alla Birmania e al popolo Karen. Nella Birmania Orientale è in corso una sanguinosa guerra contro i Karen e l’Uomo Libero ha lanciato il progetto agricolo “Terra e Identità”, al quale vanno anche i ricavati del libro.

Dubbio amletico: Guareschi è di destra, sinistra, centro? È l’uomo della im-possibile unificazione tra cattolici e comunisti? O ‘è’ unico e basta?

È impossibile o almeno intellettualmente ‘omertoso’ pensare a un Guareschi che non sia di destra, anzi che non sia considerato come uno degli scrittori più emblematici di quest’area politico-culturale. Il Guareschi ‘apolitico’, magari addirittura ‘catto-comunista’, anticipatore del compromesso storico, è una deformazione grottesca, spesso propalata in malafede dai suoi avversari e critici ma talvolta, il che è forse peggio, sostenuta dai suoi amici nell’intento di difenderlo. Purtroppo l’equivoco è stato tanto diffuso che ancora oggi si fatica a sradicarlo. L’Espresso e Carlo Fruttero definiscono Giovannino come l’inventore del e . Mario Missiroli come il profeta del , Enzo Biagi parla di . Per Giovanni Mosca, Baldassarre Molossi e Alberto Giovannini, GG anticipa , e . Il mio saggio vuol confutare tale tesi ed essere una biografia politica e intellettuale che poggi prima di tutto su quanto Guareschi diceva e diceva di se stesso. Ad esempio, cito la frase che lui chiese autoironicamente come epitaffio: . Dunque, Guareschi è un ‘reazionario confesso’. La medesima qualifica, del resto, compare anche nella “carta d’identità” del suo giornale, quello tra i tanti dove scrisse che politicamente lo identifica meglio: . Nella presentazione del suo settimanale poi compare un’altra espressione senza possibilità di fraintendimenti: . Dunque Guareschi è anche “di destra”, nel senso che lui stesso dichiara con un’articolata auto-presentazione: .

Allora quale la grande importanza di Guareschi nella storia del XX secolo?

Indro Montanelli fu lapidario: «La storia del XX secolo la si può fare senza chiunque altro ma non senza Guareschi». Io lo confermo, evidenziando che Guareschi non solo fu un grande scrittore, giornalista, disegnatore e umorista, ma soprattutto un grande intellettuale e personaggio italiano. È un autore centrale della nostra letteratura, un giornalista politico fondamentale e un raro esempio di coerenza umana e intellettuale. Non esagero, anche solo ricordando gli episodi più importanti della vita e dell’opera di questo scrittore. Già nella prima metà del ‘900 Giovannino è un celebre giornalista del Bertoldo. Nel 1943 viene deportato nei lager nazisti, divenendo una figura di spicco della “resistenza bianca”. Al rientro fonda e dirige il Candido, il maggior settimanale politico-satirico del dopoguerra. Nel ‘46 sostiene la monarchia al referendum istituzionale. Fornisce un contributo essenziale alla vittoria democristiana nelle elezioni del 1948 con i famosi manifesti «Nell’urna Dio ti vede, Stalin no» e «Mamma votagli contro anche per me». Diviene un importante opinion-leader, uno dei più feroci fustigatori del partitismo e il principale polemista anti-comunista. Nel ‘53 finisce in carcere per diffamazione di Einaudi e De Gasperi. Già questa sommaria lettura della sua biografia dimostra come sia stato uno dei più importanti intellettuali civili italiani del ‘900. Naturalmente, ci sono anche i libri del Mondo piccolo e molti altri: venduti e tradotti in milioni di copie, hanno ispirato film ancor oggi di grande audience. Ma, forse, a questo successo si deve un paradossale fraintendimento: l’edulcorazione dell’importanza storica e culturale di Guareschi e la sottovalutazione della sua statura morale. Ecco perché ho voluto intitolare il mio saggio ‘Non solo Don Camillo’

Il 2008 è stato un anno importante per Guareschi. Il centenario della nascita ed il quarantennale della morte. Come sono state le celebrazioni?

Il tempo sta rendendo giustizia a Giovannino Guareschi con lenta parsimonia. Tra il 2008 e l’inizio del 2009, in occasione dei 100 anni dalla nascita, si sono visti Don Camillo e Peppone sulle copertine de il Venerdì di Repubblica, articoli che esaltano i 20 milioni di libri , molte iniziative sulla piazza emiliana e nazionale, inclusi convegni all’Università che hanno un po’ il sapore della riabilitazione accademica. In quest’anno guareschiano, tra serate conviviali, itinerari culturali, fluviali ed eno-gastronomici, il profluvio saggistico è stato davvero una doverosa nemesi rispetto alla prolungata omertà. Certo, anche in questo frangente ad esaltarlo è stata soprattutto la critica moderata, conservatrice, non di sinistra, ma si sono tenute anche iniziative più filologiche. Inclusa quella sul film La rabbia che ha visto il famoso episodio della cosiddetta della parte firmata da Guareschi ad opera di Giuseppe Bertolucci, il regista che ha detto: .

«Non muoio neanche se mi ammazzano». Questa è una delle frasi celebri di Guareschi.

L’otto settembre del 1943 Guareschi decide, insieme agli altri ufficiali, di finire nei lager pur di restare fedele alla parola data come . Il calvario dello scrittore e dei suoi compagni si protrae dal settembre 1943 all’aprile del ‘45, passando per sette campi di concentramento di Germania e Polonia. Giovannino giunge a un soffio dalla fine per debilitazione, crolla da ottanta chili a quarantasei ma trova la forza necessaria per tornare vivo. Come aveva promesso. è la frase che ripete, come tu osservi, ai compagni di detenzione per rincuorarli. Per loro organizza iniziative come Radio Caterina, Radio B90, la “Regia università di Sandbostel” e i giornali parlati, nella convinzione che tenere alto il morale sia la prima condizione affinché il corpo non ceda. Oreste Del Buono ricordò il collega e compagno di lager così: .

