Sto facendo filosofia mentre sento che mi chiamate alla realtà della storia e dell’economia. Sappiamo quanti danni hanno fatto almeno negli ultimi decenni il mito e la realtà del posto fisso; è il dogma delle società inerti e ingessate, come quelle sovietiche, dove minima è la responsabilità e massima è la pigrizia, dove non conta il talento, il rischio e la duttilità ma la ripetizione, la sicurezza e la fissità. So distinguere tra la stabilità che è un valore e la staticità che è invece una iattura. La prima Repubblica, ad esempio, era statica senza essere stabile: fondata sullo statalismo e sul posto fisso, governata sempre dagli stessi partiti senza alternanza, non era però stabile, perché i governi cambiavano ogni nove mesi e gli equilibri benché anchilosati erano fragilissimi.
Non si decideva mai, si mediava di continuo. E i dipendenti pubblici erano inamovibili ma non avevano alcun senso della responsabilità loro affidata. Il posto fisso, si sa, è stato spesso l’ombrello dei nullafacenti, dei mediocri, dei parassiti. Ma Tremonti ha suggerito una verità: nei nostri anni abbiamo scambiato una necessità per un valore. Infatti lui non ha demolito la mobilità e nemmeno la flessibilità; se l’è presa con la mobilità assunta come valore in sé e non come mezzo, ruvido ma efficace, per migliorare le cose. Sappiamo che la variabilità del posto di lavoro, l’incertezza, la mutevolezza producono frustrazioni e infedeltà, solitudini e fratture sociali; ciò che migliora la produttività a volte peggiora la vivibilità e la società intera. So che è più consono nel nostro tempo l’elogio del nomade rispetto al sedentario, è più gradita la variabilità nell’era dei consumi, vincono la precarietà e la labilità rispetto alla durata e alla fedeltà; ma il nomadismo funziona finché c’è un orizzonte stabile che lo accoglie e lo garantisce.
Si può mutare ed esser liquidi dentro un quadro di solidità costanti. In una battuta, Tremonti ha liquidato Bauman e la sua società liquida. Se abbiamo davvero senso dello Stato, che già nel nome indica ciò che sta, e se crediamo davvero che una società abbia bisogno di certezze e punti fermi, come la famiglia, la città in cui si vive, la comunità in cui siamo inseriti, allora dobbiamo davvero dire che il posto fisso è un bene perché dà valore a quella continuità e a quel solido reticolo di relazioni e affetti. Il mutamento logora i rapporti, deprime le identità e i legami, sradica e sfascia le famiglie, le comunità. Non parlo pro domo mea; lo dice uno che non vive immobile col suo posto fisso nel suo luogo fisso, ma uno che è inquieto ed irrequieto, cambia continuamente luoghi e lavori, anche se non smette di scrivere.
Non è un ritorno sovietico o una nostalgia fascio-statalista di Tremonti, che mi pare davvero immune da queste tentazioni, e forse nemmeno una furbata per allargare il suo consenso a quell'Italia venuta dalla Dc, dalla destra, dallo Stato, dal Sud (a cui ha offerto anche una banca) e dal sindacato. Ma è la semplice considerazione che mutare è una necessità, a volte un desiderio, ma viene prima la persona, la famiglia, la città. Produrre è un mezzo, benedetto e necessario; ma l’essere è un fine e tutelarlo è un valore. Quella di Tremonti, beninteso, è un’apologia di Parmenide e non del dipendente fannullone. Da Brunetta il bastone, da Tremonti la carota.
(di Marcello Veneziani)
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