“Giacone, …Giacone, …Giacone… Ma dove cazzo l’ho già visto io, questo Giacone?” m’ero chiesto subito, appena lo avevo trovato – un paio d’anni fa – su un libro di Angioni (da non confondere con il generale Angioni che diresse la prima operazione italiana in Libano negli anni Ottanta, dopo Sabra e Chatila. Pure questo Angioni nostro peraltro – Michele Antonio – viene pure lui dalle forze armate, ossia è un maresciallo dell’Aeronautica in pensione che ha deciso di farsi storico della bonifica di Arborea, la mitica Mussolinia di Sardegna. Negli anni ha prodotto diverse pubblicazioni, tra cui un librone di 718 pagine he per il numero delle testimonianze, la quantità e qualità dei materiali, l’acribia delle ricostruzioni e delle argomentazioni, mette fuori gioco pure certi storici di professione).
Ora è abbastanza evidente che quando uno si metta a fare il giro di tutte le nuove fondazioni in Italia durante il fascismo, così come gli capita spesso di ritrovarci gli stessi archi, portici ed eucalypti – dice: “E vorrei vedere, scusa: ma se ne hanno fatte più di 150, mica potevano stare a cambiare 150 volte gli stili ed il tipo di piante; saranno stati fasci, ma non saranno stati proprio scemi” – così ogni tanto è pure normale che da una bonifica all’altra, da un borgo al successivo, ogni tanto capiti di imbattersi anche nelle stesse persone, lo stesso architetto, il politico, imprenditore, il federale. Vai ad Arsia e trovi lo stesso Segre di Carbonia; vai a Segezia e ritrovi Petrucci; Mazzocchi Alemanni in Sicilia e Agro Pontino. A volte ritrovi pure gli stessi operai, tecnici o gruppi di persone: gente meno famosa, per intenderci, ma che la bonifica e le città le hanno fatte con le mani loro.
Ora è abbastanza evidente che quando uno si metta a fare il giro di tutte le nuove fondazioni in Italia durante il fascismo, così come gli capita spesso di ritrovarci gli stessi archi, portici ed eucalypti – dice: “E vorrei vedere, scusa: ma se ne hanno fatte più di 150, mica potevano stare a cambiare 150 volte gli stili ed il tipo di piante; saranno stati fasci, ma non saranno stati proprio scemi” – così ogni tanto è pure normale che da una bonifica all’altra, da un borgo al successivo, ogni tanto capiti di imbattersi anche nelle stesse persone, lo stesso architetto, il politico, imprenditore, il federale. Vai ad Arsia e trovi lo stesso Segre di Carbonia; vai a Segezia e ritrovi Petrucci; Mazzocchi Alemanni in Sicilia e Agro Pontino. A volte ritrovi pure gli stessi operai, tecnici o gruppi di persone: gente meno famosa, per intenderci, ma che la bonifica e le città le hanno fatte con le mani loro.
Tra Latina ed Arborea per esempio – l’antica Littoria del 1932 e la Mussolinia di Sardegna del 1928 – pur nella assoluta differenza degli stili architettonici, le affinità e gli scambi sono molti più di uno. Innanzitutto lo stesso tipo di immigrazione colonizzatrice, fatta in ambedue i casi (Lazio e Sardegna) con famiglie patriarcali trapiantate dal Veneto. Ad Arborea inoltre c’è tuttora una “pineta Barany” (si legge Baranì, con l’accento sulla y), un bosco fitto fitto di pini, grande otto ettari, al centro del quale c’è un cippo di marmo dedicato a questo Barany: “Nessun monumento è più degno di lui”, scrive Stanis Ruinas, “di questa selva di pini nascenti, alberi italici, sempre verdi, sonanti in riva al nostro mare e in vetta ai nostri monti”, e ad Arborea-città c’è tuttora una Via Barany. Ma chi era Costui?
Camillo Hindart Barany era evidentemente uno un po’ fascista. Era nato a Paullo tra Lodi e Milano – anche se Ruinas dice a Vercelli – ed era di origini ungheresi. Il nonno se ne era venuto dall’Ungheria in Italia per andare a combattere insieme a Garibaldi con i Mille in Sicilia. Lui – Camillo, il nipote – è stato anche lui garibaldino, con quel Peppino Garibaldi figlio primogenito di Ricciotti Garibaldi, figlio del Garibaldi maggiore, in Messico e nelle Argonne[5]. Fatto prigioniero nella grande guerra, evase da un campo di concentramento austriaco e fu poi combattente nell’antiguerriglia in Tripolitania, legionario a Fiume, squadrista e Marcia su Roma. Non se ne era quindi persa una ma – tra una guerra e l’altra – per campare faceva quello che allora si chiamava “agente agrario”, cioè l’agronomo o perito che sovrintende ad un’azienda agraria di medio-grandi dimensioni. Per questo era venuto a Mussolinia di Sardegna: a fare la bonifica e ad avviare la trasformazione fondiaria. A Mussolinia si deve essere fatto voler bene, se tutti ancora oggi ne parlano con devozione.
Prima di Mussolinia, però, era già stato a Maccarese vicino Roma – a fare la bonifica di Maccarese – e dopo qualche anno a Mussolinia deve avere cambiato padrone e dalla Sbs, la Società bonifiche sarde che operava appunto a Mussolinia, deve essere passato all’Onc (Opera nazionale combattenti) per venire a fare quella di Littoria e dell’Agro Pontino. Insomma questo – a farla breve – o stava in guerra o faceva bonifiche. Tertium non datur. Ed era pure di religione ebraica. Era ebreo. Ebreo-ungherese d’origine e sul cognome esatto c’è però pure qualche ombra di incertezza. Ruinas difatti scrive Hindart Barany con la t alla fine di Hindart. Gli altri invece – internet e Cecini – scrivono Hindard con la d finale. Quale sarà? Vallo a sapere. Dice: “E che ci vuole? basterebbe approfondire solo un po’ la ricerca”. Ho capito, ma io pure ciavrei qualcos’altro da fare, a me – se permetti – mi basta pure così; se a te invece non ti basta, vattelo a fare tu st’approfondimento di ricerca. Io ho messo Hindart con la t e mi sta bene così, non solo perché mi sta simpatico Ruinas, ma soprattutto perché a Latina-Littoria negli anni Cinquanta c’era – quando ero ragazzino io, ma è rimasta in attività credo fino quasi agli anni Novanta e passa – una ferramenta molto ben fornita che si chiamava Indart. Mo’ può pure essere che quella della ferramenta non fosse che la semplicissima contrazione di Industria-Artigianato, però a me mi piace Hindart e Hindart qui rimane.
