«Dopo il grande crollo del 1992-94 le classi dirigenti politiche di questo Paese hanno virtualmente troncato ogni legame con qualunque retroterra culturale», ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera di venerdì 14. E Angelo Mellone sul Giornale di martedì 12 rileva che oggi, per una certa «pattuglia denutrita di giornalisti e intellettuali», la destra post 1995, una volta diventata «forza di governo», risulta essere un «oggetto meno epico, troppo urbano», tanto è vero che nel libro di Adalberto Baldoni, che ha dato spunto al suo intervento polemico, «il pathos narrativo si arresta alle soglie del 1994».
Credo che la risposta al problema esistenziale posto da Mellone (perché non c’è nessuno che scrive «un volume rigoroso di analisi della mutazione della destra, culturale e politica»?) stia nelle parole sue e del professor Galli della Loggia sopra riportate. Proprio perché uno di questi partiti italiani (nel nostro caso l’ex Msi ed ex An) ha troncato i suoi legami con la cultura delle origini c’è un’incomprensione e un disinteresse fra questo partito e una certa «denutrita pattuglia di gionalisti e intellettuali» che in precedenza nella Destra si riconosceva. Sarà consentita o no questa posizione, o tutti devono essere obbligatoriamente entusiasti delle (o interessati alle) posizioni che prima al Msi e poi ad An ha fatto raggiungere l’attuale presidente della Camera? Peraltro, non si capisce il motivo per cui Angelo Mellone si preoccupi: in contrapposizione a costoro mi pare che esista una pattuglia ben pasciuta di altri intellettuali e giornalisti che riesce a esporre i propri opposti punti di vista politici e culturali in Fondazioni, giornali, riviste, «iniziative editoriali, nei media elettronici e persino nell’università», come Mellone elenca con giusto compiacimento, controbilanciando questi «piagnoni», questi scetticoni circa le magnifiche sorti progressive della ex destra aennina discioltasi in Forza Italia.
E proprio dalle citate parole di Mellone si evidenziano i motivi di questa disillusione, che non è tanto un miscuglio di nostalgia e risentimento, secondo la sua ipotesi, quanto - appunto - il fatto che il suo «soggetto politico», come direbbero i politologi, sortito a partire dal 1995 non ha nulla di «epico», non sollecita alcun «pathos»... Esso è sembrato nel corso di ben quindici anni soltanto un poltronificio, pur se, secondo quanto afferma Mellone, esso è ormai «cultura popolare maggioritaria».
Ma è così? Se fosse una «cultura popolare maggioritaria», se ne dovrebbero notare gli effetti. Per quanti sforzi faccia non me ne accorgo. L’uso dei simboli forti è scomparso, se ne ha una paura folle, solo la Lega ne ha ormai l’appannaggio.
E tutto ciò perché avviene? Mellone ha usato una parola che mi ha fatto rabbrividire e che mi ha ricordato la Praga del 1968, quando lui forse era appena nato: «Il processo di normalizzazione democratica della destra», che poi diventa anche «il processo di costituzionalizzazione della destra». Mi spiace: una destra «normalizzata», all’esterno come all’interno, ha prodotto il solo effetto di azzerare quello che sempre Mellone definisce negativamente un «eclettismo ideologico forzato», che era invece la vera forza prima del Msi e poi di An. Sicché: al bando tutti coloro che non si riconoscono nelle posizioni ormai «normalizzate» del partito, sino a far assumere alla Nuova Destra posizioni ufficiali spesso non dissimili da quelle della Vecchia Sinistra, ad esempio in tema di «guerra civile» antirevisionista, come ha notato l’insospettabile (e profetico) Giampaolo Pansa su questo giornale il 24 luglio scorso.
A questo punto sembra ingenuo o provocatorio chiedersi retoricamente per quale motivo nessuno della «pattuglia denutrita di giornalisti e intellettuali» senta il minimo impulso a occuparsi «scientificamente» della evoluzione (per loro: involuzione) di un partito così «normalizzato». Che motivo ne dovrebbero avere? Quale interesse potrebbe muoverli? Più consono per loro fare un esame critico, magari umorale, della situazione (non sempre distruttivo, spesso inutilmente propositivo) in base alle loro esperienze passate e presenti e non in nome di un’asettica «scienza politica» o di un pragmatico interesse contingente. Per far quel che chiede Mellone in senso tassonomico e quasi entomologico ci sono schiere ben pasciute che albergano nelle università e nelle Fondazioni e nei mass media elettronici cui utilmente affidarsi per uno scopo così alto. Noi, poveri denutriti, ci muoviamo solo se sentiamo il pathos, l’appeal dell’epico, che ci possiamo fare? La burocrazia e la normalizzazione non ci ispirano. Nemmeno la costituzionalizzazione ci esalta.