Guareschi è stato inserito nella corrente storiografica del “revisionismo”. Secondo me è stato “semplicemente” un uomo che ha vissuto tutto quello che si poteva ed è riuscito a scriverne in uno stile superbamente umile, lucidamente emotivo… Per te?

Possiamo senz’altro inserire Guareschi nella corrente storiografica del “revisionismo”. Come affermò sempre Montanelli, era , con la sola differenza che . Il revisionismo guareschiano ha però, su questo hai ragione, una ricaduta letteraria di indubbia poeticità. Pensiamo al racconto , in cui un anziano maestro si trova davanti al compito zeppo di errori del figlio di uno degli assassini del suo unico figlio Mario, andato partigiano e ucciso in guerra: indeciso sul voto tra , è a suggerirgli il sei. Come osserva Gianfranco Venè, nel Mondo piccolo . Sul piano politico, possiamo dire con Roberto Chiarini che era un , per quanto sia forse ancor più corretta la qualifica di “a-fascista”. Lo dimostrerà con il Candido, nell’immediato dopoguerra, decidendo di stare con i pochi che . Gli italiani, constata con amarezza, si illudono: . Il riferimento a piazzale Loreto torna esplicito in un altro commento del settimanale: . Lo stesso atteggiamento porta Candido a battersi contro le , e la legge che vieta la ricostituzione del : . Chiarini osserva che Guareschi passa da un ad una posizione di .

Ancora sulle perle di Guareschi. Puoi citarci alcuni suoi pensieri o frasi folgoranti? Ti aiuto, iniziando io: «Eterno Pericolo (20 gennaio 1944): Racconti di guerra: Russia, Croazia, Albania, Montenegro, Africa, cielo, mare. Qui si vivono mille vite, la guerra si moltiplica in mille episodi, e non è più una parola, ma un concetto di spaventosa, terrificante evidenza. Anche per chi non l’ha vissuta. Ma domani la storia diventerà letteratura, e si faranno recensioni ai libri, non alla guerra. E si dirà - come per Remarque -: “Che bel libro!”. E nessuno dirà: “Che orrore di guerra!”».

Vado a caso: , . Al Corriere emiliano, nella cronaca del discorso tenuto da un ras, scrive che persino i degenti del locale manicomio avevano applaudito. Sulla Gazzetta dell’Emilia titola un articolo su una vedova morta vicino alla lapide del marito: . Ricordando , dice che i leader . Tra le frasi serie, invece: , scrive nel Grande diario. E nel lager usa un’espressione straordinaria: . In carcere, dieci anni dopo, terrà lo stesso atteggiamento: . E ripete: .

Ci vuoi parlare di lui e Giorgio Pisanò?

Guareschi incontra Pisanò - ex combattente della Rsi, parlamentare del Msi, fascista dichiarato ma giornalista e storico apprezzato - il quale, rilevata la testata del Candido, chiede al suo fondatore ed ex direttore di farla rivivere insieme. La proposta, racconta Pisanò, viene accettata da Guareschi con , maturata su istanza di lettori e ammiratori: . Il tutto avviene però e la improvvisa e precoce scomparsa di Guareschi, a soli 60 anni, manda a monte il progetto comune: Pisanò, com’è noto, condurrà il Candido da solo.

Concludendo: a chi consiglieresti la lettura di Guareschi? Ed ha senso leggere ancora Guareschi in questo secolo di nullità e deserto canceroso?

Lo consiglierei a tutti, soprattutto perché viviamo in un’epoca culturale in cui, in effetti, non sembrano abbondare i giganti.