Camillo Hindart Barany comunque – qui in Agro Pontino – tra una badilata e l’altra, tra lo squadro d’un terreno e la messa a punto d’una qualche nuova tecnica colturale, mise pure su per bene la locale e neonata Compagnia CC.NN. (Camicie nere) della Milizia volontaria di sicurezza nazionale (Mvsn).
Nel 1935 però – attenzione: non è che fosse passato chissà quanto tempo, Littoria è solo del ’32, manco tre anni; ma per uno come questi, tipo Valentino Rossi ma pure Vasco fatti conto, tre anni sono un’eternità, un’era geologica – appena è scoppiata la guerra d’Abissinia non ci ha visto più: “La Patria chiama”. Mo’ lascia stare che pure agli Abissini li chiamava la patria loro; anzi, quella era proprio la patria loro ed eravamo noi gli invasori che andavano prepotentemente a sfruculiargliela: non si discute. Però nemmeno si discute che davvero noi credevamo – almeno in massa – che fosse proprio la Patria nostra a chiamarci. Questo è il dramma della condizione umana: sei perennemente condannato a vivere nel torto, pensando peraltro d’avere pure ragione. Lui comunque appena ha sentito la voce della Patria che chiamava, ha buttato per aria tutti gli strumenti e scartafacci dell’Opera combattenti sulla prima trattrice Pavesi che passava ed è corso ad arruolarsi per andare di nuovo a combattere insieme a tutta la compagnia sua. Pare sia andato a prenderli casa per casa uno a uno per tutti i poderi: “All’erta camerati, a conquistar l’Impero”. “Comandi!” hanno risposto subito tutti quanti. Non è difatti che si sia dovuto insistere troppo per trovare volontari a Littoria, anzi, a parecchi li rimandarono pure indietro: “No, siamo troppi”. A noi quelli ci avevano dato la terra, in fin dei conti, e tu manco ti volevi sdebitare andando volontario? Li abbiamo riempiti di volontari fino all’ultimo: fino alla Rsi, fino ai battaglioni “M” e alla X Mas.
Comunque – fatto sta – nel 1936 il centurione Camillo Hindart Barany muore in Abissinia nella conquista dell’Aredan, al comando della compagnia “Littoria” della divisione Camicie Nere (CC.NN.) “III gennaio”.
Camillo Hindart Barany era evidentemente uno un po’ fascista. Era nato a Paullo tra Lodi e Milano – anche se Ruinas dice a Vercelli – ed era di origini ungheresi. Il nonno se ne era venuto dall’Ungheria in Italia per andare a combattere insieme a Garibaldi con i Mille in Sicilia. Lui – Camillo, il nipote – è stato anche lui garibaldino, con quel Peppino Garibaldi figlio primogenito di Ricciotti Garibaldi, figlio del Garibaldi maggiore, in Messico e nelle Argonne[5]. Fatto prigioniero nella grande guerra, evase da un campo di concentramento austriaco e fu poi combattente nell’antiguerriglia in Tripolitania, legionario a Fiume, squadrista e Marcia su Roma. Non se ne era quindi persa una ma – tra una guerra e l’altra – per campare faceva quello che allora si chiamava “agente agrario”, cioè l’agronomo o perito che sovrintende ad un’azienda agraria di medio-grandi dimensioni. Per questo era venuto a Mussolinia di Sardegna: a fare la bonifica e ad avviare la trasformazione fondiaria. A Mussolinia si deve essere fatto voler bene, se tutti ancora oggi ne parlano con devozione.
Prima di Mussolinia, però, era già stato a Maccarese vicino Roma – a fare la bonifica di Maccarese – e dopo qualche anno a Mussolinia deve avere cambiato padrone e dalla Sbs, la Società bonifiche sarde che operava appunto a Mussolinia, deve essere passato all’Onc (Opera nazionale combattenti) per venire a fare quella di Littoria e dell’Agro Pontino. Insomma questo – a farla breve – o stava in guerra o faceva bonifiche. Tertium non datur. Ed era pure di religione ebraica. Era ebreo. Ebreo-ungherese d’origine e sul cognome esatto c’è però pure qualche ombra di incertezza. Ruinas difatti scrive Hindart Barany con la t alla fine di Hindart. Gli altri invece – internet e Cecini – scrivono Hindard con la d finale. Quale sarà? Vallo a sapere. Dice: “E che ci vuole? basterebbe approfondire solo un po’ la ricerca”. Ho capito, ma io pure ciavrei qualcos’altro da fare, a me – se permetti – mi basta pure così; se a te invece non ti basta, vattelo a fare tu st’approfondimento di ricerca. Io ho messo Hindart con la t e mi sta bene così, non solo perché mi sta simpatico Ruinas, ma soprattutto perché a Latina-Littoria negli anni Cinquanta c’era – quando ero ragazzino io, ma è rimasta in attività credo fino quasi agli anni Novanta e passa – una ferramenta molto ben fornita che si chiamava Indart. Mo’ può pure essere che quella della ferramenta non fosse che la semplicissima contrazione di Industria-Artigianato, però a me mi piace Hindart e Hindart qui rimane.
Camillo Hindart Barany comunque – qui in Agro Pontino – tra una badilata e l’altra, tra lo squadro d’un terreno e la messa a punto d’una qualche nuova tecnica colturale, mise pure su per bene la locale e neonata Compagnia CC.NN. (Camicie nere) della Milizia volontaria di sicurezza nazionale (Mvsn).
