lunedì 28 settembre 2009
Lampi di Folgore
sabato 26 settembre 2009
Senza verità si distrugge la libertà
Il vero allarme civile? L'antitaliano Di Pietro
Tifai Di Pietro ai tempi di Mani pulite e non me ne vergogno. Pensai che ci volesse davvero un po’ di piazza pulita contro il malaffare e non ritenni mai Di Pietro un agente segreto della sinistra togata. Ne conoscevo di tonini come lui al sud ed erano marescialli o militanti dell’Msi, magari sognavano un bel golpe per imporre legge e ordine. Certo, spaventava il suo furore, l’accanimento unilaterale delle indagini, ma la corruzione c’era, la necessità di un cambiamento pure, e non avremmo avuto Berlusconi, Bossi e Fini al governo senza Mani pulite. Non dimenticatelo, lui e voi.
Però ora l’Italia vive una situazione senza precedenti. Il leader morale e civile dell’opposizione è lui, Tonino Di Pietro. Vi rendete conto? Non è un’emergenza democratica, civile e politica questa? La sinistra sarà diffusa, come oggi si dice, esiste ovunque, meno che in politica. Dicesi Franceschini l’intervallo in bianco tra due leader rossi scoloriti. E dicesi sinistra la fettina di cotto schiacciata tra Berlusconi e Di Pietro. Il processo a Berlusconi, nei tribunali o nei parlamenti, europeo incluso, è di marca dipietresca; la sinistra si accoda, va faticosamente al suo rimorchio, è sua suddita. Loro sono la coda e isso è lu capo, Tonino da Montenero di Bisaccia, per usare un nome brigantesco. Mi diverte leggere i colti della sinistra che accusano il berlusconismo e il leghismo di essere incolti parvenu; ammazza la cultura che ferve a sinistra, se il loro capataz è Tonino Di Pietro, che ebbe per chiara fama una cattedra al Cepu.
A Di Pietro vorrei dire quattro cose. La prima è un bilancio della sua missione politica e giudiziaria: voleva eliminare la corruzione dalla politica, sterminare i socialisti, sfasciare Berlusconi. Ammetti, Tonino caro, che non ci sei riuscito. Il malaffare fiorisce trasversale, sinistra inclusa, il malcostume non ne parliamo; i socialisti sono rifioriti nel centrodestra e sono tra i migliori ministri, e Berlusconi governa senza golpe ma con quell’arma civile che si chiama voto, ovvero il libero consenso degli italiani. Missione fallita su tutti i fronti.
La seconda è un appello non più da terrone a terrone ma da italiano a italiano: non puoi gettare palate di fango sul tuo Paese, affittare pagine di giornali stranieri, portare in europarlamento la storia ridicola delle querele per attaccare il premier e di conseguenza la maggioranza degli italiani che lo hanno votato, lasciando credere che viviamo nella dittatura di Bananas. Sai bene che quella campagna viene tradotta in discredito per l’Italia intera. Perché sai bene che la stessa sinistra, quando attacca Berlusconi sul piano pubblico e privato, gli rimprovera di essere arcitaliano e di incarnare l’autobiografia della nazione (mentre loro evidentemente sono l’autopsia della nazione). Insomma, per sfasciare Berlusconi state sfasciando il Paese e la sua immagine nel mondo, ingigantendo storielle di malcostume, semplici querele e vicende private, cancellando l’azione di governo e l’ottima considerazione conquistata nei rapporti con i leader del pianeta. Berlusconi va all’Aquila e voi tra i corvi. Terza riflessione. Se un giorno si farà la storia di questi anni si scriverà che il populismo in Italia ebbe tre varianti: Bossi, Berlusconi e Di Pietro. Più contorno di Santoro. Non giocarti questo alone residuo di genuina popolarità, non prestarti come guardia giurata dei poteri grossi, una specie di Catozzo in servizio davanti a banche e palazzi della City. Ti vogliono usare come vigilante della notte e poi gettarti. Ti esaltano in pubblico ma in salotto ridono alle tue spalle, come leader delle brigate rozze.
giovedì 24 settembre 2009
Nel nostro paese non c'è abbastanza teppismo intellettuale
La gioventù bruciante che scaldò il Novecento
Uso la parola incendio non a caso. Si potrebbe far la storia di quegli anni, dico la storia dell’arte, della letteratura ma anche la storia civile, avendo come filo conduttore i titoli di libri, i proclami, i discorsi, perfino le testate di riviste, che alludono alla fiamma, al fuoco, all’incendio, all’ardere, al bruciare. È il fuoco la metafora e insieme l’allegoria più viva di uno stato d’animo e di una situazione. Il sogno di un futuro nuovo fiammante dopo aver messo a ferro e fuoco il passato e il presente; le utopie fiammeggianti, i falò di libri e di cose antiche, la linea del fuoco nelle trincee, le focose passioni erotiche e politiche, il sacro fuoco dell’ispirazione, la fiamma come simbolo dei combattenti, le fiaccolate, le sigarette accese e penzolanti dalle labbra per il riposo del guerriero...