Giano Accame: camera ardente tra tanti libri e la bandiera della RSI

Per salutarlo, i suoi amici sono dovuti entrare nel suo studio. Un’altra volta, un’ultima volta.
E per un’ultima volta, lo sguardo accarezza il viso incofondibile di Giano Accame per poi soffermarsi sulle migliaia di libri sistemati in doppia fila e sule pareti ricoperte da quadri. Segni di una cultura poliedrica: un grande ritratto di Dante Alighieri; una caricatura di Giuseppe Garibaldi; un paio di Benito Mussolini... Solo a questo punto, ci si rende conto degli ultimi gesti con i quali Accame ha voluto sancire la fedeltà alla sua storia: la camicia nera e una bandiere della Repubblica sociale a coprire le gambe. E poi tanti altri particolari. Uno fra tutti: sulla parete a destra, una prima pagina del Secolo d’Italia. Del 1988, Accame direttore. Una foto di Gianfranco Fini con in braccio una bambina di colore. Titolo cubitale: «Solidarietà». E il fondo del direttore che spiegava come la destra italiana non può essere razzista... Ed è stato proprio Gianfranco Fini che, rendendo omaggio alla salma del giornalista, ha ricordato insieme alla moglie e ai figli quando, nel lontano 1988, appena eletto segretario del Msi, si era recato una sera in quella casa per offrire al giornalista la direzione del giornale di partito. La sensazione, forte, è quella che andando a rileggere gli articoli che Accame scriveva negli anni Ottanta, gli osservatori potrebbero capire moltissimo della destra di oggi. E che Giano Accame fosse ancora un interlocutore attento per chi segue professionalmente la destra italiana, lo dimostra la presenza alla camera ardente di due giornalisti, Stefano Di Michele e Alessandra Longo: «Lo avevo intervistato solo pochi giorni fa – spiega la giornalista di Repubblica – era affascinato dal rimescolamento delle carte che comporta la nascita del Pdl. Affascinato dal nuovo, come sempre». Il “via vai” discreto e silenzioso nella sua casa sul Lungotevere dimostra proprio la grande apertura mentale del giornalista e scrittore. Gianfranco Fini ha incontrato Francesco Rutelli. Il presidente del Copasir si è detto colpito dalla morte dell’ex direttore del Secolo d’Italia al quale era legato da un «rapporto personale di grande affetto». Per l’ex sindaco di Roma «Accame era un intellettuale rigoroso, una persona stimabile, perbene e corretta. Non puntava a mettere d’accordo destra e sinistra: aveva le sue idee, cui non volle mai rinunciare, ma il suo modo di comportarsi ha permesso in anni difficili di affermare, anziché l’intolleranza, la contrapposizione o la violenza, la categoria del rispetto tra chi aveva idee differenti». È forse proprio per questa sua caratteristica che l’amico Giampiero Mughini lo ha voluto ricordare con parole piene di affetto e gratitudine: «Giano Accame è stato uno dei grandi personaggi dell’Italia repubblicana recente. Quando tutti impazzivano, lui è rimasto fedele alla sua giovinezza riuscendo contemporaneamente ad aprirsi al mondo nuovo, alle cose nuove. Se tra destra e sinistra non ci sgozziamo più come una volta, lo dobbiamo a uomini come lui». Il sindaco di Roma Gianni Alemanno – anche lui alla camera ardente – ha ricordato così quello che ritiene il suo maestro: «È stato un intellettuale di grandissimo spessore che ha attraversato tutta la storia del dopoguerra con posizioni molto ricche e significative. Accame è stato uno dei grandi maestri della cultura di destra». Sulla stessa lunghezza d’onda l’assessore alla cultura della capitale, Umberto Croppi – «Giano ci ha insegnato il dovere della ligenerale bertà intellettuale, della cultura critica» – lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco – «Lui è stato sempre avanti a tutti noi. Non è mai stato affetto da nostalgismo » e il politologo Luigi Di Gregorio: «Le sue analisi hanno aiutato il mondo della destra a crescere politicamente». Di «capacità intuitiva» parla anche lo storico Giuseppe Parlato: «Accame – spiega il direttore della Fondazione Ugo Spirito – aveva un’idea dinamica della nazione». Oltre ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli e alla segretaria dell’Ugl, Renata Polverini, tra i tantissimi amici anche il pittore Pablo Echaurren. Parla di getto, senza neanche pensarci: «Per me Giano è stato come un padre. Mi ricordo ancora la sua prima telefonata, il 1988. Era appena uscita la mia biografia a fumetti di Filippo Tommaso Marinetti: “Sono Giano Accame, direttore del Secolo d’Italia, possiamo fare un’intervista?”.
E così ci siamo sentiti, poi visti. Non ci siamo più lasciati...”». Nella parole di Echaurren c’è più che affetto, c’è molto di più: «C’è riconoscenza – spiega – era diventata un’amicizia “parentale” fondata sulle stesse sensibilità culturali. Un compagno di viaggio splendido». Il viaggio reale ma, anche, quello metaforico: «Devo a Giano la scoperta intellettuale, profonda, di Ezra Pound. Mi ha accompagnato in mondi sconosciuti. Possedeva una curiosità infinita, a 360°: parlava di un libro, un quadro, un film, intrecciando con spontaneità più livelli». Amicizie vere, quelle di cui Giano Accame si era circondato negli anni. Amicizie intellettuali, certo, con esponenti di un mondo culturale in apparenza lontano, ma anche profondamente umane, interecciate di interessi paralleli. Con l’ex assessore alla cultura di Roma, Gianni Borgna, ad esempio, parlava anche dei suoi gatti: «Già – accenna un sorriso amaro l’attuale presidente della Fondazione musica per Roma – quella animalista era una delle nostre passioni in comune. Giano viveva circondato da cani e gatti. Un giorno mi ha chiamato per avere consigli veterinari». Un’unione, quella tra Accame e Borgna, umana e culturale: «Ci conoscemmo personalmente in occasione dei convegni su Marinetti e Gentile che volli organizzare nel ’93, quando divenni assessore al Campidoglio. Ho scoperto un intellettuale vero. Una passione genuina per la cultura, senza steccati, senza dogmi. Una delle pochissime persone con cui ho avuto la possibilità di scambiare sensibilità culturali profonde, al di là dei mondi di provenienza. E poi, soprattutto, l’interesse, l’attrazione, per i perdenti, per gli irregolari, per i trasgressori delle regole precostituite».