Nel 1935 però – attenzione: non è che fosse passato chissà quanto tempo, Littoria è solo del ’32, manco tre anni; ma per uno come questi, tipo Valentino Rossi ma pure Vasco fatti conto, tre anni sono un’eternità, un’era geologica – appena è scoppiata la guerra d’Abissinia non ci ha visto più: “La Patria chiama”. Mo’ lascia stare che pure agli Abissini li chiamava la patria loro; anzi, quella era proprio la patria loro ed eravamo noi gli invasori che andavano prepotentemente a sfruculiargliela: non si discute. Però nemmeno si discute che davvero noi credevamo – almeno in massa – che fosse proprio la Patria nostra a chiamarci. Questo è il dramma della condizione umana: sei perennemente condannato a vivere nel torto, pensando peraltro d’avere pure ragione. Lui comunque appena ha sentito la voce della Patria che chiamava, ha buttato per aria tutti gli strumenti e scartafacci dell’Opera combattenti sulla prima trattrice Pavesi che passava ed è corso ad arruolarsi per andare di nuovo a combattere insieme a tutta la compagnia sua. Pare sia andato a prenderli casa per casa uno a uno per tutti i poderi: “All’erta camerati, a conquistar l’Impero”. “Comandi!” hanno risposto subito tutti quanti. Non è difatti che si sia dovuto insistere troppo per trovare volontari a Littoria, anzi, a parecchi li rimandarono pure indietro: “No, siamo troppi”. A noi quelli ci avevano dato la terra, in fin dei conti, e tu manco ti volevi sdebitare andando volontario? Li abbiamo riempiti di volontari fino all’ultimo: fino alla Rsi, fino ai battaglioni “M” e alla X Mas.
Comunque – fatto sta – nel 1936 il centurione Camillo Hindart Barany muore in Abissinia nella conquista dell’Aredan, al comando della compagnia “Littoria” della divisione Camicie Nere (CC.NN.) “III gennaio”.
Era già stato ferito ad Abbi-Addi peraltro, ma dimesso dall’ospedale aveva rifiutato la regolamentare licenza di convalescenza per tornare subito a combattere con un braccio ingessato appeso al collo. E’ per questo che gli hanno dato la medaglia d’oro alla memoria e la pensione a moglie e figli. “Come fanno sennò senza di me?” doveva avere pensato (non in riferimento alla moglie e ai figli per la pensione, naturalmente, ma alle camicie nere di Littoria senza il suo comando). E così era tornato a combattere. Ingessato. E così, fino a quando non è caduto il fascismo, Littoria e Mussolinia se lo sono litigato: “E’ un eroe nostro di Mussolinia!”. “Ma che state a di’? E’ littoriano!”. E se loro gli dedicarono una strada e una pineta [nella foto sopra], noi gli nominammo subito il gruppo rionale del Partito fascista, Pnf, alle Case popolari – stava proprio nella “piazzetta” sopraelevata, dove anche c’era (e fino all’anno scorso) l’osteria “XXVIII Ottobre” – ed il Distretto militare. Sul frontone del Distretto c’era scritto proprio: “Caserma Camillo Baranj”; con la “j” però, non con la “y” come invece lo scrivono tutte le fonti a stampa (dice: “E come s’è verificato questo errore?”. Ah, non lo so. Mica so tutto. Bisognerebbe fare una ricerca. Ma non mi pare anche questa una ricerca di cui non si possa proprio fare assolutamente a meno). Dice: “Ma era ebreo”. Embe’? Mica era ancora un reato nel 1936. Tu pensa che alla guerra d’Abissinia, al seguito delle truppe vittoriose che conquisteranno poi l’impero, oltre ai cappellani cattolici come il Padre Reginaldo Giuliani – che prese pure lui la medaglia d’oro alla memoria, al valor militare – c’erano pure i rabbini, nominati di concerto tra il Rabbinato militare e l’Unione delle comunità israelitiche italiane. Tali e quali ai cappellani cattolici. Pochi – perché pochi erano gli ebrei in Italia: 30 o 40 mila al massimo su 42 milioni – ma ce n’erano.
Questa intestazione sul Distretto però, a Latina-Littoria non durò molto: appena caduto il fascio cadde pure – o meglio, lo fecero cadere – quel “Camillo Baranj” dal frontone del Distretto. Tu guarda come cambia, e in tempi così rapidi, il concetto di amor di Patria e senso civico: il giorno prima eri un eroe e il giorno dopo sei un fìdenamignotta. Aspetta un altro po’, e gli succede pure a Berlusconi. Dove vuoi che vada? E quindi a noi da Littoria ci cambiarono in Latina e giustamente noi – a Barany – ci sembrò subito più patrio o quanto meno più rassicurante preferire Goffredo Mameli. Così scrivemmo “Caserma G. Mameli” là sopra, che però – come ognun vede – è un pochino più corto di “Caserma Camillo Baranj”.
Dice: “E perché hanno scritto solo la G. e non Goffredo per intero, che sarebbe venuta uguale?”. Perché “Goffredo” per esteso avrebbe comportato la bellezza di quasi due lettere in più – calcolando la sottomisura della i di Camillo – e quindi non ci sarebbe più entrata nel frontone.
Tutto questo comunque – e cioè il cambio di nome alla caserma del Distretto – è successo prima ch’io nascessi e quindi da ragazzino, quando passavo là sotto, mi chiedevo semplicemente ogni volta: “Ma com’è che sta scritta l’hanno fatta storta?”. Stava tutta da una parte, poverina, con un sacco di spazio in più che le avanzava a destra, dove pure si percepivano – poiché erano state coperte male – le tracce informi di qualcosa che doveva esserci stato prima: “Si debbono essere sbagliati”, pensavo.
Dice: “E perché hanno scritto solo la G. e non Goffredo per intero, che sarebbe venuta uguale?”. Perché “Goffredo” per esteso avrebbe comportato la bellezza di quasi due lettere in più – calcolando la sottomisura della i di Camillo – e quindi non ci sarebbe più entrata nel frontone.