Il precursore di questa piromania artistico-letteraria fu d’Annunzio che aveva scritto Il fuoco, e che all’ardere e agli arditi, alle fiamme, le fiaccole e le faville, aveva dedicato pagine, poesie, discorsi e fiumi di parole. Ma alla scintilla si era rifatto pure Lenin battezzando così il suo giornale - Iskra - che precede la rivoluzione russa; e tutta la modernità sembrava nascere dal fuoco, messa a fuoco, punto focale: lenti, lastre, dinamo, bombe, bengala, fotografie, flash col botto, ciminiere, fuochisti, pietre focaie, motori a scoppio...
Il fuoco come illuminazione, come ardore, come purificazione del mondo, il fuoco come espressione di un’ispirazione artistica, una passione storica, una promessa di rinnovamento. A giudicare da alcuni effetti tragici di quella passione focosa si può forse dire che in quegli anni cercarono un paradiso fiammeggiante, ma non s’accorsero che col fuoco si propizia l’avvento dell’inferno. Le fiamme sono di casa lì, più che in paradiso. Si addicono ai dannati più che ai beati.
Non fu tanto l’esordio del nuovo secolo a generare questo choc, i primissimi anni dopo lo scoccare del ’900, quanto il decennio che ne seguì, dopo l’ebbrezza per le scoperte scientifiche e lo sgomento per il piccolo mondo antico che finiva. Ma fu solo dopo i primi anni, quando esplose nel febbraio del 1909 il futurismo che una miccia si accese e raggiunse presto i serbatoi di una società vogliosa di scatenare gli assoluti in terra, tramite l’arte, il pensiero, la parola, e poi la lotta, la guerra e la rivoluzione. Gli assoluti terrestri, direbbe Popper, ovvero i paradisi in terra.
Impensabile ai nostri occhi smagati del presente, quel clima e quella sete di assoluto riversata nell’arte, nella vita e nella storia. Ma impensabile anche la precoce età di quei protagonisti, ragazzi quasi tutti sotto i trent’anni come non vediamo ormai da un pezzo. Il secolo della giovinezza, cominciato allora, a cavallo delle rivoluzioni e delle guerre, dopo il Sessantotto finì negli anni di piombo. Uscita da quel tunnel, la storia andò all’ospizio e trionfò de senectute, una società grigia, anziana. La gioventù s’allarga, l’età media si allunga, spariscono i giovani, depositari d’avvenire.
Quel decennio non fu solo un laboratorio degli anni che verranno, ma fu anche il cimitero del futuro, l’arco in cui si bruciarono in anticipo sulla vita e sulla storia del secolo i serbatoi di speranza e i sogni d’avvenire che si spargeranno poi in tutto il Novecento. L’uomo nuovo, il mondo nuovo e l’ordine nuovo nacquero in quegli anni e il secolo che ne seguì fu l’apoteosi e l’agonia di quel novismo, il suo trionfo e la sua catastrofe.
«E vengano dunque, gli allegri incendiari dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!... Suvvia date fuoco agli scaffali delle biblioteche». È il primo fuoco appiccato in quel decennio: fu il Manifesto del Futurismo, di F. T. Marinetti.
A Milano presso le edizioni di Poesia di Marinetti, Aldo Palazzeschi, allora futurista, pubblica nel 1910 L’Incendiario, raccolta irriverente di poesie che mettono a ferro e fuoco il mondo anche se si aprono con l’apologia del maremoto, che a così breve distanza dalla tragedia di Messina e Reggio Calabria, era davvero una pessima ironia. Ma il suo non è il titolo di un libro, piuttosto è l’incipit di un’epoca, il programma di un generazione. «Uomini che avete orrore del fuoco, / poveri esseri di paglia!» scrive Palazzeschi che si definisce «povero incendiario mancato, incendiario da poesia. Ogni verso che scrivo è un incendio». «Sali o carbone, in fiammeggianti pire» gli fa eco un altro poeta futurista, Luciano Folgore nel Canto dei Motori del 1912, che è tutto un elogio del carbone e della combustione.
Prima del futurismo altri piromani avevano cominciato ad incendiare la letteratura italiana: Papini, Soffici e Prezzolini già dagli albori del Novecento si erano cimentati nell’impresa; ma in quegli anni produssero con libri, riviste e massacri, gli effetti visibili del loro talento focoso. Altri più densi incendi si appiccheranno nella poesia italiana con il Poeta pazzo, Dino Campana e i suoi sconvolgenti Canti Orfici usciti nel 1914. Fu un vero incendio nella letteratura, e per uno strano gioco del destino la prima edizione di quella raccolta, naturalmente poco compresa, finì in larga parte in un falò per riscaldare i soldati inglesi sull’appennino durante la guerra. Un falò, forse il primo rogo librario del Novecento, ma degna conclusione di un libro sulfureo, dedicato ad Orfeo. Un libro incendiario, che fece una fine adeguata, vorrei dire omeopatica.
