Le interessanti considerazioni di Marcello Veneziani sul conservatorismo, ricche di suggestioni, meritano qualche approfondimento in un Paese, come l’Italia, dove la “sfortuna” di questa teoria è nota. Quasi una “maledizione”, infatti, si è abbattuta su di essa, impedendo la costruzione di un partito autenticamente conservatore come nelle grandi democrazie occidentali.
Forse perché si è sempre, sbagliando, associato il conservatorismo a modelli culturali reazionari o sterilmente tradizionalisti. Invece esso, prima che una dottrina politica, è un sentimento spirituale e una vocazione culturale. La consapevolezza di vivere per lasciarsi qualche cosa dietro, formare un’eredità riconoscendo, al tempo stesso, di essere eredi, è un modo di guardare alla vita in una forma che la trascende e contemporaneamente la rinnova.
«Chi non pensa che lo scopo dell’esistenza si realizzi nel breve istante, nel momento, nel tempo dell’esistenza stessa è un conservatore», scriveva Arthur Moeller van den Bruck. Da questo punto di vista, egli possiede il senso della storia a differenza del progressista che lo nega e del reazionario che neppure si pone il problema di salvaguardare ciò che merita di essere salvaguardato, ma si limita a reagire, con un moto contrario, a eventi che tendono a modificare l’ordine costituito quale esso sia.
Se il progressista disconosce continuità alla storia perché convinto che soltanto da un certo momento in poi è sorto ciò che merita di essere preservato e considera tutto ciò che c’è stato in precedenza come avvolto nelle tenebre, il conservatore sa distinguere ciò che è caduco da ciò che bisogna conservare in quanto valore; riconosce, insomma, ciò che permane e che è destinato a durare, combinandolo con l’innovazione senza tradire i principi ispiratori delle società organizzate.
In questo senso, un conservatorismo che potremmo definire “creativo”, che non si appaga della contemplazione del passato, ma sa far vivere ciò che merita nella modernità, si distingue dal tradizionalismo inerte in quanto in esso domina la componente dinamica a differenza del secondo caratterizzato da un atteggiamento puramente di rifiuto che lo condanna all’impotenza.
Ciò non vuol dire che la difesa della Tradizione non sia uno degli elementi qualificanti il conservatorismo, tuttavia non lo esaurisce. Coerente con il ripudio della staticità, il conservatorismo assume le fattezze politiche - come accade negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in parte anche in Francia - a cui si è naturalmente portati a ricondurlo anche perché, come ha scritto Karl Mannheim, esso implica «un’omogeneità inerente più generalmente alla visione del mondo e ai sentimenti, che può spingersi fino alla costituzione di una determinata forma di pensiero». Da qui l’irriducibilità del conservatorismo al tradizionalismo e la differenza tra l’agire dell’uno rispetto all’altro. Il conservatorismo, sempre secondo Mannheim, «esprime una continuità storicamente e sociologicamente afferrabile, che è sorta in una determinata situazione storica e sociologica e si sviluppa in diretta connessione con la storia vivente».
Basterebbero questi riferimenti per fugare l’immagine “passatista” del conservatore e della sua conseguente improponibilità nel lessico e nella prassi politica del nostro Paese. Com’è facile intendere, in Italia il conservatorismo non ha avuto fortuna poiché è mancata un’adeguata riflessione su questa formula. Tanto la scienza politica quanto la pubblicistica non l’hanno degnata della considerazione che meritava, non foss’altro per aver avuto padri nobili e indimenticabili come Edmund Burke, François-René de Chateaubriand e, più vicini al nostro tempo, Leo Strauss, Eric Voegelin, Russell Kirk; senza dimenticare gli italiani Giuseppe Rensi e soprattutto Giuseppe Prezzolini, il quale ammoniva che il «vero conservatore si guarderà bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, perché intende “continuare mantenendo” e non tornare indietro e rifare esperienze fallite, sa che a problemi nuovi occorrono risposte nuove, ispirate a principi permanenti, si sente rinnovatore delle leggi eterne dimenticate stupidamente, nascoste ipocritamente, trascurate impotentemente, violate quotidianamente».
È immaginabile una “rivoluzione conservatrice” in Italia? Se le forze politiche e culturali che si oppongono alle devastazioni della decadenza e del nichilismo prendono contentezza che è necessario agire sul piano delle idee per trasformare il Paese, al di là dell’ordinaria amministrazione, qualche speranza è possibile nutrirla. Se, al contrario, si abbandonano nel deserto del politicismo sperando che le piante del rinnovamento spuntino senza coltivarle, è fatale che la prospettiva conservatrice resterà sullo sfondo del palcoscenico della cultura a rappresentare impotentemente uno stato d’animo, un sentimento, nella migliore delle ipotesi una visione del mondo, per quanto nobile, comunque impraticabile.
Nonostante tutto, continuiamo a credere che l’etica pubblica, la sovranità dei popoli, la salvaguardia delle identità culturali non siano anticaglie delle quali poter fare a meno: poco male se appartengono all’universo conservatore verso il quale i “fabbricanti di opinioni” possono opporsi con la fragilità delle loro ideologie destinate a sbriciolarsi davanti alla forza di idee vitali e perenni. Perciò un movimento che voglia assumere come suo modello il paradigma conservatore in qualche modo ipoteca il proprio futuro spazzando via le piccole ambizioni peraltro storicamente superate. All’insegna, ci auguriamo, di quel che diceva Paul Claudel: «Prima che si modifichi il mondo, sarebbe forse più importante non distruggerlo». Un conservatorismo creativo, ma anche “ecologico”, insomma.