di Filippo Rossi dal Secolo d'Italia

domenica 19 aprile 2009

In ricordo di Giano Accame

L’esule in patria che ha esaltato l’Italia dalla parte dei vinti

Fra i ragazzi che ancora fecero a tempo a partecipare alla Seconda guerra mondiale dalla parte sbagliata, Giano Accame fu uno dei primi a dare intellettualmente il suo addio al fascismo, e però per tutta la sua vita gli rimase l’amara consapevolezza che un Paese che non ha orgoglio del proprio passato, rispetto del proprio presente e fede nel proprio avvenire è un Paese miserabile.
Così, il quindicenne che si era arruolato nella X Mas negli ultimi giorni del ’45, divenne il trentenne che negli anni Sessanta ipotizzò con Randolfo Pacciardi, eroe antifranchista della guerra di Spagna, una Nuova repubblica in stile gollista, il quarantenne che all’indomani del ’68, favorevole alla contestazione studentesca anti-sistema, ruppe con il settimanale per cui scriveva, Il Borghese, che in essa vedeva solo i capelloni e la sovversione, il cinquantenne che teorizzò intorno al Psi di Bettino Craxi l’idea di un socialismo tricolore che recuperasse il meglio appunto della lotta sociale e dell’idea nazionale, non più in contrasto, ma in accordo, l’attuazione di quel Risorgimento che era stato élitario e non di popolo e che il Novecento delle masse e dei partiti totalitari non era riuscito a portare a reale compimento.Figlio di un ufficiale di marina, sposato con la figlia di uno dei grandi eroi della prima guerra mondiale, il mutilato e medaglia d’oro Carlo Delcroix, Accame fu per quasi tutta la sua vita un italiano che si ritrovava esule in una patria che era la sua, ma che faceva di tutto per tenerlo a distanza. Come spesso accade alle persone che hanno un carattere, delle idee e dei princìpi, rimase a lungo ai margini della nuova Italia intellettuale che era nata dalla rovina del fascismo e della sconfitta, ma si vide tenuto in sospetto e in dispetto da tutto quel mondo di destra reducistico che di quella rovina e di quella sconfitta aveva fatto la propria ragion d’essere. Così, quando nel 1961 inventò come segretario generale del Centro di vita italiana il Primo incontro romano della Cultura e cominciò a portare da noi Ernst Jünger e Gabriel Marcel, James Burham e John Dos Passos, Vintila Horia e Thomas Molnar, Odisseo Elitis e Michel Déon, a sinistra fecero finta di niente o diedero l’allarme per quella lista di «reazionari» e a destra li si derubricò al rango di carneadi, di signor nessuno, insomma. Elitis, a cui toccò il compito di chiudere una delle sezioni degli incontri, anni dopo avrà il Premio Nobel, Déon, che ne presiedette un altro, divenne Accademico di Francia e quanto agli altri nomi, parlano da sé.
Questa apertura internazionale, non confliggeva con la disperata ricerca di un orgoglio nazionale. Accame era, sotto questo aspetto, un degno erede di Mario Missiroli, il Missiroli che nel primo Novecento aveva introdotto Sorel in Italia, cercato di spiegare la laicità dello Stato a papa Pio X e a papa Benedetto XV, il fascismo a Mussolini e il socialismo a Turati, il Missiroli convinto che la grandezza e la dannazione dell’Italia stessero nel pensare più in grande di quello che la sua taglia di «nazione media», per non dire «piccola», le poteva consentire... C’era troppa storia, troppa arte, troppa intelligenza, troppa ambizione per una semplice penisola a forma di stivale... Così, nuovamente, era attraverso una dimensione culturale, uno scambio fecondo di idee, che si poteva ridare all’Italia quella primazia che la impotenza politica le negava. Ancora negli anni Sessanta, quando il nome di Céline giace da noi dimenticato, l’unico italiano chiamato a parlarne nei prestigiosi Cahiers de l’Herne, a fianco di firme come Henry Miller e Leo Spitzer, André Gide e Jack Kerouac, Paul Morand e Marcel Aymé, è Giano Accame.
Giornalista economico, prima al Fiorino, poi a Italia oggi, la conoscenza delle leggi dell’economia non si tramutò mai in lui in feticcio liberista, in adorazione del libero mercato. Glielo impediva la profonda conoscenza di Pound e dei grandi eretici del capitalismo come Ferdinando Ritter, ma ancora più una vena poetica e solidaristica che vedeva nell’economico non un corpo separato, ma una delle funzioni di ogni retta società umana, al servizio della politica e non forza a sé. Tutto, alla fine, rientrava in quella dimensione di grandezza nazionale, che faceva di lui, per il tipo di letture fatte, di educazione ricevuta, un classico uomo del Novecento, faustiano nel suo uso della scienza e della tecnica, europeo nel suo riconoscersi debitore di un pensiero e di una cultura.
Proprio perché a disagio in un Paese troppo amato e dal quale non ha avuto quello che il suo ingegno avrebbe meritato, Accame ha attraversato il cinquantennio postbellico con la dignità di quella frase di Guglielmo il Taciturno: «Non occorre riuscire per perseverare, né sperare per intraprendere». Alto, robusto, elegante, aveva dell’esistenza una concezione per molti versi spartana. «Se penso al mio luogo ideale per scrivere, è una cuccetta di bordo, una tenda militare» mi disse una volta. Stava in una bellissima casa sul Lungotevere, ma come se stesse accampato.
La caduta del Muro di Berlino, la fine del comunismo, Tangentopoli e il crollo della prima Repubblica, il dibattito sulle riforme istituzionali e sulla modernizzazione del Parlamento confermarono la bontà delle intuizioni di un tempo e lo misero con naturalezza al centro del dibattito politico e culturale, suggeritore di una destra che per la prima volta aveva un ruolo in partita, interlocutore di una sinistra che non riusciva più a interpretare le esigenze del Paese. Antiche ruggini e sospetti si sciolsero, un diverso clima si instaurò. Fu direttore del Secolo d’Italia, collaboratore principe delle pagine culturali del Giornale negli anni caldi della discesa in campo di Berlusconi, evitò saggiamente candidature alla Camera e al Senato, guardò alla nascita di Alleanza nazionale e alla svolta di Fiuggi con realismo, unico modo trovato per uscire dal Novecento delle ideologie e delle contrapposizioni. Non essendosi mai sentito un reduce, avendo regolato i propri conti intellettuali e personali molto tempo prima, non lo interessava la sterile polemica sulla fedeltà o no a un patrimonio ideale, né aveva bisogno di costruirsi una verginità di immagine. Criticò l’eccesso di enfasi, le abiure maldestre e le abiure in malafede, ma era consapevole che la fine delle ideologie imponeva nuovi schieramenti, alleanze, prospettive.
Con lui se ne va un italiano che non fu mai né arci né anti, atteggiamenti che facevano a pugni con la sua sobrietà di ligure. Per tutta la vita ha cercato di essere fedele a quella immagine di ragazzo quindicenne che, nel giorno della sconfitta, resta dalla parte di chi ha perduto. È morto in armonia con sé stesso.
di Stenio Solinas