(di Marcello Veneziani)
mercoledì 23 settembre 2009
Si scalda il partito del dopo-Berlusconi
L’incontro tra Berlusconi e Fini è stato letto dalla maggioranza dei giornali come un riavvicinamento delle parti, l’inizio di un disgelo anche a livello umano tra i due leader. Dal punto di vista politico si è raggiunto un compromesso?
(fonte: http://www.ilsussidiario.net/)
martedì 22 settembre 2009
Gli individui non esistono fuori dalle loro comunità
In tale quadro figura la comparsa e lo sviluppo nel Nord America, dagli anni Ottanta, d’una corrente di pensiero che oltre Atlantico ha provocato innumerevoli dibattiti, ma che l’Europa ha scoperto più di recente: il «movimento» comunitario, costellazione rappresentata dai filosofi Alasdair MacIntyre, Michael Sandel e Charles Taylor.
Il movimento comunitario enuncia una teoria che combina strettamente filosofia morale e filosofia politica. Sebbene abbia una portata più vasta, la teoria è stata elaborata, da un lato, in riferimento alla situazione degli Stati Uniti, con l’inflazione della «politica dei diritti», la disgregazione delle strutture sociali, la crisi dello Stato-Provvidenza e l’emergere della problematica «multiculturalista»; dall’altro, in reazione alla teoria politica liberale, riformulata da Ronald Dworkin, Bruce Ackerman e soprattutto John Rawls. Quest’ultima si presenta come una teoria dei diritti (soggettivi), fondata su un’antropologia individualista. Nell’ottica dell’«individualismo possessivo» (Macpherson), ogni individuo è agente morale autonomo, «padrone assoluto delle sue capacità», alle quali ricorre per soddisfare i desideri espressi o rivelati dalle sue scelte. L’ipotesi liberale dunque prevede un individuo separato, un tutto completo a sé stante, che cerca d’accrescere i vantaggi con libere scelte, volontarie e razionali, senza che esse siano considerate frutto di influenze, esperienze, contingenze e norme del contesto sociale e culturale.
Invece il punto di partenza dei comunitari è anzitutto d’ordine sociologico ed empirico: constata la dissoluzione dei legami sociali, lo sradicamento delle identità collettive, la crescita degli egoismi. Sono gli effetti d’una filosofia politica che provoca l’atomizzazione sociale, legittimando la ricerca da parte di ognuno del maggior interesse, restando così insensibile ai concetti d’appartenenza, di bene comune e di valori condivisi.
Il maggior rimprovero dei comunitari all’individualismo liberale è di dissolvere le comunità, elemento fondamentale e insostituibile dell’esistenza umana. Il liberalismo svaluta la vita politica, considerando l’associazione politica un puro bene strumentale, senza vedere che la partecipazione dei cittadini alla comunità politica è un bene intrinseco; perciò non può rendere conto d’un certo numero d’obblighi e impegni, come quelli non risultanti da scelta volontaria o impegno contrattuale, come i doveri familiari, l’obbligo di servire la patria e d’anteporre l’interesse comune a quello personale. Il liberalismo propaga una concezione erronea dell’io, non ammettendo che esso rientri sempre in un contesto socio-storico e, almeno in parte, che sia costituito da valori e impegni non sottoposti a scelta e non revocabili a piacere. Suscita un’inflazione della politica dei diritti, che poco ha a che fare col diritto in quanto tale, e un nuovo tipo di sistema istituzionale, la «repubblica procedurale». Infine, col suo formalismo giuridico, misconosce il ruolo centrale di lingua, cultura, costumi, pratiche e valori condivisi, come basi d’una vera «politica di riconoscimento» di identità e diritti collettivi.
La teoria comunitaria si pone dunque in una prospettiva «olistica». L’individualismo liberale definisce il singolo come ciò che resta del soggetto, una volta privato di caratteristiche personali, culturali, sociali e storiche, cioè estratto alla comunità. D’altronde postula l’autosufficienza del singolo rispetto alla società e sostiene che egli persegue il maggiore interesse con scelte libere e razionali, senza che il contesto socio-storico influisca sulla sua capacità d’esercitare i «poteri morali», cioè di scegliere una particolare concezione di vita. Per i comunitari, invece, un’idea presociale dell’io è impensabile: l’individuo trova la società preesistente ed essa ne ordina i punti di riferimento, ne costituisce il modo di stare al mondo e ne modella le ambizioni.
Per i comunitari, l’uomo è anzitutto «animale politico e sociale» (Aristotele). Così i diritti sono espressione di valori propri di collettività o gruppi differenziati, ma riflesso d’una teoria più generale dell’azione morale o della virtù. La giustizia si confonde con l’adozione d’un tipo d’esistenza secondo i concetti di solidarietà, reciprocità e bene comune. Quanto alla «neutralità» di cui s’ammanta lo Stato liberale, è vista sia come disastrosa nelle conseguenze, sia - più generalmente - come illusoria, perché rimanda implicitamente a una singolare concezione del bene, che non si confessa tale. Una vera comunità non è l’unione o la somma degli individui. I suoi membri, in quanto tali, hanno fini comuni, legati a valori o esperienze, non solo interessi privati più o meno congrui. Questi fini sono tipici della comunità, non sono obiettivi particolari uguali per tutti o per la maggioranza dei membri. In una semplice associazione, gli individui guardano i loro interessi come indipendenti e potenzialmente divergenti. I rapporti fra questi interessi non sono dunque un bene in sé, ma solo un mezzo per ottenere i beni particolari cercati da ciascuno. Mentre la comunità, per chi vi appartiene, è un bene in sé.
