C’è il giornale della destra che oramai piace più alla sinistra che alla destra. La sinistra lo apprezza perché è più a sinistra della sinistra. La destra lo teme perché porta nella destra uno spirito di sinistra. Insomma, c’è il Secolo d’Italia. Un tempo organo del Msi, poi di An, ora del «Popolo della Libertà » ma tendenza Fini, dalle sue pagine ogni giorno è una controffensiva libertaria per la destra conservatrice, una ventata laica nella destra «teocon», un messaggio eretico nell’ortodossia berlusconiana. Ora dicono che amano sì Sarkozy, ma iscrivendolo d’ufficio alla gauche. E nello stesso numero stilano un ritratto commosso di Alex Langer, il verde eterodosso che si è tolto la vita dopo una militanza sofferta, fuori dagli schemi, estranea alla dicotomia classica tra destra e sinistra, ma comunque pur sempre di sinistra. E chissà che il Secolo non riesca addirittura a rubacchiare qualche copia ai giornali che della sinistra ufficiale sono i portabandiera.
Un tempo erano i «ragazzi di via Milano» immortalati da una oramai celebre foto che li ritrae in piedi e accucciati nelle maglie della loro squadra, e descritti da Mauro Mazza (uno degli ex ragazzi) in un libro che riprende quella formula ricavata dalla leggenda adolescenzial- romantica della Via Pal. C’erano Fini e Gasparri, Storace e Alemanno. Lavoravano al Secolo di Via Milano a Roma, nei tempi in cui lo scontro fisico era all’ordine del giorno, le prime pagine del giornale erano riempite dalle foto dei comizi oceanici di Almirante, la destra era dentro un recinto infetto, messo ai margini dell’arco costituzionale. Oggi, la diaspora. Ma oggi, con la direzione di Flavia Perina (insieme, tra gli altri, a Luciano Lanna, Filippo Rossi, Annalisa Terranova) il Secolo d’Italia è una spina nel fianco del centrodestra. Qualche mese fa, in piena battaglia sulla legge contro l’immigrazione clandestina, titolò con clamore: «No all’apartheid». Si moltiplicano gli articoli contro le ronde. Quelli molto critici con l’impostazione prevalente nel centrodestra sul caso di Eluana Englaro. Quelli contro l’occidentalismo anti-islamista di Oriana Fallaci. Quelli vergati in difesa dell’avversario Veltroni quando la stampa di destra lo trattò da «extracomunitario » solo perché l’allora segretario del Pd stava piantando un ombrellone sulla spiaggia di Sabaudia, non nel parco di Villa Certosa.
Negli ultimi tempi, all’apice delle polemiche sulle veline e sulle feste del premier, sulle colonne del Secolo è stata una sequenza di contrappunti, di punture polemiche, di contrasti con il modello antropologico e culturale che nel velinismo si esprime e si rappresenta. Fino ad arrivare a una polemica feroce con Vittorio Feltri e con Libero. Fino a rivalutare, contro il modello del leader anziano che si trastulla con donne giovani e vistose, il contromodello del «vecchio pensionato» cantato da Francesco Guccini (un altro simbolo preso in prestito dalla sinistra). Polemiche, peraltro, condotte in sintonia con le posizioni del webmagazine «Farefuturo » (da cui partirono le prime bordate contro le ventilate candidature delle veline nelle liste elettorali per le europee). Ambedue più vicine a Fini che agli ex colonnelli di An. Tutt’e due che martellano sul tema del dialogo culturale con la sinistra, sulla critica alla destra machista d'un tempo.