lunedì 13 aprile 2009

L'ultimo fascismo

Chi voglia accostarsi alla storiografia sulla Repubblica di Salò si trova spiazzato. Ed è una “fatica doppia se, poi, cerca una ricostruzione di quella drammatica stagione della nostra storia nazionale non guidato dal bisogno ideologico, quasi esistenziale, di testimoniare la propria inossidabile fede politica. In compenso, ha a disposizione quanti memoriali vuole”. Così scrive Roberto Chiarini, storico di vaglia e professore all’Università statale di Milano, in apertura del suo “L’ultimo fascismo”, appena pubblicato da Marsilio.
Poca sobrietà, dunque, sulla Rsi. O storiografia ideologizzata o memorialistica autoassolutoria?
E’ grande il lavoro fatto dagli storici sul fascismo. De Felice ha offerto il contributo di studi più cospicuo e più innovativo. Ma è stata fatta molta strada, anche negli ultimi tempi. E probabilmente la gran parte della storia del fascismo è stata scavata. In tante direzioni.
E la Repubblica sociale italiana?
La Rsi è un po’ il centro nevralgico della sensibilità politica dell’Italia repubblicana. Il ricordo o la demonizzazione sono significativi di una difficoltà, non dico a formare una memoria comune – concetto molto ambiguo questo, perché le memorie comuni sono retoriche – ma a storicizzare questa pagina. Se Pansa ricorda dieci, quindici, ventimila esecuzioni postbelliche di fascisti o presunti tali, che problema c’è? Semmai bisogna dare una lettura di questo processo. Invece, c’è difficoltà pregiudiziale ad affrontare il tema. E un sospetto: “Mica sarai un apologeta…?”. Ma perché?
E’ quasi un tabù.
Tutte le volte che si affronta questo problema suona l’allarme: “Si vogliono parificare le ragioni degli uni e le ragioni degli altri!”. Ma cercare di conoscere senza fare sconti a nessuno, tentando di capire motivazioni e comportamenti degli attori non dovrebbe essere un pericolo per la democrazia. Quando mai un democratico parifica le ragioni di chi lotta contro la democrazia e di chi lotta per la democrazia?
Lei usa l’espressione “ragazzi di Salò”, ma mettendola sempre tra virgolette.
I “ragazzi di Salò” nel ’43 erano davvero ragazzi. Ma le parole non sono mai neutre. Esprimono sempre un giudizio di valore. Si dice “ragazzi di Salò” ed è vero che erano ragazzi. Ma sono stati protagonisti e artefici di una guerra civile, quindi hanno subito violenze ma ne hanno fatte tante e di ogni tipo.
Le virgolette, insomma, sono opportune…
A dire “ragazzi” si attribuisce loro una forma di buonafede, di ingenuità. Molti certo l’avevano, ma così si dà loro quasi una patente di innocenza che, dal punto di vista politico e militare, non hanno avuto.
Lei presiede il “Centro studi e documentazione sul periodo storico della Repubblica sociale italiana”. L’obiettivo è quello di contribuire a scrivere una “storia storicizzata” di quella vicenda?
No. Ognuno può scrivere quel che gli risulta e che crede opportuno. E se ne assume le responsabilità. Ma non c’è “la lettura del Centro studi”. Noi vogliamo dare un contributo nel recuperare e mettere a disposizione degli studiosi materiale che rischia di andare definitivamente perso.
Il Centro studi dunque non scrive una storia, ma ne raccoglie le fonti.
Io su questo sono molto fuori dal coro. Fino a poco tempo fa si è accettato l’assunto che ogni area politica si facesse la sua storia. Si sono create fondazioni d’area, che hanno svolto un ruolo encomiabile. Ma si creano dei santuari dell’identità di quella forza politica e ciò espone a un enorme rischio: che chi gestisce queste istituzioni sia condizionato dalla lettura storica che fa comodo al suo sponsor, una lettura per di più esposta alle variazioni suggerite dalle mutevoli congiunture politiche. Ad esempio, la ventilata fondazione della destra a chi è bene che faccia capo? A Fini o a Storace? Agli ex di An o al nuovo Pdl?
Il rischio è quello di creare una sola storia…
Invece ce ne sono tante di storie. Il problema è che la ricerca revisiona continuamente – “revisiona”, parola maledetta – alla luce della nuova documentazione. Lo studioso non può negare l’evidenza, rifiutare letture diverse solo perché non collimanti con le sue opzioni culturali o politiche. Le leggi razziali ci sono state; se uno è filofascista deve spiegare perché ci sono state, non deve minimizzare dicendo: “Beh, ma ne parlavamo poco”. Ci sono stati dei morti soltanto perché vestivano la camicia nera quando la vestivano tutti? Questo è un interrogativo cui bisogna dare risposta, ma non significa che si debba ribaltare il proprio sistema di valori. Lo storico deve rendere omaggio alla verità e, poi, fornirne una lettura. E deve rispondere alle obiezioni degli altri, non rifiutarle. De Felice diceva che nel 1936-37 gli italiani erano entusiasti del fascismo. Non si può negare che la guerra di Etiopia sia stato il volano per il consenso, ma ci sono voluti vent’anni per accettarlo.
Era troppo “scandaloso”?
La storia non procede dall’oscurità alla luce. Va a zig zag. Io non credo allo slogan secondo cui bisogna conoscere per non ripetere. Io sono convinto che è importante conoscere, ma non mi illudo che questo ci renda immuni da nulla.
Ora lei progetta nuove collane con Mursia.
L’idea è studiare gli anni del Fascismo attraverso il linguaggio fotografico. Sulla Rsi e sulla destra post Rsi. Il Centro che dirigo ha già al proprio attivo 120 interviste videoregistrate di uomini e donne che sono diventati militi volontari della Rsi, peraltro mai pentiti. Servono a capire per quali ragioni e attraverso quali percorsi uno divenne volontario.

