Poche epoche della storia impressero il loro sigillo sul passato e sul futuro, mentre in fieri si abbattevano sul presente, quale quella che Marc Fumaroli evoca nel suo Chateaubriand. Poesia e terrore (Adelphi, 806 pagine, 55 euro). Avendo l’autore delle Memorie d’oltretomba per testimone, attore e interprete, lo studioso francese se ne serve per dipingere lo strepitoso affresco di quello che è stato il passaggio fra l’Ancien Régime e il Mondo nuovo. Ciò che ne emerge non riguarda tanto o solo un cambiamento di regime - una rivoluzione, una guerra civile - ma la fine di una Francia tradizionale e plurisecolare, con tutto ciò che essa significava in termini di arte, di cultura, di religione, di modo di vivere, insomma, e la modernità che ne prende il posto con al completo il suo corteo di novità: nuovi rapporti umani, nuovi rapporti sociali, nuove aspettative, una nuova cultura. Una fine e un inizio bagnati nel sangue e in qualche modo dal sangue eternamente segnati: l’Otto e il Novecento si portano dietro l’eredità degli Stati nazionali e della leva di massa, delle guerre patriottiche e della propaganda di parte, della tirannia della maggioranza e delle avanguardie intellettuali, dei totalitarismi ideologici e di quelli politici...
Conservatore, ma non reazionario, Chateaubriand vede là dove il democratico illiberale Robespierre e l’aristocratico illiberale Talleyrand non riescono ad andare. Non si tratta della «virtù in un solo Paese» teorizzata dal primo, o della «restaurazione in tutto il continente» perseguita dal secondo: «Io non credo nella società europea. Fra cinquant’anni non ci sarà più un solo sovrano legittimo, dalla Russia alla Sicilia... Non prevedo che dispotismi militari. E tra cent’anni... può darsi che noi stiamo vivendo non solo nella decrepitezza dell’Europa, ma in quella del mondo».
Solo chi ha virtù profetiche è in grado di analizzare cosa quel cambiamento, un vero e proprio olocausto etnico-culturale abbia provocato e ancora provocherà. I suoi artefici non se ne rendono conto e anche per questo Robespierre in fondo resta un mistero, perché nel suo inseguire una Francia virtuosa, austera e democratica, il suo modello non è in un futuro da costruire, ma in una Sparta da riportare in vita. È l’eterogenesi dei fini che si impone: la modernità che si spalanca mentre si cercava un’altra tradizione. Chateaubriand, che della Rivoluzione è vittima e testimone passivo, capisce invece che cosa da essa scaturirà: ne comprende anche l’ineluttabilità e l’impossibilità di tornare al mondo precedente come se nulla fosse. È anche per questo che, letti oggi, i volumi in cui Robespierre descrive la sua Repubblica ideale appaiono senza vita, laddove gli interrogativi sul destino e sul futuro della politica di Chateaubriand restano nostri contemporanei: «La democrazia non solo fa dimenticare a ogni uomo i suoi avi, ma gli nasconde i suoi discendenti e lo separa dai suoi contemporanei; essa lo riporta continuamente solo a se stesso e minaccia di rinchiuderlo per intero nella solitudine del proprio io».
Ogniqualvolta si ritorna a Chateaubriand, l’antica ammirazione e irritazione si ripresenta immutata. Fu il grande scrittore del proprio tempo, quello che la generazione successiva dei Flaubert e dei Baudelaire continuerà a celebrare, e sul quale però la maledizione di Stendhal, «a partire dal 1913 non lo leggerà più nessuno», opererà come una verità. Nel giro di secolo fra Otto e Novecento, la modernità letteraria si illude di poter fare a meno della storia e della politica. C’è l’arte per l’arte, c’è la sperimentazione, ci sono il poeta e il romanziere fini a loro stessi, torre d’avorio della propria unicità, del disinteresse nei confronti di ciò che c’è intorno: tradizioni e costumi, lingua e memoria. A Parigi il nume tutelare del primo dopoguerra è lo stendhaliano André Gide che dal suo orizzonte culturale scarta la storia perché le è contrario, la giudica fuorviante e noiosa. Il protagonismo di Chateaubriand, il suo gusto per la gloria e per le imprese, il suo mischiarsi con i fatti sono per lo scettico e disincantato Gide e per la cerchia intellettuale che gli fa corona, qualcosa di vecchio, di superato.
