"Siam pro-o-nti alla morte l’Italia chiamò”. “Sì!”. E’ proprio dopo l’ultima nota dell’Inno italiano, quando l’enfasi tocca il punto di vetta, che ogni camerata aggiunge l’avverbio affermativo: “Sì!” (i germanizzanti spesso si concedono al suo posto un “Sieg Heil!” mal tollerato dai puristi) e a quel punto scatta invariabilmente il saluto fascista. Raramente, negli anni dell’onorata militanza dentro le catacombe nere, è capitato di vederne uno così plastico e svettante come quello di Michela Vittoria Brambilla, colta assieme al padre nella posa mussoliniana durante una festa dell’Arma a Lecco. Il suo braccio destro abbandona il cuore al momento giusto e si slancia verso l’alto con uno scatto altero e gioioso.
Avercene avute di militanti capaci di tenere così ordinate le falangi della mano destra e teso, ma non rigido, l’epicondilo. Quanta invidiabile spontaneità. Quasi meglio di Gianfranco Fini nelle foto di repertorio. Invidiabile poiché anche ai neofascisti è toccata l’usura del tempo e con questa la mancata educazione alla postura che era stata parte irrinunciabile nella grammatica del Ventennio. Oggi, come in anni recenti, non è difficile immortalare file catacombali riunite in circostanze solenni – cortei, rassegne, omaggi ai camerati caduti – e cristallizzate in saluti sgangherati. Per esempio c’è quello col braccio quasi a novanta gradi rispetto alla spalla e il palmo aperto a salutare l’asfalto. Un po’ come i barbari nazionalsocialisti mirabilmente irrisi da Adriano Celentano, in un filmetto dal titolo “Zio Adolfo in arte Führer”, quando nei panni di Hitler sporge l’arto in avanti per sincerarsi se abbia cominciato a piovigginare e subito i tetragoni in camicia bruna imitano il gesto scambiandolo per l’invenzione di un saluto virilissimo.
Avercene avute di militanti capaci di tenere così ordinate le falangi della mano destra e teso, ma non rigido, l’epicondilo. Quanta invidiabile spontaneità. Quasi meglio di Gianfranco Fini nelle foto di repertorio. Invidiabile poiché anche ai neofascisti è toccata l’usura del tempo e con questa la mancata educazione alla postura che era stata parte irrinunciabile nella grammatica del Ventennio. Oggi, come in anni recenti, non è difficile immortalare file catacombali riunite in circostanze solenni – cortei, rassegne, omaggi ai camerati caduti – e cristallizzate in saluti sgangherati. Per esempio c’è quello col braccio quasi a novanta gradi rispetto alla spalla e il palmo aperto a salutare l’asfalto. Un po’ come i barbari nazionalsocialisti mirabilmente irrisi da Adriano Celentano, in un filmetto dal titolo “Zio Adolfo in arte Führer”, quando nei panni di Hitler sporge l’arto in avanti per sincerarsi se abbia cominciato a piovigginare e subito i tetragoni in camicia bruna imitano il gesto scambiandolo per l’invenzione di un saluto virilissimo.
C’è poi quello con la mano divaricata come un polipo in azione. Altri ancora, sempre tendenza hitleriana, salutano col braccio rattrappito sopra il fianco e la destra all’altezza dell’orecchio, in una posa che vorrebbe essere impettita ed è soltanto mollemente sifilitica. Dopotutto non c’è da rammaricarsi che siffatti saluti vengano vietati dalla legge. Anche perché non sono saluti romani, come vorrebbero alcuni salutanti e come denunciano numerosi i sinceri democratici antifascisti. Il saluto romano è un altro mondo, è un saluto mai contratto o ingessato, con la mano lievemente aperta in un gesto effusivo di rassicurazione che emana calma potenza, marzialità tranquilla, pacifica sacralità. Se Brambilla e gli altri vogliono farsene un’idea esemplare, vadano sulla piazza del Campidoglio e osservino la statua equestre di Marco Aurelio (una copia, l’originale è dentro il museo attiguo): quello dell’imperatore è un vero saluto romano e non c’è alcuna Costituzione a vietarlo.
(di Alessandro Giuli)
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