Ha ragione Piero Ignazi: manca un libro che analizzi a fondo la storia, le idee, le organizzazioni e le tappe istituzionali della destra in Italia dal 1994 a oggi. Manca da più di dieci anni, dai tomi di Marco Tarchi, Dal Msi ad An (Mulino, 1997) e dello stesso Ignazi (Il polo escluso, Mulino 1998), dai contributi di Annalisa Terranova e Marco Di Troia sui movimenti giovanili, Planando sopra boschi di braccia tese e Fronte della gioventù (entrambi Settimo sigillo, 1996 e 2001), o dal volume (La destra allo specchio, Marsilio 2000) di Chiarini e Maraffi. Solo qualche reportage giornalistico come La fiamma e la celtica di Nicola Rao (Sperling&Kupfer 2007), qualche tentativo di teorizzazione o qualche pamphlet a tasso variabile di passione (Fabrizio Tatarella sul movimentismo giovanile, Cristina Di Giorgi sulla musica alternativa), cinismo o pressappochismo, è uscito.Inspiegabilmente, o forse no. È un enigma di tratto provincialistico: strano ma vero, quando quella che per comodità ha da definirsi destra politica, quando il partito smarrito che consuma il suo ruolo di alternativa sistemica dopo lo scoppio di tangentopoli e la riforma elettorale maggioritaria, quando questo partito, il Msi poi An, comincia a vincere, a essere forza di governo, a farsi oltre il perimetro della retorica a filiazione nostalgica, quando la destra vince la sua battaglia per la cittadinanza politica e culturale e ritorna a farsi senso comune, cultura popolare maggioritaria che catalizza identificazione in milioni di italiani postideologici, la destra allora diventa per magia isterica un oggetto meno epico, troppo urbano, meno catalogabile sotto la categoria scomoda e per questo entusiasmante dell’“anomalia”, e dunque quasi noioso, poco interessante.
Strano ma vero, il processo di normalizzazione democratica della destra fa guadagnare in voti e in legittimazione a governare ma spinge intellettuali e politologi a occuparsi di altro o a fabbricare giudizi preconcetti. Non è spiegabile per i cultori della scienza politica e del soft power secondo Joseph Nye (Leadership e potere, Laterza, 2009), declinazione moderna del concetto di egemonia culturale, quando è ancora tutto da spiegare l’impatto consistente della destra anni Novanta sull’immaginario collettivo, ben prima che Giulio Tremonti facesse teorizzazioni alter-global. Non è spiegabile neppure per quella pattuglia denutrita di giornalisti e intellettuali che, ciascuno a modo suo, s’è sempre mosso all’interno della destra intesa questa volta come milieu culturale, sociale e da ultimo politico (magari per distaccarsene da molto tempo, com’è il caso di Tarchi). Molti di essi, infatti, hanno costruito le loro grandi - a volte - o piccole - molto spesso - fortune editoriali proprio sulla volontà di sparare sul vecchio quartier generale, mentre chi prova a costruire ipotesi di nuova cultura politica viene accusato di complicità con una politica dissolutrice dei vecchi slanci ideali.