Tutto questo comunque – e cioè il cambio di nome alla caserma del Distretto – è successo prima ch’io nascessi e quindi da ragazzino, quando passavo là sotto, mi chiedevo semplicemente ogni volta: “Ma com’è che sta scritta l’hanno fatta storta?”. Stava tutta da una parte, poverina, con un sacco di spazio in più che le avanzava a destra, dove pure si percepivano – poiché erano state coperte male – le tracce informi di qualcosa che doveva esserci stato prima: “Si debbono essere sbagliati”, pensavo.
Mo’ però hanno risolto tutto: hanno cancellato anche Mameli. Dice: “E chi è stato?”. I postfasci di Latina. Dice: “Ah, vabbe’: ci hanno rimesso Barany?”. Sì, beato a te, ma che sei scemo? Dovevano restaurare l’edificio del Distretto perché era un po’ vecchio e malandato, e poi il distretto militare adesso non c’è più – non c’è più la naja, figurati i distretti – e l’hanno accorpato a Roma. Qui adesso ci abbiamo messo la facoltà di ingegneria della cosiddetta Università Pontina, che altro non è – come tutti sanno – che una succursale della Sapienza di Roma. Un’università di scorta. Dove ci sta un mare di professori “opzionati” o “incaricati”. Il giorno che davvero mettono una cattedra a concorso, viene giù tutta Latina. Il terremoto. Oppure sbarcano gli Ufo. Tu pensa che c’è un corso di laurea chiamato proprio “Ingegneria Ambientale”. A Latina. Che è l’esempio vivente delle modifiche ambientali e degli interventi bonificatori dell’uomo sulla natura più avversa. Dice: “Be’, è pure giusto”. Ah, sì? Però lì non c’è un solo insegnamento, corso, o cattedra di storia del paesaggio agrario o urbano, o storia delle bonifiche e della bonifica pontina in particolare, o storia delle città di fondazione o di quello che ti pare a te, legato comunque a questa specifica modifica ambientale. Tu dimmi quindi che razza di “Ingegneria Ambientale” è questa, se ai neo-ingegneri “ambientali” che sforna, non gli ha fatto nemmeno studiare come s’era prodotto e modificato l’ambiente in cui essa stessa Università e i suoi studenti stanno. Ma che stai a ambienta’, allora: le lune di Plutone?
Comunque abbiamo restaurato il Distretto per darlo all’università, e questo è un fatto. In realtà più che di un restauro si è trattato di un recupero – almeno negli interni – perché i soldi erano pochi e l’architetto se li è dovuti far bastare: ha salvato i materiali originari dove ha potuto, ma dove non ha potuto ci ha messo il cartongesso. Sulla scritta però dice: “Io non c’entro: l’avevano levata già prima”. Sarà stato qualche ufficio. Il dramma però è che le iscrizioni di un edificio sono parte integrante del monumento e, se tu le tocchi, tocchi l’autenticità e il valore storico del monumento stesso. I primi che dovrebbero saperlo, oltre tutto, sono proprio i post-aennini, che si incazzano ancora perché dopo il 25 luglio gli tolsero i fasci da tutti i muri: “La damnatio memoriae!”. Ma anche Cristo disse: “Non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te”.
Comunque abbiamo restaurato il Distretto per darlo all’università, e questo è un fatto. In realtà più che di un restauro si è trattato di un recupero – almeno negli interni – perché i soldi erano pochi e l’architetto se li è dovuti far bastare: ha salvato i materiali originari dove ha potuto, ma dove non ha potuto ci ha messo il cartongesso. Sulla scritta però dice: “Io non c’entro: l’avevano levata già prima”. Sarà stato qualche ufficio. Il dramma però è che le iscrizioni di un edificio sono parte integrante del monumento e, se tu le tocchi, tocchi l’autenticità e il valore storico del monumento stesso. I primi che dovrebbero saperlo, oltre tutto, sono proprio i post-aennini, che si incazzano ancora perché dopo il 25 luglio gli tolsero i fasci da tutti i muri: “La damnatio memoriae!”. Ma anche Cristo disse: “Non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te”.
Loro invece – all’ex Distretto militare ora Ingegneria – hanno tolto tutte le iscrizioni che avevano campeggiato per anni sulla facciata principale. Hanno tolto la targa di marmo “Distretto” che stava a fianco all’ingresso e hanno tolto pure la scritta grossa sul frontone in cima al tetto “Caserma G. Mameli”, dando pure una bella ripulita alle tracce vecchie ma che ancora si vedevano, avanzate dal “Baranj”. Mo’ non c’è più niente. Tabula rasa. Tutto bello bianco. Dice: “Vabbe’, ma manco ci sta più il Distretto e se non c’è più né distretto e né caserma, perché ci dovrebbero lasciare scritto sopra: Distretto e Caserma? Mo’ c’è un’altra cosa”. Ho capito, ma manco al Pantheon a Roma non c’è più il Pantheon di Marco Vipsanio Agrippa. Anzi, dentro ci stanno le tombe dei Savoia. E allora tu che fai adesso: levi la scritta di Vipsanio Agrippa e ci metti quella di Alemanno e dei Savoia?