(di Alain de Benoist)
domenica 20 settembre 2009
Preghiera del Paracadutista
guarda benigno a noi,
Come nebbia al Sole, davanti a noi siano dissipati i nostri nemici.
La nostra giovane vita e' tua o Signore!
Se e' scritto che cadiamo, sia!
Benedici, o signore, la nostra Patria, le Famiglie, i nostri Cari!
Così sia.
sabato 19 settembre 2009
Berlusconi, un delirio che parte da un complesso di inferiorità
(di Massimo Fini)
venerdì 18 settembre 2009
Il massacro fa esplodere i problemi veri
Da qui la solitudine sconfortante dei nostri soldati. Non sono lasciati soli dal governo o dagli apparati militari; sono dimenticati dalla gente. Esistono solo quando saltano in aria, quando si fanno martiri e diventano estreme star della tv, magari quando non sono più nemmeno volti ma bare avvolte in un tricolore.
Nessuno pretende che l’Italia viva nel clima della guerra o faccia il tifo per le missioni dei nostri soldati nei luoghi caldi del pianeta. Ma è triste rischiare la vita per il proprio Paese, per l’Occidente o per la nostra civiltà, senza che gli interessati se ne accorgano. Un tempo i ragazzi sognavano di diventare eroi cadendo in guerra; per questi guerrieri in tempo di pace non vale nemmeno la consolazione della morte trionfale, il ricordo, la partecipazione. No, il massimo che possono aspirare è l’equiparazione alle vittime della violenza, del terremoto, dei week end. Senza onore né gloria, per dirla con il titolo di un famoso libro.
Quel che più impressiona è che sono coetanei del ragazzo che ti ha sorpassato con la moto da destra, con la ragazza che ha il piercing sulle ciglia e sulla bocca, del giovane che hai visto l’altra notte fumare cannoni di pace o ingoiare pasticche in un pub. Abissi dividono coetanei, gente che vive sotto lo stesso cielo, nello stesso tempo, tra gli stessi contemporanei. Che vedono la stessa tv, navigano su internet gli uni come gli altri, magari hanno i genitori separati... Sì, forse in molti casi c’è la stessa incoscienza o inavvertenza del pericolo, la stessa voglia di vivere di più, di rischiare e di provare la propria immortalità desunta dal vigore degli anni. C’è chi prova l’ebbrezza con una sostanza, con una moto, con l’alcol e chi con la divisa, le armi e la missione patriottica. C’è chi rischia in Afghanistan e chi in borgata o in curva.
Però noi siamo disarmati davanti alla guerra, quella vera, davanti ai kamikaze o presunti tali. Non riusciamo a capire come possa essere possibile e così non siamo attrezzati a reagire, preferiamo rimuovere o derubricare l’attentato al rango di incidente, follìa o calamità. C’è gente che uccide per entrare nella storia; e c’è gente, come noi, che dalla storia è uscito e non capisce chi vuole entrare. Loro fanno più morti e più nascite, noi non uccidiamo e non procreiamo. Loro sperano e per sperare uccidono e si uccidono, noi invece disperiamo ma vogliamo vivere a ogni costo e prolungare la vita con ogni mezzo. Loro hanno dimestichezza con la morte, noi siamo impauriti analfabeti del morire. Loro aspettano paradisi e per i paradisi procurano gli inferni; noi abbiamo smesso di pensarci, e ci fabbrichiamo inferni e paradisi di giornata, uso singolo. E tra noi e loro ci sono di mezzo i nostri soldati, che vivono sull’orlo tra i due mondi, provengono dal nostro mondo e affrontano il loro, e vivono la dolorosa cerniera tra due illusioni, la guerra di liberazione e la liberazione dalla guerra; o se preferite, la vita analgesica di noi occidentali e la vita mortifera dei feroci talebani. Poi accade l’attentato e le reazioni per farla finita sono due: le colombe chiedono il ritiro, i falchi chiedono di sterminare il nemico. Due modi per rimuovere il pericolo e abolire la guerra; e invece dobbiamo abituarci a combattere, ad alternare la prudenza all’audacia, a non disarmare, a convivere con il rischio e con la morte. Perché l’uomo è guerra e pace, vita e morte, riso e pianto. E non è possibile estirpare la notte per vivere un giorno infinito
(di Marcello Veneziani)
giovedì 17 settembre 2009
Attentato a Kabul: morti 6 parà della Folgore
Primo Caporal Maggiore Matteo Mureddu
Primo Caporal Maggiore Davide Ricchiuto
Primo Caporal Maggiore Gian Domenico Pistonami
Primo Caporal Maggiore Massimiliano Randino
Sergente Maggiore Roberto Valente
Altro che Berlusconi, è Soru a voler «uccidere» l'Unità
La libertà di stampa che piace a D'Alema è quella di Pol Pot
La prima scena risale al 31 ottobre 1992. Aeroporto di Lecce. Incontro D’Alema che aspetta il volo per Roma. È mattina presto, ma lui già schiuma di rabbia contro una masnada di pessimi soggetti. I giudici di Mani Pulite. Gli editori. I giornali e i giornalisti. Primo fra tutti, Eugenio Scalfari, direttore di “Repubblica”. Ringhia: «Scalfari ha leccato i piedi ai democristiani che stavano a Palazzo Chigi, da Andreotti a De Mita. E adesso fa il capo dell’antipartitocrazia».