(di Gianfranco de Turris)
Credo che la risposta al problema esistenziale posto da Mellone (perché non c’è nessuno che scrive «un volume rigoroso di analisi della mutazione della destra, culturale e politica»?) stia nelle parole sue e del professor Galli della Loggia sopra riportate. Proprio perché uno di questi partiti italiani (nel nostro caso l’ex Msi ed ex An) ha troncato i suoi legami con la cultura delle origini c’è un’incomprensione e un disinteresse fra questo partito e una certa «denutrita pattuglia di gionalisti e intellettuali» che in precedenza nella Destra si riconosceva. Sarà consentita o no questa posizione, o tutti devono essere obbligatoriamente entusiasti delle (o interessati alle) posizioni che prima al Msi e poi ad An ha fatto raggiungere l’attuale presidente della Camera? Peraltro, non si capisce il motivo per cui Angelo Mellone si preoccupi: in contrapposizione a costoro mi pare che esista una pattuglia ben pasciuta di altri intellettuali e giornalisti che riesce a esporre i propri opposti punti di vista politici e culturali in Fondazioni, giornali, riviste, «iniziative editoriali, nei media elettronici e persino nell’università», come Mellone elenca con giusto compiacimento, controbilanciando questi «piagnoni», questi scetticoni circa le magnifiche sorti progressive della ex destra aennina discioltasi in Forza Italia.
E proprio dalle citate parole di Mellone si evidenziano i motivi di questa disillusione, che non è tanto un miscuglio di nostalgia e risentimento, secondo la sua ipotesi, quanto - appunto - il fatto che il suo «soggetto politico», come direbbero i politologi, sortito a partire dal 1995 non ha nulla di «epico», non sollecita alcun «pathos»... Esso è sembrato nel corso di ben quindici anni soltanto un poltronificio, pur se, secondo quanto afferma Mellone, esso è ormai «cultura popolare maggioritaria».
Ma è così? Se fosse una «cultura popolare maggioritaria», se ne dovrebbero notare gli effetti. Per quanti sforzi faccia non me ne accorgo. L’uso dei simboli forti è scomparso, se ne ha una paura folle, solo la Lega ne ha ormai l’appannaggio.
E tutto ciò perché avviene? Mellone ha usato una parola che mi ha fatto rabbrividire e che mi ha ricordato la Praga del 1968, quando lui forse era appena nato: «Il processo di normalizzazione democratica della destra», che poi diventa anche «il processo di costituzionalizzazione della destra». Mi spiace: una destra «normalizzata», all’esterno come all’interno, ha prodotto il solo effetto di azzerare quello che sempre Mellone definisce negativamente un «eclettismo ideologico forzato», che era invece la vera forza prima del Msi e poi di An. Sicché: al bando tutti coloro che non si riconoscono nelle posizioni ormai «normalizzate» del partito, sino a far assumere alla Nuova Destra posizioni ufficiali spesso non dissimili da quelle della Vecchia Sinistra, ad esempio in tema di «guerra civile» antirevisionista, come ha notato l’insospettabile (e profetico) Giampaolo Pansa su questo giornale il 24 luglio scorso.
A questo punto sembra ingenuo o provocatorio chiedersi retoricamente per quale motivo nessuno della «pattuglia denutrita di giornalisti e intellettuali» senta il minimo impulso a occuparsi «scientificamente» della evoluzione (per loro: involuzione) di un partito così «normalizzato». Che motivo ne dovrebbero avere? Quale interesse potrebbe muoverli? Più consono per loro fare un esame critico, magari umorale, della situazione (non sempre distruttivo, spesso inutilmente propositivo) in base alle loro esperienze passate e presenti e non in nome di un’asettica «scienza politica» o di un pragmatico interesse contingente. Per far quel che chiede Mellone in senso tassonomico e quasi entomologico ci sono schiere ben pasciute che albergano nelle università e nelle Fondazioni e nei mass media elettronici cui utilmente affidarsi per uno scopo così alto. Noi, poveri denutriti, ci muoviamo solo se sentiamo il pathos, l’appeal dell’epico, che ci possiamo fare? La burocrazia e la normalizzazione non ci ispirano. Nemmeno la costituzionalizzazione ci esalta.
(di Gianfranco de Turris)
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