Le istituzioni della Serenissima avevano infatti un atteggiamento pragmatico. All’ombra di San Marco, la prostituzione non era mai stata illegale. Non era dunque vietata, bensì controllata. E un lungo proclama emanato dai Provveditori della Sanità, la commissione creata dal Consiglio dei Dieci per sovrintendere alla salute pubblica, se la prendeva soprattutto con protettori e mezzani che «desviavano povere orfane e alcune pute de necessità astrette a mendicar il viver suo», inducendole «con molte blanditie» al commercio del corpo.
Ruffiani noti a tutti
I suddetti ruffiani (e ruffiane) erano obbligati a palesare il loro mestiere, indossando abiti speciali affinché fossero riconosciuti da tutti: insomma, dovevano vestire di giallo, «sotto pena de essere frustà da San Marco a Rialto et de perpetua banda da questa terra».
Per prevenire la prostituzione, i Veneziani ricorsero a un’ulteriore soluzione pratica: una serie di asili per donne a rischio, finanziati dalla chiesa e dallo stato.
Ad accogliere le «peccatrici», che naturalmente dovevano impegnarsi a trascorrere il resto delle vita in preghiera e tra quattro mura, c’erano il Convento delle Convertite e la Casa delle Zitelle, mentre la Casa del Soccorso accoglieva le donne sposate che avevano lasciato il marito, commesso adulterio o subìto l’abbandono. Altri editti emessi a Venezia nel XVI secolo rivelavano un ulteriore motivo di preoccupazione e cioè quello che le prostitute riccamente abbigliate fossero scambiate per dame dell’alta società.
Ragion per cui si proibiva alle puttane di indossare oro, argento, seta e perle: insomma, non dovevano «addobbarsi solennemente», con l’aiuto delle solite ruffiane, per trarre in inganno i poveri forestieri che avrebbero potuto scambiarle per «Gentildonne Venetiane», notoriamente «molto gelose dell’honor suo, e specchi di onestà e di pudicitia».
Il saggio La prostituzione nella Venezia del Cinquecento di Ann Rosalind Jones fa parte di una interessante raccolta di studi, coordinati da Allison Levy, docente di Storia dell’arte presso lo University College di Londra, e vòlti a illustrare la sessualità rinascimentale non «in termini garbati», ma rivelandola «a chiare lettere» e «ponendo l’accento su quanto è singolare, perverso, clandestino e scandaloso» (Sesso nel Rinascimento. Pratica, perversione e punizione nell’Italia rinascimentale, Le Lettere, pp. 319, euro 40). Nel libro, infatti, si parla di tutto: immagini sessuali, esibizioni di genitali, falli alati, «uso dei putti nella pedagogia pederastica», corpi erotici, posizioni, accessori, accoppiamenti provocatori, partner problematici, «erotismo bisessuale nei dipinti e nella poesia burlesca», triangoli amorosi, sodomie, incesti, strumenti di tortura per peccatori, e chi più ne ha, più ne metta.
Ricche e lascive
Tante le curiosità: ad esempio, i dialoghetti in cui le cortigiane letterate e «sontuose» (insomma, che hanno fatto i soldi e godono di una prestigiosa immagine pubblica) erudiscono le principianti sui rischi del mestiere. Tanti gli scenari, come quello delle “donne alle finestre”, malviste da chi le vuole caste e modeste, pure e riservate, dunque chiuse in casa, e unicamente pensose di dedicarsi a una sana vita familiare, ben viste, invece, dai corteggiatori che cercano sguardi e segnali dalle belle affacciate al verone.
E queste belle sono spesso puttane che, in cerca di clienti, esibiscono al fiorito davanzale i loro «davanzali» altrettanto fioriti e profumati. Va detto che la “civiltà puttanesca”, celebrata nei Ragionamenti dell’Aretino contro la trattatistica ben costumata del Bembo e del Castiglione, non solo serve a distogliere gli uomini dalla sodomia (particolarmente diffusa nella Venezia del Cinquecento ed esorcizzata dal gran profluvio di tette e cosce nude nel Quartiere delle Carampane), ma è una sorta di “arte del vivere” per le cortigiane di palazzo, per le amanti di lusso e per le “favorite”.
Nel Rinascimento, «le relazioni sessuali si inserivano in più ampie reti sociali, e i rapporti extraconiugali rafforzavano i legami tra famiglie influenti» (Timothy McCall, Il commercio delle amanti a corte) e gli esempi di due favorite milanesi, Lucia Marliani e Cecilia Gallerani (la Donna con l’ermellino, dipinta da Leonardo da Vinci) evidenziano come il Ducato degli Sforza abbia sviluppato le proprie reti politiche ed egemoniche attraverso due abilissime signore che, giocando sulla bellezza e la grazia, attizzarono i piaceri dei sensi, godettero di ampi consensi e ne ottennero cospicui vantaggi, da abiti e gioielli sfarzosi a proprietà dentro e fuori le mura di Milano, non ancora “capitale morale”.
(di Mario Bernardi Guardi)
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