Quarantotto ore dopo, intervistato dal “Giorno”, Max si scaglia di nuovo contro “Repubblica”: «Che cosa si vuol fare? Cacciare deputati e senatori, per lasciare tutto in mano a Scalfari?». Un vero figuro, Barbapapà. Anche perché è in combutta «con quell’analfabeta di andata e ritorno che si chiama Ernesto Galli della Loggia». “Repubblica” prova ad ammansire D’Alema. Però il 13 novembre lui replica: «Ormai i giornali sono un problema in Italia, esattamente come la corruzione».
La rabbia dalemista ha un motivo: siamo in piena Tangentopoli e la stampa dà spago al pool di Mani Pulite. In un’intervista a “Prima Comunicazione” che in seguito citerò, Max dirà parole di fuoco sui giornali: «Si sono comportati in modo fazioso, scarsamente rispettoso dei diritti delle persone. Hanno alimentato una circolazione impropria di segreti giudiziari e il narcisismo della magistratura. La loro responsabilità morale è stata enorme: verbali, pezzi di verbali, notizie riservate sono diventati oggetto di uno sfrontato mercato delle informazioni. Uno spettacolo di iattanza indecente. Ha ragione la destra quando dice che c’è un circuito mediatico-giudiziario che ha distrutto delle persone».
Il 13 aprile 1993, la rabbia di Max sembra al culmine. Dice: «In questo Paese non sarà mai possibile fare qualcosa finchè ci sarà di mezzo la stampa. La prima cosa da fare quando nascerà la Seconda Repubblica sarà una bella epurazione dei giornalisti in stile polpottiano». Ossia nello stile del comunista Pol Pot, capo dei khmer rossi, il sanguinario dittatore della Cambogia.
Ma la nuova Repubblica nasce sotto un segno che a Max non piace: la vittoria di Berlusconi nel marzo 1994. Achille Occhetto si dimette da segretario del Pds e a Botteghe Oscure s’insedia D’Alema. Per qualche mese, il nuovo incarico lo obbliga a un minimo di cautela. Ma la sua avversione per i giornali non è per niente svanita.
La grana di Affittopoli
Nel giugno 1995, intervistato da Antonio Padellaro per “L’Espresso”, riprende a ringhiare contro «l’uso spesso selvaggio dell’indiscrezione giudiziaria». E conclude che le cronache su Tangentopoli hanno «consumato quel poco di rispetto per lo stato di diritto e di cultura liberale esistente da noi. Il danno prodotto è stato enorme. Provo fastidio per il comportamento dei giornalisti: non aiuta di certo l’immagine dell’Italia».
Il 1995 sarà un anno terribile per D’Alema e per Veltroni, direttore dell’“Unità”. Però Max non presagisce nulla. Il suo giornalista preferito è un televisionista: Maurizio Costanzo. In luglio, la Botteghe Oscure incaricano Costanzo di “stilare le nuove regole” dell’informazione. E D’Alema lo vuole accanto a sé nella Festa nazionale dell’Unità a Reggio Emilia. Insieme presentano il primo libro di Max, “Un paese normale”, stampato dalla Mondadori di Berlusconi.
La tempesta scoppia alla fine di agosto. È lo scandalo di Affittopoli, sulle case di enti pubblici ottenute dai politici a equo canone. Più saggio di Veltroni che strilla, ma resta dov’è, D’Alema trasloca. E sceglie la trasmissione di Costanzo per annunciare il passaggio in un altro appartamento.
Ma il suo disprezzo per la carta stampata resta intatto. Arrivando a coinvolgere politici incolpevoli. In quell’autunno dice di me: «Pansa si fa leggere sempre, ma ha un difetto: non capisce un cazzo di politica. C’è uno solo in Italia che ne capisce meno di lui: Romano Prodi».
Nel dicembre 1995, Max affida a “Prima comunicazione” il suo lungo editto contro i giornali. Intervistato da Lucia Annunziata, spiega di sentirsi una vittima: «Due giornalisti mi tengono e il terzo mi mena». «Il livello di faziosità e di mancanza di professionalità è impressionante». «Non esiste l’indipendenza dell’informazione: i giornali non sono un contropotere, ma un pezzo del potere. E come tali sono inattendibili». «Il loro compito è la destrutturazione qualunquista della democrazia politica». «Gli editori si contendono a suon di milioni i giornalisti più canaglia».