Ma non è tutto: sui libri ufficiali dei postfasci di Latina – assessorato provinciale alla cultura in primis che ci ha messo i soldi e l’imprimatur – c’è scritto che progettista del Distretto (ora Ingegneria) sarebbe stato l’architetto Ernesto Caldarelli, che avrebbe progettato anche la Questura e l’Istituto tecnico commerciale “Vittorio Veneto”. Ora sul Vittorio Veneto non ci sono dubbi: questo sì lo ha progettato proprio l’architetto Caldarelli ma – sul piano estetico – chiunque ci passi davanti si rende conto che tra lui e i primi due c’è un abisso. Mentre il Vittorio Veneto è difatti ampolloso, pesante e retorico, il Distretto e soprattutto la Questura sono di un’altra consistenza estetica, con leggerezza di forme e assoluta purezza di disegno. E difatti non sono opere dell’architetto Caldarelli bensì di un altro, e cioè dell’ingegnere Olindo Ricci, come già appurato nel 1995 da Annibale Folchi che consultò i documenti d’archivio. Ergo, nel caso che a un qualunque studente di ingegneria a Latina venisse comunque e per conto suo la voglia di andarsi a studiare un po’ di storia della città e della sua fondazione, quello che imparerebbe dai testi ufficial-cittadini di riferimento è che la sua attuale facoltà di ingegneria – benché si tratti in realtà di un ottimo prodotto di architettura dell’ottimo ingegnere e suo collega Olindo Ricci – è invece opera di un architetto, ossia Caldarelli. E se lo interrogano all’esame ci giura pure sopra. Dice: “Vabbe’, ma che ti frega a te? So’ affari del Preside in fin dei conti”. Vero. Però su quei muri – insieme alle lapidi dell’ingresso e alle iscrizioni sul frontone sia vecchie che nuove – stava scritta non solo la storia intera dell’edificio, ma quella delle varie fasi che ha attraversato la città, damnatio memoriae compresa. Mo’ tu ne hai fatta una carta bianca – non c’è più niente – e tra qualche anno, quando saremo morti anche gli ultimi che andavamo lì, a farci controfirmare le licenze dall’ufficiale di picchetto, nessuno saprà mai che lì dentro c’era una volta il distretto militare e, dentro le aule in cui adesso formi i nuovi ingegneri, c’erano le camerate con le brande in cui dormivano i soldati e, la notte, piovevano anche i gavettoni sulle reclute. Di fianco però – sulla facciata verso l’ex campo profughi – con le lettere di marmo a mezza altezza sulla cortina di mattoni, ora hanno scritto di bel nuovo: “Facoltà di Ingegneria”. Hanno usato i caratteri d’epoca – fasci, diciamo – in giusto tono con il monumento e così, tra qualche anno, chiunque passerà di lì non potrà non essere indotto a pensare che a Latina la facoltà di Ingegneria, ed esattamente in quel posto, ce l’aveva già messa il Duce appena fondata Littoria. A meno che non pensi – visto come insegniamo ai giovani la storia – che tutta Latina, insieme a ingegneria, sia stata fondata l’altro giorno da Silvio Berlusconi e dal sindaco Zaccheo.
Ma non è tutto: sui libri ufficiali dei postfasci di Latina – assessorato provinciale alla cultura in primis che ci ha messo i soldi e l’imprimatur – c’è scritto che progettista del Distretto (ora Ingegneria) sarebbe stato l’architetto Ernesto Caldarelli, che avrebbe progettato anche la Questura e l’Istituto tecnico commerciale “Vittorio Veneto”. Ora sul Vittorio Veneto non ci sono dubbi: questo sì lo ha progettato proprio l’architetto Caldarelli ma – sul piano estetico – chiunque ci passi davanti si rende conto che tra lui e i primi due c’è un abisso. Mentre il Vittorio Veneto è difatti ampolloso, pesante e retorico, il Distretto e soprattutto la Questura sono di un’altra consistenza estetica, con leggerezza di forme e assoluta purezza di disegno. E difatti non sono opere dell’architetto Caldarelli bensì di un altro, e cioè dell’ingegnere Olindo Ricci, come già appurato nel 1995 da Annibale Folchi che consultò i documenti d’archivio. Ergo, nel caso che a un qualunque studente di ingegneria a Latina venisse comunque e per conto suo la voglia di andarsi a studiare un po’ di storia della città e della sua fondazione, quello che imparerebbe dai testi ufficial-cittadini di riferimento è che la sua attuale facoltà di ingegneria – benché si tratti in realtà di un ottimo prodotto di architettura dell’ottimo ingegnere e suo collega Olindo Ricci – è invece opera di un architetto, ossia Caldarelli. E se lo interrogano all’esame ci giura pure sopra. Dice: “Vabbe’, ma che ti frega a te? So’ affari del Preside in fin dei conti”. Vero. Però su quei muri – insieme alle lapidi dell’ingresso e alle iscrizioni sul frontone sia vecchie che nuove – stava scritta non solo la storia intera dell’edificio, ma quella delle varie fasi che ha attraversato la città, damnatio memoriae compresa. Mo’ tu ne hai fatta una carta bianca – non c’è più niente – e tra qualche anno, quando saremo morti anche gli ultimi che andavamo lì, a farci controfirmare le licenze dall’ufficiale di picchetto, nessuno saprà mai che lì dentro c’era una volta il distretto militare e, dentro le aule in cui adesso formi i nuovi ingegneri, c’erano le camerate con le brande in cui dormivano i soldati e, la notte, piovevano anche i gavettoni sulle reclute. Di fianco però – sulla facciata verso l’ex campo profughi – con le lettere di marmo a mezza altezza sulla cortina di mattoni, ora hanno scritto di bel nuovo: “Facoltà di Ingegneria”. Hanno usato i caratteri d’epoca – fasci, diciamo – in giusto tono con il monumento e così, tra qualche anno, chiunque passerà di lì non potrà non essere indotto a pensare che a Latina la facoltà di Ingegneria, ed esattamente in quel posto, ce l’aveva già messa il Duce appena fondata Littoria. A meno che non pensi – visto come insegniamo ai giovani la storia – che tutta Latina, insieme a ingegneria, sia stata fondata l’altro giorno da Silvio Berlusconi e dal sindaco Zaccheo.