Conservatore, ma non reazionario, Chateaubriand vede là dove il democratico illiberale Robespierre e l’aristocratico illiberale Talleyrand non riescono ad andare. Non si tratta della «virtù in un solo Paese» teorizzata dal primo, o della «restaurazione in tutto il continente» perseguita dal secondo: «Io non credo nella società europea. Fra cinquant’anni non ci sarà più un solo sovrano legittimo, dalla Russia alla Sicilia... Non prevedo che dispotismi militari. E tra cent’anni... può darsi che noi stiamo vivendo non solo nella decrepitezza dell’Europa, ma in quella del mondo».
Solo chi ha virtù profetiche è in grado di analizzare cosa quel cambiamento, un vero e proprio olocausto etnico-culturale abbia provocato e ancora provocherà. I suoi artefici non se ne rendono conto e anche per questo Robespierre in fondo resta un mistero, perché nel suo inseguire una Francia virtuosa, austera e democratica, il suo modello non è in un futuro da costruire, ma in una Sparta da riportare in vita. È l’eterogenesi dei fini che si impone: la modernità che si spalanca mentre si cercava un’altra tradizione. Chateaubriand, che della Rivoluzione è vittima e testimone passivo, capisce invece che cosa da essa scaturirà: ne comprende anche l’ineluttabilità e l’impossibilità di tornare al mondo precedente come se nulla fosse. È anche per questo che, letti oggi, i volumi in cui Robespierre descrive la sua Repubblica ideale appaiono senza vita, laddove gli interrogativi sul destino e sul futuro della politica di Chateaubriand restano nostri contemporanei: «La democrazia non solo fa dimenticare a ogni uomo i suoi avi, ma gli nasconde i suoi discendenti e lo separa dai suoi contemporanei; essa lo riporta continuamente solo a se stesso e minaccia di rinchiuderlo per intero nella solitudine del proprio io».
Ogniqualvolta si ritorna a Chateaubriand, l’antica ammirazione e irritazione si ripresenta immutata. Fu il grande scrittore del proprio tempo, quello che la generazione successiva dei Flaubert e dei Baudelaire continuerà a celebrare, e sul quale però la maledizione di Stendhal, «a partire dal 1913 non lo leggerà più nessuno», opererà come una verità. Nel giro di secolo fra Otto e Novecento, la modernità letteraria si illude di poter fare a meno della storia e della politica. C’è l’arte per l’arte, c’è la sperimentazione, ci sono il poeta e il romanziere fini a loro stessi, torre d’avorio della propria unicità, del disinteresse nei confronti di ciò che c’è intorno: tradizioni e costumi, lingua e memoria. A Parigi il nume tutelare del primo dopoguerra è lo stendhaliano André Gide che dal suo orizzonte culturale scarta la storia perché le è contrario, la giudica fuorviante e noiosa. Il protagonismo di Chateaubriand, il suo gusto per la gloria e per le imprese, il suo mischiarsi con i fatti sono per lo scettico e disincantato Gide e per la cerchia intellettuale che gli fa corona, qualcosa di vecchio, di superato.
E però, mai come allora la storia aveva intanto ripreso a soffiare, distruggendo imperi, liberando nazioni, provocando catastrofi. La Grande guerra non è che l’aperitivo di ciò che s’abbatterà sull’Europa. In polemica con Gide, è Malraux a rendersene conto: «A vent’anni, ciò che ci distingueva dai nostri maestri era la presenza della storia. Per loro non era successo nulla. Noi, noi nascevamo nel cuore della storia, che ha attraversato il nostro campo come un carro armato». Chateaubriand, insomma, era tornato di moda e Malraux, senza renderlo noto, si industrierà a imitarlo.Il fatto è che l’autore delle Memorie d’oltretomba è troppo ingombrante per una società che della specializzazione ormai ha fatto un dogma e che guarda con diffidenza a ogni afflato di grandezza. Scrittore e agitatore, artista ossessionato dalla politica, romanziere in grado d’essere ministro e uomo di potere, intellettuale pronto a riscrivere il proprio tempo, cioè a falsificarlo, giramondo e vagabondo, a suo agio nei salotti come nei grandi spazi, giornalista d’effetto e saggista di pregio... Intelligentemente Fumaroli non sceglie la strada della biografia, ma scrive un libro che è «un invito a una traversata nella grande temperie poetica delle Memorie e del campo magnetico entro il quale si è formata», ovvero «la prima mappa dei conflitti fra modernità e anti-modernità, incunabolo del mondo che si lacera e scompare oggi un po’ dovunque sotto i nostri piedi».