Al termine del colloquio con l’Annunziata, prima dell’invito a non acquistare i giornali, D’Alema annuncia come si comporterà in futuro: «Se dovrò dire qualcosa di importante, lo dirò alla gente, non ai giornali. Andrò alla televisione. Mi metto davanti a una telecamera con la mia faccia, con le parole che decido di dire, senza passare per nessun mediatore. Se parli con la stampa, sei sicuro di perderci».
Per coerenza, il 5 aprile 1996, alla vigilia delle elezioni politiche, D’Alema va in visita ufficiale a Mediaset. Accanto a Fedele Confalonieri, dice: questa azienda «è una risorsa del Paese». E rassicura i dipendenti: «Se vincerà l’Ulivo, non dovrete temere nulla. Mediaset è un patrimonio di tutta l’Italia!».
L’Ulivo vince. Max spiega a Carlo De Benedetti: «Hai visto? Abbiamo vinto nonostante i tuoi giornali!». Ma D’Alema si sente prigioniero del Bottegone. Vorrebbe stare lui al governo. Prodi e Veltroni non gli piacciono. Sono «i due flaccidi imbroglioni di Palazzo Chigi». Poi la sua ostilità torna verso la stampa. In luglio tuona contro «il giornalismo spazzatura». E alla fine del mese, alla Festa dell’Unità di Gallipoli spiega: «Ormai c’è qualcosa di più che il normale pettegolezzo giornalistico, tendente ad alterare la verità. Ci sono lobby, interessi, gruppi che pensano spetti a loro dirigere la sinistra italiana».
Il 2 agosto, durante la bagarre parlamentare sul finanziamento pubblico ai partiti, D’Alema ringhia ai cronisti: «Scrivete pure quello che vi pare, tanto i giornali non li legge nessuno. E anche voi contate poco: prima o poi vi licenzieranno». A imbufalirlo è sempre il ricordo di Affittopoli e quel che ritiene di aver subito dalla carta stampata: «Giornalismo barbarico, cultura della violenza, squadrismo a mezzo stampa».
Perché Max si comporta così? In un’intervista citata dal “Foglio”, Veltroni prova a spiegarlo: «Io sono gentile con i giornalisti. Dovrei fare come D’Alema che li chiama somari per ottenere la loro supina benevolenza». Ma forse esiste un problema nascosto: una forma inconsapevole di autolesionismo che spinge Max a cercarsi sempre dei nemici.
Basta processi penali. Meglio “ricchi risarcimenti”
Una sera del novembre 1996, dice a Claudio Rinaldi, direttore dell’ “Espresso”: «Fate una campagna sguaiata contro di me. Vi mancano solo Michele Serra e Curzio Maltese, poi sarete al completo. L’unica critica fondata che potreste farmi è di aver messo Prodi a Palazzo Chigi». Quindi spara su Berlusconi: «Mi sta sul cazzo come tutti i settentrionali. È un coglione ottuso. La sua stagione è finita».
Il 1997 si apre con la causa civile che Max intenta all’“Espresso”. Per aver rivelato la piantina della sua nuova casa, ci chiede un miliardo di lire. Non lo frena neppure l’onore di presiedere la Bicamerale. Il 5 maggio scandisce a Montecitorio un anatema globale: «L’ho detto una volta per tutte, con validità erga omnes, con valore perpetuo: quello che scrivono i giornali è sempre falso».
Alla fine di novembre si scatena contro l’Ordine dei giornalisti. Bisogna abolirlo, dice Max, visto che non garantisce la correttezza professionale. Poi nel gennaio 1998 annuncia di aver scovato l’arma finale per sistemare la carta stampata. È di una semplicità elementare: niente più processi penali ai giornalisti, bisogna instaurare «un sistema che consenta una rapida ed efficace tutela in sede civile e che preveda consistenti risarcimenti patrimoniali».
Detto fatto, ecco in data 10 febbraio 1998 la causa civile di Max al “Corriere della sera” per quanto ha scritto «su un fantomatico piano D’Alema per il sindacato». Richiesta: due miliardi di lire. La sinistra non va in piazza a protestare. Eppure Max pretende dal «convenuto Ferruccio de Bortoli» anche il giuramento decisorio. Vale a dire che deve giurare di aver scritto la verità a proposito delle intimidazioni dalemiane sugli azionisti di via Solferino.
Quale sorte ebbe questa causa? Confesso di non ricordarlo. Ma che importanza ha scoprirlo? D’Alema aveva tracciato un solco che, anni dopo, anche l’odiato Cavaliere avrebbe seguito.