Anche a sinistra questo accade, ma in forma più complessa, dato il maggior potere di radicamento e interdizione che là detengono i residui dell’industria culturale. A destra, diciamola così, può esser data una lettura di, per lo più, tipo generazionale di questa infelice combinazione di disinteresse e disprezzo per le vicende politiche e culturali che partono dagli anni Novanta della seconda Repubblica. Alcuni esempi possono spiegare questo continuo alternarsi dei due registri della nostalgia e del risentimento. A destra, come a sinistra, nell’eterna riproposizione del mito reducista e dell’«ai tempi nostri», vige ancora il duplice principio della valenza morale del radicalismo politico e della superiorità etica della generazione degli anni Settanta: ciò che è venuto dopo è per forza di cose peggiore, contaminato con il “regime” che si voleva distruggere, quando forse si tratta solo della giovinezza che fu che stinge dalla memorialistica eroica alla semplice cronaca. È sintomatico, ad esempio, che in un libro come il recente Storia della destra di Adalberto Baldoni (Vallecchi, 2009), il Baldoni autore di un gran testamento generazionale come quel Noi rivoluzionari – prefazione straordinaria di Beppe Niccolai - che fece infuriare Almirante per il suo elogio del ’68, ebbene anche in Baldoni il pathos narrativo si arresta alle soglie del 1994 e cede il passo a una liquidazione piuttosto frettolosa di ciò che accade quando la destra, diremmo con Alessandro Caprettini, torna a veder le stelle. Lo spazio dedicato all’esame della dimensione aggregativa e musicale nelle esperienze giovanili o all’attività culturale si ferma agli anni ’80, salvo i rimandi bibliografici. I campi giovanili degni di menzione sono “solo” i tre campi Hobbit degli anni ’70, ed eventi significativi come i quattro Campobase degli anni ’90, che pure mobilitano migliaia di ragazzi, affrontando dibattiti a volte laceranti (memorabile quello sull’antiproibizionismo a Rocca Scalegna nel 1998) non trovano neppure la dignità di una citazione in nota, al pari della trasformazione del Fronte della Gioventù in Azione giovani. Stesso discorso per le riviste e gli istituti culturali (Area, che pure a fine anni ’90 supera la 10mila copie vendute, non è citata).
Strano ma vero, il processo di normalizzazione democratica della destra fa guadagnare in voti e in legittimazione a governare ma spinge intellettuali e politologi a occuparsi di altro o a fabbricare giudizi preconcetti. Non è spiegabile per i cultori della scienza politica e del soft power secondo Joseph Nye (Leadership e potere, Laterza, 2009), declinazione moderna del concetto di egemonia culturale, quando è ancora tutto da spiegare l’impatto consistente della destra anni Novanta sull’immaginario collettivo, ben prima che Giulio Tremonti facesse teorizzazioni alter-global. Non è spiegabile neppure per quella pattuglia denutrita di giornalisti e intellettuali che, ciascuno a modo suo, s’è sempre mosso all’interno della destra intesa questa volta come milieu culturale, sociale e da ultimo politico (magari per distaccarsene da molto tempo, com’è il caso di Tarchi). Molti di essi, infatti, hanno costruito le loro grandi - a volte - o piccole - molto spesso - fortune editoriali proprio sulla volontà di sparare sul vecchio quartier generale, mentre chi prova a costruire ipotesi di nuova cultura politica viene accusato di complicità con una politica dissolutrice dei vecchi slanci ideali.
Anche a sinistra questo accade, ma in forma più complessa, dato il maggior potere di radicamento e interdizione che là detengono i residui dell’industria culturale. A destra, diciamola così, può esser data una lettura di, per lo più, tipo generazionale di questa infelice combinazione di disinteresse e disprezzo per le vicende politiche e culturali che partono dagli anni Novanta della seconda Repubblica. Alcuni esempi possono spiegare questo continuo alternarsi dei due registri della nostalgia e del risentimento. A destra, come a sinistra, nell’eterna riproposizione del mito reducista e dell’«ai tempi nostri», vige ancora il duplice principio della valenza morale del radicalismo politico e della superiorità etica della generazione degli anni Settanta: ciò che è venuto dopo è per forza di cose peggiore, contaminato con il “regime” che si voleva distruggere, quando forse si tratta solo della giovinezza che fu che stinge dalla memorialistica eroica alla semplice cronaca. È sintomatico, ad esempio, che in un libro come il recente Storia della destra di Adalberto Baldoni (Vallecchi, 2009), il Baldoni autore di un gran testamento generazionale come quel Noi rivoluzionari – prefazione straordinaria di Beppe Niccolai - che fece infuriare Almirante per il suo elogio del ’68, ebbene anche in Baldoni il pathos narrativo si arresta alle soglie del 1994 e cede il passo a una liquidazione piuttosto frettolosa di ciò che accade quando la destra, diremmo con Alessandro Caprettini, torna a veder le stelle. Lo spazio dedicato all’esame della dimensione aggregativa e musicale nelle esperienze giovanili o all’attività culturale si ferma agli anni ’80, salvo i rimandi bibliografici. I campi giovanili degni di menzione sono “solo” i tre campi Hobbit degli anni ’70, ed eventi significativi come i quattro Campobase degli anni ’90, che pure mobilitano migliaia di ragazzi, affrontando dibattiti a volte laceranti (memorabile quello sull’antiproibizionismo a Rocca Scalegna nel 1998) non trovano neppure la dignità di una citazione in nota, al pari della trasformazione del Fronte della Gioventù in Azione giovani. Stesso discorso per le riviste e gli istituti culturali (Area, che pure a fine anni ’90 supera la 10mila copie vendute, non è citata).