domenica 12 aprile 2009

RESURREXIT DOMINUS VERE

Mors et vita duello
conflixere mirando,
dux vite mortuus, regnat vivus.

martedì 7 aprile 2009

Moldova: assalto anticomunista al Parlamento

Caos a Chisinau, capitale della Moldova. Migliaia di manifestanti - 10mila secondo la stampa russa - hanno preso d'assalto la sede del Parlamento per contestare la vittoria dei comunisti alle legislative di domenica. Una ragazza moldava è morta asfissiata dall'ossido di carbonio sprigionato dall'incendio appiccato nell'edificio: la notizia arriva dall'agenzia Interfax, ma non c'è una conferma ufficiale.
Dopo diverse ore le autorità hanno autorizzato un nuovo conteggio dei voti, ma il leader del partito liberal-democratico all'opposizione Vlad Filat ha smentito il raggiungimento di un accordo con il governo sulla cessazione dell'azione di protesta. «Abbiamo presentato le nostre rivendicazioni alle autorità, senza tuttavia ricevere una risposta ufficiale» ha detto Filat all'agenzia Interfax -. L'azione di protesta proseguirà finché non avremo una risposta ufficiale, ma invitiamo i nostri sostenitori a comportarsi in modo civile e a non farsi coinvolgere dalle provocazioni». Il segretario della commissione elettorale centrale Iuri Ciokan ha smentito che sia partito il riconteggio delle schede.
Ci sono stati scontri con la polizia e lanci di pietre, circa 30 persone - sia tra i manifestanti che tra i poliziotti - sono rimaste ferite, alcune ricoverate in ospedale. Gli anti-comunisti hanno letteralmente travolto il cordone degli agenti, che hanno risposto con idranti e gas lacrimogeni. Gli oppositori hanno avuto la meglio e alcuni sono entrati nel Parlamento gridando «abbasso il comunismo!»; hanno lanciato dalle finestre mobili e documenti e appiccato il fuoco in alcune stanze. L'incendio si è esteso ai primi due piani dell'edificio, che ne ha dieci in totale. I mezzi dei vigili del fuoco non riescono ad arrivare sul posto per spegnere le fiamme per il gran numero di persone presenti nelle zone circostanti. I manifestanti hanno completamente circondato gli edifici del parlamento e della presidenza e sono riusciti a issare la bandiera dell'Unione Europea. Lo slogan: «Vogliamo entrare in Europa, vogliamo unirci con la Romania». In Moldova sono stati bloccati i principali siti internet d'informazione e nel centro di Chisinau non funzionano i telefoni cellulari.

Mussolini? Un moderato e marxista erudito

ti

Benito Mussolini? Moderato e marxista. Anzi, moderato perché "marxista erudito". Lo storico tedesco Ernst Nolte è abituato a stupire. E non rinuncia a farlo dopo una vita passata a ribaltare luoghi comuni e facili "etichettatori" di personaggi e movimenti storici. Allievo prediletto del filosofo Martin Heidegger, è sempre stato visto con sospetto e antipatia da chi su quei pregiudizi ha costruito facili carriere politiche o arraffato cattedre universitarie in quota a qualche partito comunista sopravvissuto, almeno fino a qualche lustro fa, alla condanna della storia. E così, quando si è sparsa la notizia che il professore di storia contemporanea della Freie Universitat di Berlino, la Libera università di Berlino era stato invitato a Treviso dall'Istituto Jacques Maritain per tenere una lezione del ciclo "Concetto e realtà di movimenti radicali di resistenza del XX e del XXI secolo", si è scatenata la contestazione dei Comunisti italiani e dei partigiani dell'Anpi. Che, dopo gli attacchi al Giampaolo Pansa, hanno rivolto la loro attenzione anche a un monumento della storiografia contemporanea come Nolte.
"Benito Mussolini fu un marxista erudito che sapeva ciò che la maggioranza dei marxisti non sapeva. Mussolini - ha proseguito Nolte - è stato il più importante marxista convertitosi al nazionalsocialismo. Nei circoli marxisti era più noto di Lenin, era un uomo troppo importante per essere considerato solamente un simbolo". Secondo il docente tedesco, la "moderazione che si vedeva nel fascismo italiano", a differenza del nazismo, era conseguenza del fatto che Adolf Hitler non proveniva invece dal marxismo. Nazismo che, auspica, andrebbe studiato senza la rabbia del dopoguerra. "Le polemiche possono avere un livello alto oppure basso: in Germania è basso, ci sono abituato, ma credo che quelle italiane siano migliori". Non aveva, forse, immaginato di dover ancora una volta fare i conti con i soliti "oscurantisti".
Molti esponenti dell'Anpi, hanno ritienuto diseducativa la scelta di invitare a parlare Nolte. Pronta la replica del professore tedesco con l'affermazione della necessità di occuparsi del nazionalsocialismo "senza la rabbia che era ben comprensibile nel decennio immediatamente dopo la guerra. Non più dopo mezzo secolo. Il nazionalsocialismo - precisa ancora - non fu un fatto buono, ma non può essere fatto svanire". E replicando ai rilievi dei partigiani italiani, Nolte ha detto che "se qualcuno crede che ciò che hanno sostenuto in base alla loro esperienza debba essere vero per sempre, allora si fa un'operazione contraria all'essenza stessa della storiografia. In questo senso - ha concluso - io non accetto tale approccio".