(di Giampaolo Pansa)
lunedì 14 settembre 2009
Ora il Governo aiuti i cittadini
Ho avuto diverse esperienze in merito, e ne ho sentite tantissime da amici e conoscenti. Ogni volta che ho cercato di far valere un diritto non è stato possibile; solo temendo mie azioni me l'hanno concesso come un favore; non come regola ma come strappo alla regola. Un sistema mafioso-magliaro che dimostra come la fama di maggiore serietà ed efficienza del privato rispetto al pubblico sia spesso usurpata. Provate a cercare di parlare con i numeri verdi o avere spiegazioni ragionevoli o addirittura autorevoli per un disguido; provate a chiedere rimborsi per fatture sbagliate, per viaggi annullati o per utenze che non avete in realtà usato o che avevate disdetto per tempo; impresa solitamente frustrata. Si potrebbe, anzi si dovrebbe, fare una puntigliosa inchiesta con relativi paragoni tra aziende e servizi su questo enorme campionario di vessazioni, disguidi e di truffe.
Di solito queste compagnie di marpioni contano su una doppia considerazione: se l'utente è un poveraccio non ha i mezzi e le conoscenze per farsi valere; se l'utente è invece una persona abbiente e informata, non perde mezza giornata per tentare di recuperare pochi euro. E così la fanno franca, puntando sull'ignoranza e la rassegnazione, o sulla fretta e l'estenuazione degli utenti
Di tutto questo nessuno risponde, anche perché trattandosi di milioni di microcasi, isolati nella loro singolarità, non hanno rilevanza specifica. Ma diventano una rilevanza sociale se si pensa alla loro globalità. Bene, a chi rivolgersi, come reagire? Allora mi chiedo: perché non è possibile avere in questi casi lo Stato amico? Perché lo Stato deve essere solo occhiuto esattore, sottile persecutore e nemico del cittadino sulle strade e perfino in casa, nel fisco e nei controlli di polizia? Perché non può esserci anche un versante positivo dell'intervento pubblico, che faccia nascere nella realtà e nella considerazione degli italiani l'avvento di uno Stato amico? Come ci sono uffici, corpi e indagini sui cittadini, la loro fedina penale, la loro condotta fiscale, perché non si può distaccare parte dei numerosi impiegati, dirigenti e anche forze dell'ordine e della guardia di finanza a controllare e punire gli abusi di queste compagnie telefoniche, di queste banche, delle utenze internet, delle assicurazioni e così via? Perché dev'essere possibile denunciare un immigrato clandestino e non è possibile denunciare una bolletta irregolare? Perché non ci può essere uno sportello pubblico in ogni comune dedicato proprio a questo, non solo a quel che i cittadini devono dare alla cosa pubblica ma anche a quel che i cittadini si vedono defraudare da compagnie private di ventura?
Certo, mi direte che in teoria c'è già chi è preposto a questo; ma nella realtà sappiamo che i cittadini sono impotenti e abbandonati rispetto a questi pachidermi privati. Badate che non parlo di low cost o di piccole associazioni banditesche, parlo di grandi gruppi che controllano la finanza, la comunicazione, le polizze, l'hardware e il software del paese. Per non dire di società private con larghe zone d'ombra che gestiscono settori un tempo pubblici, per esempio legati alle ferrovie e all'alta velocità, allo smaltimento rifiuti e a imprese che lavorano negli aeroporti. In alcuni casi si sente odore di camorra.
Ma al di là delle ombre criminali, occorre una tutela dei cittadini dai disservizi e dalle angherie del privato. Sarebbe una gran cosa che nascesse un difensore pubblico e non solo le pur apprezzabili associazioni private di consumatori o i pur meritori programmi televisivi in questo senso. Dichiarazioni promettenti sul rapporto tra banche e sulle famiglie italiane sono state pronunciate da Tremonti. Un piccolo sforzo, Berlusconi e soci, per avviare in questo paese una rivoluzione pubblica, civile e sociale, verso uno Stato Amico. Fatevi sentire dalla nostra parte; ci guadagniamo tutti già solo in fiducia, governati e governanti.
(di Marcello Veneziani)
sabato 12 settembre 2009
Gianfranco Fini al bivio: ora scelga
Certo, non ci piace affatto un Pdl caserma, sarebbe bello vedere vera dialettica e intelligente dissenso sulle cose, ma interno al quadro di riferimento del centro-destra e non esterno; ed un dissenso non spocchioso e acido, un dissenso non mirato a indebolire il governo in carica, ma puntato a costruire, a indicare altre priorità, altri stili di vita, altre opzioni, compatibili con l`area di provenienza.
Qui siamo invece al capovolgimento delle linee guida dei partito, alla condivisione di molti obbiettivi politici dell`op posizione, all`insofferenza politica e personale, quasi al fastidio verso la leadership. Fini come Bersani sposa il nuovo esorcismo contro Berlusconi: è cominciato il suo declino, ecco la parola magica. Umanamente è comprensibile che Fini si senta schiacciato dalla personalità debordante del premier; sempre vice, sempre dietro di lui; ma bisogna anche accettare la realtà, i divari e i risultati, aver pazienza, saper conquistare la propria base elettorale sul piano dell`agire e non ottenere gradimenti pelosi dall`opposizione.