Un minoritarismo blindato ha fatto in modo che all’interno della medesima definizione di “cultura di destra” convivesse un po’ di tutto, storici, politologi, letterati, giornalisti, tradizionalisti e rivoluzionari, conservatori e futuristi, sinistri e destri. La seconda Repubblica ha permesso di superare questo eclettismo ideologico forzato: c’è chi recupera la vocazione antica, modernizzante, laica e nazionale della destra, e chi si costruisce l’immagine di un tradizionalismo a tinte reazionarie o persino antirisorgimentali che in Italia non è mai esistito in forme significative. Ad ogni modo, negli ultimi quindici anni l’immaginario di destra ha invaso il campo del costume e degli stili di vita, la cultura politica di destra ha trovato aria nuova e rinnovata sulle riviste, sui quotidiani, nelle iniziative editoriali, nei media elettronici, e persino nelle università. Eppure questo interessa poco. Sarà che si dà per assodato il paradigma dell’assorbimento, prima politico poi culturale poi antropologico, della destra nel berlusconismo. O sarà che qualche intellettuale, messo alla prova della trasformazione in politiche pubbliche delle sue teorizzazioni, fallisce e si ritrova a esser pretesto per Sandro Bondi quando scrive, a ragione, che la cultura «diventa inutile piagnisteo» se non è capace di farsi cultura politica. Conviene dar la colpa a qualcun altro o invocare la rovina del Tempo e della Storia. Nostalgia e risentimento. La nostalgia è quella per il tempo (per i cinquantenni, il tempo della gioventù) quando si stava meglio perché si stava peggio. Il risentimento per una speranza tradita è ciò che muove figure le più incomponibili come Marcello Veneziani, scultore in libri come La cultura della destra (Laterza, 2007) di un’idea immobile di destra che mai scende a patti con la modernità degenerata (eccezion fatta, guarda caso, per Berlusconi), o Pietrangelo Buttafuoco quando comunica sul Foglio di aver preso casa lontano dall’arena politica, o Stenio Solinas, critico feroce dell’evoluzione culturale di Gianfranco Fini. Tale evoluzione l’ha lodata invece un ex antipatizzante come Giuliano Ferrara: scherzo della sorte, alla sua corte sta Alessandro Giuli, il cui Il passo delle oche (Einaudi, 2007), se si scansano gli schizzi delle invettive, offre qualche spunto di interesse per comprendere come un impolitico osserva il processo di costituzionalizzazione della destra. Ma, ancora oggi, sono praticamente assenti le analisi di taglio comparativo sulla destra italiana e il contesto europeo. Ha ragione Ignazi: strano ma vero, è assente un volume rigoroso di analisi della mutazione della destra, culturale e politica, negli anni della seconda Repubblica, magari anche critico o supercritico, che racconti a fondo dimensioni decisive come il passaggio dall’alternativa al governo, la contaminazione con il berlusconismo, la dinamica dei processi culturali. Strano ma vero, non c’è.
(di Angelo Mellone)
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