Negli ultimi mesi, infine, a Latina-Littoria abbiamo rimesso a posto anche il centralissimo edificio costruito nel 1934 dalla Riunione Adriatica di Sicurtà – una compagnia assicuratrice – sulla piazza della Prefettura. Era un bell’edificio anche questo, giocato sul contrasto tra intonaci e cortine di mattoni. Sulle facciate c’era giustamente anche qui, come usava allora e come è rimasta per oltre settant’anni, un’altra bella scritta con le lettere grosse di marmo, destinate a ricordare a tutti – ai vivi e contemporanei, ma pure ai posteri – l’evergetica compagnia: “Riunione Adriatica di Sicurtà”, appunto. Che pure lì, quando ci passavo sotto da ragazzino, non facevo che chiedermi: “Ma che vuol dire?”. Comunque adesso le hanno levate anche lì, e le scritte non ci sono più. Pare che la Riunione Adriatica di Sicurtà abbia man mano venduto tutti gli appartamenti – non sono più i suoi – e quindi loro hanno levato anche la scritta: “Il padrone so’ io adesso”. E il comune non gli ha detto niente. Dice: “Ma a Latina non c’è una Soprintendenza?”. Sì, la Soprintendenza. Ma beato a te e le Soprintendenze. Aspetta che arrivi a Roma qualcuno di Latina, e vedrai se non siamo davvero capaci di andare a levare Marco Vipsanio Agrippa da là sopra: “Mica è più tuo st’appartamento”.
Dice: “Vabbe’, ma il gruppo rionale Barany invece, che fine ha fatto?”.
Ah, m’ero scordato.
Pure quello naturalmente – il gruppo rionale del partito fascista alle Case popolari di Littoria, sulla piazzetta che adesso chiamano “Nicolosi” – è durato poco. Anzi, ancora meno del Distretto. Mica ci potevamo tenere, del resto, un “gruppo rionale del Pnf”. Siamo seri. Subito dopo il 25 luglio 1943, però, nessuno lo aveva toccato per più di una settimana. Nessuno difatti a Littoria ha toccato assolutamente niente il 25 luglio, manco un fascio sopra i muri, manco un busto del Duce. Gli unici in tutta Italia, sempre per la storia del debito e della terra, evidentemente. Gli altri già dalla mattina alle sei stavano con le mazzette e gli scalpelli. E quindi nessuno ha toccato nemmeno la sede del “gruppo Barany”.
Ma dopo una settimana e visto che nessuno peraltro veniva nemmeno a riaprirselo – e sentito soprattutto che da dietro la saracinesca usciva un fortissimo odore come di formaggio che aveva già inondato tutta la piazzetta, mentre in giro dappertutto c’era una fame, la fame di guerra, che ti correva appresso – le donne della Case popolari si sono date tutte una voce e hanno buttato giù la porta. E dentro era pieno di forme di formaggio grana, provolone e parmigiano. Pieno in ogni stanza. E loro hanno fatto provvista. Pareva l’assalto al forno di Renzo Tramaglino. I Promessi sposi. Con la gente che strillava: “Guarda questi qua: noi a morire di fame e loro a nascondersi il formaggio”.
“Poi vai a sapere”, dice Alfio Calcagnini mentre lo racconta – lui era un ragazzetto allora, abitava proprio lì vicino – anche se è comunista: “Magari lo tenevano lì per una distribuzione”.
Dice: “Vabbe’, ma il gruppo rionale Barany invece, che fine ha fatto?”.
Ah, m’ero scordato.
Pure quello naturalmente – il gruppo rionale del partito fascista alle Case popolari di Littoria, sulla piazzetta che adesso chiamano “Nicolosi” – è durato poco. Anzi, ancora meno del Distretto. Mica ci potevamo tenere, del resto, un “gruppo rionale del Pnf”. Siamo seri. Subito dopo il 25 luglio 1943, però, nessuno lo aveva toccato per più di una settimana. Nessuno difatti a Littoria ha toccato assolutamente niente il 25 luglio, manco un fascio sopra i muri, manco un busto del Duce. Gli unici in tutta Italia, sempre per la storia del debito e della terra, evidentemente. Gli altri già dalla mattina alle sei stavano con le mazzette e gli scalpelli. E quindi nessuno ha toccato nemmeno la sede del “gruppo Barany”.
Ma dopo una settimana e visto che nessuno peraltro veniva nemmeno a riaprirselo – e sentito soprattutto che da dietro la saracinesca usciva un fortissimo odore come di formaggio che aveva già inondato tutta la piazzetta, mentre in giro dappertutto c’era una fame, la fame di guerra, che ti correva appresso – le donne della Case popolari si sono date tutte una voce e hanno buttato giù la porta. E dentro era pieno di forme di formaggio grana, provolone e parmigiano. Pieno in ogni stanza. E loro hanno fatto provvista. Pareva l’assalto al forno di Renzo Tramaglino. I Promessi sposi. Con la gente che strillava: “Guarda questi qua: noi a morire di fame e loro a nascondersi il formaggio”.
“Poi vai a sapere”, dice Alfio Calcagnini mentre lo racconta – lui era un ragazzetto allora, abitava proprio lì vicino – anche se è comunista: “Magari lo tenevano lì per una distribuzione”.
Ora è chiaro che Barany non c’entri niente con la storia del formaggio. E’ chiaro anche che tu non ti potevi tenere per forza e fino a adesso – e per tutti i secoli dei secoli che verranno – un gruppo rionale del Pnf o un Distretto militare. La storia va avanti. Certe cose prima servono e dopo non servono più. Te ne devi liberare e andare avanti. Però è anche chiaro che questo Camillo Barany, qualche cosa a questa città l’aveva data. Mo’ non sarà stato giusto e sarà stato sicuramente sbagliato, però quando questo è morto in Africa stava alla testa di centinaia di soldati-contadini littoriani come lui. C’erano pure i miei zii là in mezzo e chissà quanti nonni e zii – bonificatori dell’Agro Pontino e fondatori di Latina-Littoria – di tutti noi. Sono i nostri Antenati. Lares et Penates. E ad Arborea già Mussolinia di Sardegna c’è ancora una via e una pineta – con una stele in mezzo – a ricordare ai posteri Camillo Barany. Noi lo abbiamo scancellato dappertutto. Dice: “Era un fascista”. Ho capito. Però è un mio Antenato. E come diceva mio zio Adelchi colono veneto, che aveva combattuto con lui in Africa Orientale: “Povero Barany: se fosse campato solo altri due anni, magari lo copévimo diretamente nantri”. Le leggi razziali. Prima lo cacciavamo dal partito e poi dall’Opera combattenti – “Licenziato!” – e quando poi s’è fatta l’ora buia, magari, caricavamo davvero pure lui e la sua famiglia su un vagone piombato per Mauthausen. Poi dice l’infamità.