Perché la differenza vera tra Berlusconi e Fini, al di là di tutto, è sul fare. Sul dire magari Fini è più misurato, anche quando dice il contrario di quel che diceva poco tempo fa, lo dice con misura, perfino con garbo. Berlusconi invece è esagerato. Però Berlusconi fa, Fini no. Berlusconi agisce, costruisce, inventa, vince le campagne elettorali, sconfigge le armate nemiche, sopravvive a giudici, escort, stampa, foto, intercettazioni, malattie e inghippi coniugali, pugnalate amiche, assalti di ogni tipo. Fini invece agisce godendo del favore esterno, anche se ora fa la vittima. E in solitudine rispetto al suo popolo, a quel popolo che lo ha eletto e mandato in alto e a cui ha voltato le spalle. Fini viene dalla destra e va verso il nulla. Berlusconi viene dal nulla ma ha creato una realtà altrimenti impossibile nel nostro Paese: un governo, un partito di maggioranza, una leadership.
Fini è algido, Berlusconi è sanguigno. Berlusconi ha fondato dal nulla Forza Italia, e poi il Polo e la Casa della libertà, ha messo insieme cani e gatti, leghisti e nazionalisti, cattolici e laici, e infine con un colpo plateale, ha fondato il Popolo della libertà. Ha vinto tre elezioni e ha rischiato di vincere una quarta; mentre almeno in due su quattro competizioni elettorali Fini e Casini gli remavano contro o quantomeno non credevano al successo elettorale, Fini si iscrisse a un partito, il Msi, fu portato agli allori da Almirante; poi Tatarella e un gruppo di pensanti, inventò Alleanza Nazionale e a cose fatte lo chiamò alla guida; infine Berlusconi lo portò prima nel Polo e poi al governo. Uno ha fatto, l`altro si è accodato. Uno ha inventato, l`altro ha saputo presentarsi in tv. Uno è leader, l`altro è speaker. Uno governa e ha costruito molto in vita sua, da imprenditore prima che da politico; l`altro ha solo parlato, ma non ha governato neanche un piccolo comune, né ha altre esperienze professionali fuori della politica. E poi Berlusconi non ha negato il suo passato, le sue amicizie, incluso quella di Craxi. Fini da quindici anni nega le idee, le parole e gli amici del giorno prima: i neofascisti, i lepenisti, poi i conservatori, poi i cattolici, poi gli alleati, leghisti inclusi.
Da lui accusati di sostenere una legge razzista che reca il suo nome accanto a quello di Bossi. Berlusconi sbaglia quando è incauto nella sua vita privata, quando non distingue tra ricreazione e politica, quando riceve negli stessi luoghi statisti e zoccole, e non usa precauzioni nel filtrare la gente che gli entra in casa.
Dovrebbe liberarsi di tanti cortigiani, essere più selettivo, spendersi meno. Dovrebbe governare le sue ossessioni, la sua esuberanza, anche verbale. Ma fa tutto alla luce del sole, fa tutte le cose in grande, anche gli errori. Stendiamo un velo pietoso sulla vita privata d`altri leader; ma se dovessimo accettare il teorema che un leader politico va giudicato nella sua affidabilità anche dalle scelte private, verrebbero fuori paragoni non proprio esaltanti. Ma per noi il privato è il privato, e la sua incidenza sul pubblico non sarà inesistente ma nìarginale, merita rispetto, non può diventare l`argomento per privare il Paese del governo più lungo e più coeso della sua storia.
Berlusconi fa e strafà, parla e straparla, moderato nel fare, smoderato nel dire. Ma è il leader che ha conquistato sul campo la guida del Paese, che è in testa ai consensi popolari, che governa con passione efficace e ci mette l`anima nel suo lavoro. E lavora tanto, dovete riconoscerlo. Certo, esagera.
Per esempio esagera quando dice di essere il migliore presidente del Consiglio della storia d`Italia; io ne ricordo cinque o sei che hanno davvero grandeggiato nella nostra storia, ed almeno un paio nella storia della nostra Repubblica (dico De Gasperi e Craxi, perlomeno). Però è vero che Berlusconi ha governato più a lungo nel nostro Paese e già questo è significativo.
E senza avere un grande partito e una grande tradizione alle spalle, come fu la Democrazia Cristiana; lui ha fatto da sé. Volete negare che fosse solo per questo, Berlusconi è entrato nella storia, mentre altri a malapena galleggiano nella cronaca politica? Fini oggi ha due possibilità: una è quella di mettersi in proprioe continuare il suo ruolo di solista, senza più giocare questo ruolo ambiguo, super partes ma di parte. L`altra, di rivedere la sua strategia, riportare il suo dissenso dentro la realtà del suo popolo, dei suoi elettori, della loro sensibilità, criticando ma non giocando allo sfascio. La prossima mossa tocca a Fini. Berlusconi dovrebbe solo aprire le braccia, in segno di accoglienza odi rassegnazione.