Forse perché si è sempre, sbagliando, associato il conservatorismo a modelli culturali reazionari o sterilmente tradizionalisti. Invece esso, prima che una dottrina politica, è un sentimento spirituale e una vocazione culturale. La consapevolezza di vivere per lasciarsi qualche cosa dietro, formare un’eredità riconoscendo, al tempo stesso, di essere eredi, è un modo di guardare alla vita in una forma che la trascende e contemporaneamente la rinnova.
«Chi non pensa che lo scopo dell’esistenza si realizzi nel breve istante, nel momento, nel tempo dell’esistenza stessa è un conservatore», scriveva Arthur Moeller van den Bruck. Da questo punto di vista, egli possiede il senso della storia a differenza del progressista che lo nega e del reazionario che neppure si pone il problema di salvaguardare ciò che merita di essere salvaguardato, ma si limita a reagire, con un moto contrario, a eventi che tendono a modificare l’ordine costituito quale esso sia.
Se il progressista disconosce continuità alla storia perché convinto che soltanto da un certo momento in poi è sorto ciò che merita di essere preservato e considera tutto ciò che c’è stato in precedenza come avvolto nelle tenebre, il conservatore sa distinguere ciò che è caduco da ciò che bisogna conservare in quanto valore; riconosce, insomma, ciò che permane e che è destinato a durare, combinandolo con l’innovazione senza tradire i principi ispiratori delle società organizzate.
In questo senso, un conservatorismo che potremmo definire “creativo”, che non si appaga della contemplazione del passato, ma sa far vivere ciò che merita nella modernità, si distingue dal tradizionalismo inerte in quanto in esso domina la componente dinamica a differenza del secondo caratterizzato da un atteggiamento puramente di rifiuto che lo condanna all’impotenza.
Ciò non vuol dire che la difesa della Tradizione non sia uno degli elementi qualificanti il conservatorismo, tuttavia non lo esaurisce. Coerente con il ripudio della staticità, il conservatorismo assume le fattezze politiche - come accade negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in parte anche in Francia - a cui si è naturalmente portati a ricondurlo anche perché, come ha scritto Karl Mannheim, esso implica «un’omogeneità inerente più generalmente alla visione del mondo e ai sentimenti, che può spingersi fino alla costituzione di una determinata forma di pensiero». Da qui l’irriducibilità del conservatorismo al tradizionalismo e la differenza tra l’agire dell’uno rispetto all’altro. Il conservatorismo, sempre secondo Mannheim, «esprime una continuità storicamente e sociologicamente afferrabile, che è sorta in una determinata situazione storica e sociologica e si sviluppa in diretta connessione con la storia vivente».
Basterebbero questi riferimenti per fugare l’immagine “passatista” del conservatore e della sua conseguente improponibilità nel lessico e nella prassi politica del nostro Paese. Com’è facile intendere, in Italia il conservatorismo non ha avuto fortuna poiché è mancata un’adeguata riflessione su questa formula. Tanto la scienza politica quanto la pubblicistica non l’hanno degnata della considerazione che meritava, non foss’altro per aver avuto padri nobili e indimenticabili come Edmund Burke, François-René de Chateaubriand e, più vicini al nostro tempo, Leo Strauss, Eric Voegelin, Russell Kirk; senza dimenticare gli italiani Giuseppe Rensi e soprattutto Giuseppe Prezzolini, il quale ammoniva che il «vero conservatore si guarderà bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, perché intende “continuare mantenendo” e non tornare indietro e rifare esperienze fallite, sa che a problemi nuovi occorrono risposte nuove, ispirate a principi permanenti, si sente rinnovatore delle leggi eterne dimenticate stupidamente, nascoste ipocritamente, trascurate impotentemente, violate quotidianamente».
È immaginabile una “rivoluzione conservatrice” in Italia? Se le forze politiche e culturali che si oppongono alle devastazioni della decadenza e del nichilismo prendono contentezza che è necessario agire sul piano delle idee per trasformare il Paese, al di là dell’ordinaria amministrazione, qualche speranza è possibile nutrirla. Se, al contrario, si abbandonano nel deserto del politicismo sperando che le piante del rinnovamento spuntino senza coltivarle, è fatale che la prospettiva conservatrice resterà sullo sfondo del palcoscenico della cultura a rappresentare impotentemente uno stato d’animo, un sentimento, nella migliore delle ipotesi una visione del mondo, per quanto nobile, comunque impraticabile.
Nonostante tutto, continuiamo a credere che l’etica pubblica, la sovranità dei popoli, la salvaguardia delle identità culturali non siano anticaglie delle quali poter fare a meno: poco male se appartengono all’universo conservatore verso il quale i “fabbricanti di opinioni” possono opporsi con la fragilità delle loro ideologie destinate a sbriciolarsi davanti alla forza di idee vitali e perenni. Perciò un movimento che voglia assumere come suo modello il paradigma conservatore in qualche modo ipoteca il proprio futuro spazzando via le piccole ambizioni peraltro storicamente superate. All’insegna, ci auguriamo, di quel che diceva Paul Claudel: «Prima che si modifichi il mondo, sarebbe forse più importante non distruggerlo». Un conservatorismo creativo, ma anche “ecologico”, insomma.
(di Gennaro Malgieri)
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