Tornando ad Arborea, c’è una terza consonanza che la lega però – nell’anima e nel Genius loci – a Latina, ed è costituita dalla cura religiosa dei salesiani. A Mussolinia-Arborea arrivano difatti nel 1936 e mettono in piedi quella che è tuttora l’unica parrocchia; in fin dei conti sono solo 4mila abitanti.
A Latina invece siamo 120mila e le chiese oramai si sprecano, ma fino a metà degli anni Cinquanta c’è stata solo S. Marco, retta dai salesiani arrivati nel 1933, ed è attorno a loro – nel bene e nel male, perché ancora mi ricordo quando facevo il chierichetto la domenica mattina e dopo la messa delle 11, in sagrestia, mentre noi ci sbrigavamo a togliere i paramenti al parroco per poterci togliere anche noi le tonache e scappare, arrivava sempre e regolarmente il sindaco (Dc) a prendere gli ordini e farci perdere tempo: lui si inginocchiava e ripeteva per filo e per segno tutto quello che avevano fatto o che stavano per fare e il parroco, don Angelo, lo mazzolava bene bene “Questo sì e questo no” e quello rifaceva umile: “Sì sì, don A’, va bene” – che s’è costruita la comunità.
Il fascio in fin dei conti era durato solo una decina d’anni – dal ’32 al ’43 – ma i preti sono durati sempre e tutti andavamo all’oratorio: recite, serate, gite, giochi, la colonia al mare di Rio Martino, il cinema, il teatro. E lo stesso deve essere stato ad Arborea – lo stesso background dovevano avere in fin dei conti pure quei salesiani – e le stesse canzoni dobbiamo aver cantato tutte e due le comunità: prima Fuoco di Vesta e Giovinezza, poi Valsugana e Mazzolin di fiori, Tantum ergo e: “Don Bosco ritorna / fra i giovani ancor, / ti aspettan frementi / di gioia e d’amor”.
E difatti pure ad Arborea, come a Latina, c’è la statua di Maria Ausiliatrice in piazza e quella di Don Bosco con a fianco San Domenico Savio in chiesa. Anzi, un quadro con Don Bosco e San Domenico Savio l’ho trovato pure in una sala parrocchiale, dentro la canonica, a Borgo Cervaro in Puglia, nel Foggiano, vicino Segezia, e ricordo che quando l’ho visto mi si è stretto il cuore, perchè sull’altra parete della stanza, quella di fronte a Don Bosco, c’era pure Santa Maria Goretti: i santi nostri, Santa Maria Goretti soprattutto, che anche se non ci credo più, però quando li vedo così, lontani da casa, mi pare proprio d’essere tornato a casa, nella casa che adesso non c’è più e che ho abitato da bambino.
E questi, ad Arborea, hanno ancora la “grotta di Lourdes”, un montarozzo di pietre – il nostro era di tufo – con la grotticella e le statuine di marmo della Madonna e dei tre pastorelli. Ce l’avevamo pure noi a S. Marco la grotta, dentro il recinto dell’oratorio – proprio di fianco alla chiesa – e prima di iniziare a giocare ci facevano dire le preghiere, e lì davanti si pregava ogni volta prima della partenza per le gite, sui pullmann sgangherati blu dell’Atal, Azienda trasporti automobilistici Littoria, prima, e Latina poi, le corriere che avevano il rimorchio. E lì davanti, ogni anno, il fotografo ci scattava la foto di gruppo, con tutti noi arrampicati sulle panche o sulla grotta, e i preti davanti.
Ad Arborea ce l’hanno ancora. A Latina l’abbiamo buttata giù la grotta. Demolita. Per fare posto a un campetto di basket. Del resto faceva un po’ troppo folklore “paesano”, provinciale. Oramai S. Marco è cattedrale e hanno buttato giù pure l’altare che aveva fatto il Duce, e i marmi bianchi e neri che aveva messo lui, e la balaustra e il pulpito. Abbiamo rifatto tutto moderno, coi marmi colorati e gli ori di lusso. Mica siamo Arborea. E a me mi si è ristretto il cuore – proprio un tuffo, un llanto – quando di fianco alla chiesa all’improvviso, a Mussolinia di Sardegna ora Arborea, mi sono ritrovato davanti alla grotta di Lourdes. Mi pareva proprio di stare lì di nuovo ad aspettare da un momento all’altro, coi calzoncini corti e i sandaletti ai piedi, che arrivasse la corriera col rimorchio per portarci in colonia a Rio Martino e di sentirmi proprio sbattere sul fianco, nella sacchetta di tela a tracollo, il pane e la frittata preparatimi da mia madre.
(Dice: “Ma questo è pensiero nostalgico!”. E sarà quello che ti pare a te, che me ne frega a me? Io sono d’accordo con Antonio Pascale, e Scienza e sentimento è un libro che si dovrebbe far studiare a forza in ogni scuola. Pure alle elementari e alle veline: i pomodori di adesso sono difatti meglio di quelli di una volta, non si discute. E se Pascale vuole, vengo pure io sotto casa di Citati a fare una dimostrazione coi cartelli “Viva i pomodori di adesso”. Quello sì è “pensiero nostalgico” ed anche io sono per il “pensiero scientifico”: non esiste una età dell’oro, perduta nel passato. Il passato – a guardarlo da vicino – è sempre peggio del presente. L’età dell’oro sta nel futuro – se ci sta – ed è legata solo al progresso scientifico. Però anche io non sono che un piccolo uomo legato alle sue debolezze: che male vi fo, direbbe Trilussa, se ancora rivoglio pur non credendoci – o almeno non credendoci più come allora – le scritte sui muri e le grotte di Lourdes? E poi diciamocela tutta: Antonio Pascale ha sicuramente ragione sui pomodori, sulle patate e su tutto il resto. Non si discute. E la prossima volta, alle primarie, voto Pascale. Ma sui cocomeri no però, puttanaeva: i cocomeri non sono più quelli di una volta, compagni. Non mi state a raccontare le fregnacce: i cocomeri d’adesso fanno schifo, “slavarìa”,, come si dice in veneto, acqua slavata, sciacquatura di piatti. ‘Nzanno de gnènte. Vuoi mettere i cocomeri di una volta dell’Agro Pontino, col succo zuccherino che ti si attaccava su tutta la faccia e il collo? Vattelo a mangia’ mo’, un cocomero).