È proprio il suo essere uomo di confine, «navigatore tra due rive», che fa di Chateaubriand un unico. È il primo dei romantici, ma anche l’ultimo dei classici, il che dà un tono di novità al suo stile, ma non lo invecchia nel nuovo allorché questi diviene un genere: l’antico gli ha dato i mezzi per crearsi uno stile che è senza tempo. Per nascita, educazione, gusti, appartiene al mondo antico che è andato in pezzi, ma la sua fedeltà al passato non gli impedisce di capire che è divenuto marcio, da supremazia meritata si è fatto prima privilegio ingiusto, poi sterile vanità: «Perché mi è toccato vivere in un’epoca in cui ero tanto fuori posto? Perché sono stato realista contro il mio istinto in un tempo in cui una miserabile genia di cortigiani non poteva né udire la mia voce né comprendermi? Perché sono stato gettato in quella torma di mediocrità che mi prendevano per un insensato, quando parlavo di coraggio; per un rivoluzionario, quando parlavo di libertà?».
Della definizione delle Memorie come «un Louvre della letteratura», Fumaroli accetta l’immagine, bella, ma non la sostanza, perché c’è nel suo autore l’arte «di far vedere in una sola ripresa, senza cuciture e interruzioni, un insieme e i suoi particolari, un’unità nella sua molteplicità, come un totum simul che lo sguardo e la mente hanno il potere di contemplare e di meditare». Ma un proprio Louvre della letteratura lo fa in fondo Fumaroli stesso: ogni capitolo di Poesia e Terrore è un quadro a sé, che si tratti del profilo di un grande autore classico, Milton, Rousseau, Tocqueville, di un personaggio storico, Talleyrand, di un autore misconosciuto, de Fontanes, Ballanche...Il saggio è anche un rosario di perle sgranate da Chateaubriand nel corso di una vita lunga e piena. «L’orgoglio è la virtù della sventura». «La morte è bella, è la nostra amica: ma non la riconosciamo perché si presenta mascherata e la sua maschera ci spaventa». «I dolori sono come la patria, ognuno ha il suo». «Un uomo vi protegge per ciò che vale lui, una donna per ciò che valete voi: ecco perché di queste due dominazioni l’una è così odiosa, l’altra così dolce». «Sventurato me che non so invecchiare e invecchio sempre». «Non ero bravo né come tiranno né come schiavo, e tale sono rimasto. C’è in me l’impossibilità di ubbidire».
È proprio il suo essere uomo di confine, «navigatore tra due rive», che fa di Chateaubriand un unico. È il primo dei romantici, ma anche l’ultimo dei classici, il che dà un tono di novità al suo stile, ma non lo invecchia nel nuovo allorché questi diviene un genere: l’antico gli ha dato i mezzi per crearsi uno stile che è senza tempo. Per nascita, educazione, gusti, appartiene al mondo antico che è andato in pezzi, ma la sua fedeltà al passato non gli impedisce di capire che è divenuto marcio, da supremazia meritata si è fatto prima privilegio ingiusto, poi sterile vanità: «Perché mi è toccato vivere in un’epoca in cui ero tanto fuori posto? Perché sono stato realista contro il mio istinto in un tempo in cui una miserabile genia di cortigiani non poteva né udire la mia voce né comprendermi? Perché sono stato gettato in quella torma di mediocrità che mi prendevano per un insensato, quando parlavo di coraggio; per un rivoluzionario, quando parlavo di libertà?».
Della definizione delle Memorie come «un Louvre della letteratura», Fumaroli accetta l’immagine, bella, ma non la sostanza, perché c’è nel suo autore l’arte «di far vedere in una sola ripresa, senza cuciture e interruzioni, un insieme e i suoi particolari, un’unità nella sua molteplicità, come un totum simul che lo sguardo e la mente hanno il potere di contemplare e di meditare». Ma un proprio Louvre della letteratura lo fa in fondo Fumaroli stesso: ogni capitolo di Poesia e Terrore è un quadro a sé, che si tratti del profilo di un grande autore classico, Milton, Rousseau, Tocqueville, di un personaggio storico, Talleyrand, di un autore misconosciuto, de Fontanes, Ballanche...Il saggio è anche un rosario di perle sgranate da Chateaubriand nel corso di una vita lunga e piena. «L’orgoglio è la virtù della sventura». «La morte è bella, è la nostra amica: ma non la riconosciamo perché si presenta mascherata e la sua maschera ci spaventa». «I dolori sono come la patria, ognuno ha il suo». «Un uomo vi protegge per ciò che vale lui, una donna per ciò che valete voi: ecco perché di queste due dominazioni l’una è così odiosa, l’altra così dolce». «Sventurato me che non so invecchiare e invecchio sempre». «Non ero bravo né come tiranno né come schiavo, e tale sono rimasto. C’è in me l’impossibilità di ubbidire».
(di Stenio Solinas)
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