domenica 5 aprile 2009

Fini ha bisogno di uno psichiatra. Ormai è ateo

Ultimamente il Presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini ha esternato in campi che coincidono, fortemente, con la religione cattolica. Al Congresso istitutivo del Pdl nel suo intervento, si è dimostrato perplesso sulla legge in tema di testamento biologico, arrivando a ventilare uno stato etico. Non contento di tanto, ha elogiato la decisione della Consulta in tema di legge 40. Una posizione in netto contrasto con la Chiesa cattolica.
Che cosa sta accadendo al Presidente della Camera?. Lo chiediamo a donna Assunta Almirante. La moglie di Giorgio è ammalata, ha la febbre ed è a letto. Ma non risparmia su Fini qualche battuta al vetriolo.
Donna Assunta, che pensa delle ultime esternazioni di Fini?
“Vaneggia, delira, dice cose che non stanno in cielo e neppure in terra”.
Ma lui si definisce cattolico.
“Ma davvero? Che strano cattolico. Io credo invece che sia ateo, non ci creda più. In questo senso lo trovo in ottima compagnia, ormai i cattolici veri sono pochi, si contano sulle punta delle dita, ne vedo pochissimi coerenti in circolazione. Basti considerare come è stato vilmente aggredito il Papa Benedetto XVI durante il suo viaggio in Africa con il quasi totale silenzio della classe politica italiana”.
Torniamo al suo Fini.
“Ora le chiudo il telefono. Non è mio, sono miei solo i miei figli, mai Fini”.
Però continua a parlare.
“A straparlare. La colpa, me lo permetta, è di voi giornalisti. Se lo prendete sul serio, se gli date tanto spazio è logico che si senta incoraggiato a dire certe cose, una al giorno e finisce con il dire cose inesatte. Storicamente non mi sembra un’ arca di scienza, dovrebbe studiare di più. Nel senso letterale del termine è un colossale ignorante”.
Fini si definisce cattolico, ma poi parla di stato etico e inneggia alla Consulta.
“Guardi, uno che si definisce cattolico, dunque obbediente al Magistero e alla Tradizione della Chiesa e poi afferma certi svarioni non è normale”.
In che senso?
“Fini ha bisogno di uno psichiatra ed anche bravo. Cambia bandiera e idee con preoccupante continuità, segno che non sta bene. Ma, lo ripeto, non è il solo, lo vedo in eccellente compagnia e da questo punto di vista sono addolorata. Io non lo prenderei sul serio, magari vuole fare il capo di un partito politico, forse comunista”.
Il Presidente Cossiga ha detto, parlando di lui, che è pronto ad iscriversi all’associazione partigiani.
“Ha ragione, ha rinnegato il suo passato e la tradizione cattolica. Lo scriva pure, ormai è ateo, non ci crede più. Dunque è bene che la gente lo valuti per quello che è”.
Ma si tratta del Presidente della Camera.
“Quella carica l'ha avuta dal Palazzo, ma in sé non ha mai avuto niente. Viene da popolo come lei e come me. Ormai pochi lo prendono in considerazione”.
Ma Berlusconi non ha contestato le sue valutazioni sullo stato etico.
“Anche lui suona la stessa canzone, è il padrone dell’Italia e An ha venduto i gioielli di famiglia a quattro soldi”.
E la Chiesa?
“La ritengo affidabile e buona. Basta con gli attacchi al Papa e alla Chiesa. Bisogna ricordarsi che se qualche indigente in assenza dello Stato che latita, mangia un pasto caldo, lo si deve alla Caritas o altre istituzioni, altro che Stato etico. Ma Fini non lo sa o lo vuole ignorare. Un consiglio, ignoratelo e non prendetelo sul serio”.

giovedì 2 aprile 2009

STATO ETICO

(Il Presidente della Camera Gianfranco Fini e il Presidente della Corte Costituzionale, Francesco Amirante)

