A Venezia Placido è arrivato con un film intitolato Il grande sogno, che sarebbe stato quello di cambiare il mondo attraverso la contestazione. «Sto cercando un posto dove stare da solo. Voglio fare l’attore e ho bisogno di privacy» dice Nicola (Riccardo Scamarcio), pugliese di provincia arrivato di fresco a Roma come arruolato in polizia. «Privacy», negli anni Sessanta...
Ogni volta che si rievoca il ’68 viene voglia di mettere mano al revolver che non si ha. È la sentina di tutte le nostalgie, il combinato disposto di tutte le ipocrisie, l’alibi di tutti i fallimenti, il concentrato di tutti i vizi nazionali: estremismo infantile, faciloneria, doppiogiochismo... «La rivoluzione non è la diarrea» diceva Flaiano, ma il colorito giallognolo di molti di quei reduci aiuta a spiegare tante cose, carriere comprese.
Nel film di Placido c’è tutta la pappa del cuore di chi preferisce l’agiografia alla realtà: lo studente lavoratore calabrese, la secchiona cattolica che scopre le ingiustizie sociali e la ginnastica sessuale, il rivoluzionario bello e impossibile che tira le molotov, una pratica che può portare lontano, anche a essere presidente del Consiglio, come avvenne per Massimo D’Alema...
Ovviamente ci sono gli scontri e ci sono le occupazioni, i genitori che non capiscono più i loro figli, i figli che non capiscono più i loro genitori, la borghesia corrotta e la borghesia codina... Come un accelerato, Il grande sogno non si risparmia una fermata, ogni stazione è una celebrazione. Non sorprende che, avendo visto nella sala delle conferenze stampa Mario Capanna, Placido abbia ceduto al piacere di averlo accanto: narcisismo e retorica vanno sempre di pari passo.
Non sorprende nemmeno che il film sia stato prodotto dall’odiata Medusa, ma Placido, purtroppo per lui, non è Giuseppe Tornatore, a cui in fondo si perdona tutto, persino il fatto che il suo Baarìa sia piaciuto all’infame Berlusconi. Peppuccio un po’ ci ha sofferto e un po’ se n’è fatto una ragione. Placido no, ha il complesso dell’intellettuale incompreso e quello di non essere considerato per il suo valore. Anni fa, sempre qui alla Mostra del cinema, i critici lo sbertucciarono perché in Ovunque sei si era dilungato sul pisello eretto di Stefano Accorsi e l’offesa ancora non l’ha mandata giù. È per questo che deve andare oltre, ribadire che anche lui ce l’ha duro, e che naturalmente, oltre a non votare il sempre infame Cavaliere non gli piace questo governo che uccide il cinema italiano... Come il suo film, è anche lui un accelerato: ferma a tutte le stazioni del politicamente corretto
(di Stenio Solinas)
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