Ma se poi qualcuno volesse leggere sul giornale della destra qualcosa propriamente di destra? Se, dopo aver appreso come e perché la destra debba essere libertaria, multiculturalista, laica, anticlericale, progressista, dialogante, moderata, si giungesse a scoprire che questa destra ideale, utopica, onirica, futuribile ha sempre meno in comune con la destra reale, mediamente rappresentata dai partiti e dai leader (eccetto Fini, naturalmente) che attualmente e presumibilmente per molto tempo ne hanno in mano le redini politiche e culturali? Come la Voce di Montanelli, che piaceva alla sinistra (senza comprare il giornale) ma sancì un drammatico divorzio dalla massa dei lettori infatuati dal montanellismo. E non è un cattivo augurio, ma il percorso accidentato di vuole stare in minoranza. Ogni giorno, come il 'Secolo' dell'Italia berlusconiana.
Un tempo erano i «ragazzi di via Milano» immortalati da una oramai celebre foto che li ritrae in piedi e accucciati nelle maglie della loro squadra, e descritti da Mauro Mazza (uno degli ex ragazzi) in un libro che riprende quella formula ricavata dalla leggenda adolescenzial- romantica della Via Pal. C’erano Fini e Gasparri, Storace e Alemanno. Lavoravano al Secolo di Via Milano a Roma, nei tempi in cui lo scontro fisico era all’ordine del giorno, le prime pagine del giornale erano riempite dalle foto dei comizi oceanici di Almirante, la destra era dentro un recinto infetto, messo ai margini dell’arco costituzionale. Oggi, la diaspora. Ma oggi, con la direzione di Flavia Perina (insieme, tra gli altri, a Luciano Lanna, Filippo Rossi, Annalisa Terranova) il Secolo d’Italia è una spina nel fianco del centrodestra. Qualche mese fa, in piena battaglia sulla legge contro l’immigrazione clandestina, titolò con clamore: «No all’apartheid». Si moltiplicano gli articoli contro le ronde. Quelli molto critici con l’impostazione prevalente nel centrodestra sul caso di Eluana Englaro. Quelli contro l’occidentalismo anti-islamista di Oriana Fallaci. Quelli vergati in difesa dell’avversario Veltroni quando la stampa di destra lo trattò da «extracomunitario » solo perché l’allora segretario del Pd stava piantando un ombrellone sulla spiaggia di Sabaudia, non nel parco di Villa Certosa.
Negli ultimi tempi, all’apice delle polemiche sulle veline e sulle feste del premier, sulle colonne del Secolo è stata una sequenza di contrappunti, di punture polemiche, di contrasti con il modello antropologico e culturale che nel velinismo si esprime e si rappresenta. Fino ad arrivare a una polemica feroce con Vittorio Feltri e con Libero. Fino a rivalutare, contro il modello del leader anziano che si trastulla con donne giovani e vistose, il contromodello del «vecchio pensionato» cantato da Francesco Guccini (un altro simbolo preso in prestito dalla sinistra). Polemiche, peraltro, condotte in sintonia con le posizioni del webmagazine «Farefuturo » (da cui partirono le prime bordate contro le ventilate candidature delle veline nelle liste elettorali per le europee). Ambedue più vicine a Fini che agli ex colonnelli di An. Tutt’e due che martellano sul tema del dialogo culturale con la sinistra, sulla critica alla destra machista d'un tempo.
Ma se poi qualcuno volesse leggere sul giornale della destra qualcosa propriamente di destra? Se, dopo aver appreso come e perché la destra debba essere libertaria, multiculturalista, laica, anticlericale, progressista, dialogante, moderata, si giungesse a scoprire che questa destra ideale, utopica, onirica, futuribile ha sempre meno in comune con la destra reale, mediamente rappresentata dai partiti e dai leader (eccetto Fini, naturalmente) che attualmente e presumibilmente per molto tempo ne hanno in mano le redini politiche e culturali? Come la Voce di Montanelli, che piaceva alla sinistra (senza comprare il giornale) ma sancì un drammatico divorzio dalla massa dei lettori infatuati dal montanellismo. E non è un cattivo augurio, ma il percorso accidentato di vuole stare in minoranza. Ogni giorno, come il 'Secolo' dell'Italia berlusconiana.
(di Pierluigi Battista)
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