In ricordo di Giovanni Paolo II

Contrordine compagni: il popolo è tornato bue

A leggere il paginone con cui l’altro ieri La Repubblica ha sancito il divorzio fra la Sinistra e il Popolo, mi è venuta in mente una vecchia vignetta di (...) (...) Guareschi. Vi si vedeva un energumeno, un coltellaccio fra le mani, la terza narice fumante, il fazzoletto rosso al collo, che inseguiva fra i tavoli operaie e contadine bene in carne, mentre la banda suonava Bandiera rossa e tutti salutavano con il pugno chiuso. «Contr’ordine compagni - diceva la didascalia che accompagnava il disegno -. La frase pubblicata sull’Unità: “In occasione della Festa delle mondine democratiche del Vercellese, il compagno Paciotti aprirà le panze” è da intendersi “aprirà le danze”»... E dunque, contr’ordine compagni: Avanti popolo è da intendersi Indietro tutta, El pueblo unido jamas sera vencido è solo un jingle pubblicitario, la «canzone popolare», quella di Ivano Fossati che si «andava alzando» sui congressi del Pci ormai Pds-Ds-Ulivo-Pd e più ne hai e più ne metti, sta per «canzone sentimentale» (si sa, i partiti, come i figli, «so’ piezze ’e core»), il «popolo comunista» di berlingueriana memoria era uno scherzo, «l’unità popolare» della sinistra elettorale una boutade, l’articolo 1 della Costituzione un ignobile sopruso. Quanto al Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, una massa di avvinazzati...
Non c’è bisogno di una cattedra in Scienze della Politica per sapere che popolo, populismo, popolare sono concetti ambigui e da prendere con le molle. Solo che dalle parti del Progresso non se n’erano mai accorti, forti com’erano della convinzione che il Popolo fosse il loro, popolari i loro leader e populisti, ovvero la feccia che voleva corrompere quello e questi, tutti gli altri. È stata una lenta deriva che poi si è trasformata in una via di mezzo fra la rotta e l’assedio, man mano che si perdevano voti e ci si accorgeva di essere minoranza, man mano che la mitica «gggente» e la mitica «piazza» delle dirette televisive infuocate e «de sinistra» mostrava la corda e, santo cielo, si scopriva che c’erano altra «gente» e altre piazze, naturalmente mefitiche, che non la pensavano allo stesso modo e, come definirle, populace, plebe minus habens, italioti?
Cominciò tutto sul finire degli anni Settanta, quando il Pci varò il compromesso storico e si illuse di essere arrivato al capolinea del potere. C’erano gli intellettuali, ovvero la classe politica, e c’era il popolo, ovvero la classe operaia, la classe lavoratrice, il grande partito di massa, di lotta e di governo. Ci si chiamava «compagni» e il popolo andava guidato e titillato, era una forza che non sempre praticava il politicamente corretto. Ancora qualche anno dopo, quando ci fu il primo storico incontro fra metalmeccanici e comunità gay a Bologna, un operaio nerboruto esordì così: «Sono d’accordo con il compagno busone che ha parlato prima»... In due vignette (come si vede, partire da Guareschi non è poi male) si riassume il senso di un processo: la prima è quella celebre di Forattini che proprio sulla Repubblica disegna un Berlinguer che in vestaglia, e seduto in poltrona, beve il suo tè mentre i metalmeccanici sfilano sotto le sue finestre. Lì c’è ancora il popolo, e il sarcasmo colpisce chi si è imborghesito e crede di poterne fare a meno. La seconda, dieci anni dopo o giù di lì, è di Staino e appare su Tango, inserto dell’Unità. C’è il nuovo segretario del Pci Natta che balla nudo al suono della musica di Craxi e De Mita. Il popolo è assente e il cazzeggio ha preso il posto dell’analisi politica.
Quello che è venuto dopo, insomma, era già scritto, il mutare dello scenario sociale, economico, politico, e il continuare a far finta che non fosse successo niente, nuovi partiti che sorgevano, vecchie impalcature di governo che crollavano, e la «classe dei colti» che si illudeva di comprendere il proprio tempo. Non ci si accorse, per esempio, che la classe operaia andava tramontando e neppure che il sogno del proletariato era in fondo quello di divenire borghese, come Prezzolini aveva capito già mezzo secolo prima quando, invitato da Gramsci a parlare nelle fabbriche occupate di Torino, aveva accusato gli operai di mancare proprio di orgoglio di classe, la tuta nei giorni di lavoro e l’abito della festa, come borghesucci qualsiasi, alla domenica... Prezzolini, già, ma chi era, cosa voleva, chi lo leggeva? Un oscuro scrittore reazionario e filo-fascista, un anziano teppista delle lettere...
Chiusi nelle loro confortevoli abitazioni, retribuiti con contratti a tempo indeterminato, nelle aziende di Stato, nell’amministrazione pubblica e negli uffici-studi, nelle case editrici e nelle università e, se andava male, nelle scuole ma con annesso distacco sindacale, guardavano quel popolo che si sfaldava e, sbadigliando, lo invitavano a resistere. Certo, gli alloggi popolari erano una vergogna, ma non era forse all’opera una classe di architetti che fra il Corviale di Roma, le Vele di Napoli, lo Zen di Palermo aveva assicurato al popolo una dimensione abitativa rivoluzionaria? Certo, c’erano i campi nomadi, la microcriminalità, lo spaccio di droga, ma il popolo non doveva essere egoista, capire che la devianza è una malattia sociale, drogarsi un disagio esistenziale e poi, l’antica civiltà dei gitani, il fascino dei carrozzoni e degli «zingari felici», soggetti deboli, da difendere, non da offendere, stare con gli umili, insomma, con gli umiliati e offesi.
Lo dicevano dalle loro comodità dei centri storici, buona musica nello stereo, l’ultima guida dello slow food dove si diceva che in fondo «la vita è sugna», nel senso del grasso di maiale... Avevano imparato anche loro a bere del buon vino (più tardi sarebbero approdati ai vigneti, «poche bottiglie, solo per gli amici, una passione, non una speculazione», così come intanto scoprivano la comodità delle scarpe di cuoio fatte a mano), d’inverno la casetta «minimal» in montagna, la barca a veleggiare per il Mediterraneo d’estate, perché «il turismo di massa, che orrore», e insomma, e dunque, che il popolo affollasse i tram, le metropolitane e i treni dei pendolari e non li seccasse più di tanto, perché loro dovevano pensare, dare la linea, esplorare le contraddizioni del capitalismo, in attesa di farle esplodere... Quando la televisione cominciò a riempirsi di spazzatura e il cinema di pierini scoreggioni, restarono entusiasti. Ma sì, che si divertisse anche il popolo, la magia del trash, il cult e lo stracult di Giovannona coscialunga, anche Veltroni era d’accordo.
Sempre di più la sinistra politica e intellettuale è divenuta una riserva indiana, attaccata ai propri privilegi, alla difesa del proprio status quo. Si attestava a Capalbio, si voleva ecologica, ma si scopriva infastidita per la raccolta differenziata, lasciava intere regioni sprofondare nella monnezza, ma si appassionava al buco dell’ozono, spostava sempre il problema «altrove», trovava sempre che c’erano «altre priorità», altri «ma anche» con cui tenere insieme tutto e il suo contrario. Più perdeva consenso e più scuoteva la testa infastidita, questo popolo che non si faceva più guidare e per di più sudava, questo popolo che non si accontentava, non praticava la solidarietà, aveva paura dello straniero, loro che il filippino ce l’avevano in casa, perché la serva era roba da padroni, ma il collaboratore domestico multiuso, come insegna l’illuminato patron del Premio Grinzane, dà un’idea della lungimiranza del progresso.
E poi, alla fine, come si permetteva questo popolo di votare e far vincere qualcun altro? Loro che erano abituati a stare al potere anche quando erano all’opposizione, e a stare all’opposizione anche quando erano al potere, loro che ogni due per tre si dimettevano da qualche cosa, dall’Italia, dalla Sinistra stessa, dalle Istituzioni, mai dalla poltrona... Alla fine si è chiuso il cerchio. Il Popolo è tornato bue. Ma alla sinistra politica e intellettuale ormai restano soltanto le corna.
di Stenio Solinas