Tornando ad Arborea, c’è una terza consonanza che la lega però – nell’anima e nel Genius loci – a Latina, ed è costituita dalla cura religiosa dei salesiani. A Mussolinia-Arborea arrivano difatti nel 1936 e mettono in piedi quella che è tuttora l’unica parrocchia; in fin dei conti sono solo 4mila abitanti.
A Latina invece siamo 120mila e le chiese oramai si sprecano, ma fino a metà degli anni Cinquanta c’è stata solo S. Marco, retta dai salesiani arrivati nel 1933, ed è attorno a loro – nel bene e nel male, perché ancora mi ricordo quando facevo il chierichetto la domenica mattina e dopo la messa delle 11, in sagrestia, mentre noi ci sbrigavamo a togliere i paramenti al parroco per poterci togliere anche noi le tonache e scappare, arrivava sempre e regolarmente il sindaco (Dc) a prendere gli ordini e farci perdere tempo: lui si inginocchiava e ripeteva per filo e per segno tutto quello che avevano fatto o che stavano per fare e il parroco, don Angelo, lo mazzolava bene bene “Questo sì e questo no” e quello rifaceva umile: “Sì sì, don A’, va bene” – che s’è costruita la comunità.
Il fascio in fin dei conti era durato solo una decina d’anni – dal ’32 al ’43 – ma i preti sono durati sempre e tutti andavamo all’oratorio: recite, serate, gite, giochi, la colonia al mare di Rio Martino, il cinema, il teatro. E lo stesso deve essere stato ad Arborea – lo stesso background dovevano avere in fin dei conti pure quei salesiani – e le stesse canzoni dobbiamo aver cantato tutte e due le comunità: prima Fuoco di Vesta e Giovinezza, poi Valsugana e Mazzolin di fiori, Tantum ergo e: “Don Bosco ritorna / fra i giovani ancor, / ti aspettan frementi / di gioia e d’amor”.
E difatti pure ad Arborea, come a Latina, c’è la statua di Maria Ausiliatrice in piazza e quella di Don Bosco con a fianco San Domenico Savio in chiesa. Anzi, un quadro con Don Bosco e San Domenico Savio l’ho trovato pure in una sala parrocchiale, dentro la canonica, a Borgo Cervaro in Puglia, nel Foggiano, vicino Segezia, e ricordo che quando l’ho visto mi si è stretto il cuore, perchè sull’altra parete della stanza, quella di fronte a Don Bosco, c’era pure Santa Maria Goretti: i santi nostri, Santa Maria Goretti soprattutto, che anche se non ci credo più, però quando li vedo così, lontani da casa, mi pare proprio d’essere tornato a casa, nella casa che adesso non c’è più e che ho abitato da bambino.
E questi, ad Arborea, hanno ancora la “grotta di Lourdes”, un montarozzo di pietre – il nostro era di tufo – con la grotticella e le statuine di marmo della Madonna e dei tre pastorelli. Ce l’avevamo pure noi a S. Marco la grotta, dentro il recinto dell’oratorio – proprio di fianco alla chiesa – e prima di iniziare a giocare ci facevano dire le preghiere, e lì davanti si pregava ogni volta prima della partenza per le gite, sui pullmann sgangherati blu dell’Atal, Azienda trasporti automobilistici Littoria, prima, e Latina poi, le corriere che avevano il rimorchio. E lì davanti, ogni anno, il fotografo ci scattava la foto di gruppo, con tutti noi arrampicati sulle panche o sulla grotta, e i preti davanti.
Ad Arborea ce l’hanno ancora. A Latina l’abbiamo buttata giù la grotta. Demolita. Per fare posto a un campetto di basket. Del resto faceva un po’ troppo folklore “paesano”, provinciale. Oramai S. Marco è cattedrale e hanno buttato giù pure l’altare che aveva fatto il Duce, e i marmi bianchi e neri che aveva messo lui, e la balaustra e il pulpito. Abbiamo rifatto tutto moderno, coi marmi colorati e gli ori di lusso. Mica siamo Arborea. E a me mi si è ristretto il cuore – proprio un tuffo, un llanto – quando di fianco alla chiesa all’improvviso, a Mussolinia di Sardegna ora Arborea, mi sono ritrovato davanti alla grotta di Lourdes. Mi pareva proprio di stare lì di nuovo ad aspettare da un momento all’altro, coi calzoncini corti e i sandaletti ai piedi, che arrivasse la corriera col rimorchio per portarci in colonia a Rio Martino e di sentirmi proprio sbattere sul fianco, nella sacchetta di tela a tracollo, il pane e la frittata preparatimi da mia madre.
(Dice: “Ma questo è pensiero nostalgico!”. E sarà quello che ti pare a te, che me ne frega a me? Io sono d’accordo con Antonio Pascale, e Scienza e sentimento è un libro che si dovrebbe far studiare a forza in ogni scuola. Pure alle elementari e alle veline: i pomodori di adesso sono difatti meglio di quelli di una volta, non si discute. E se Pascale vuole, vengo pure io sotto casa di Citati a fare una dimostrazione coi cartelli “Viva i pomodori di adesso”. Quello sì è “pensiero nostalgico” ed anche io sono per il “pensiero scientifico”: non esiste una età dell’oro, perduta nel passato. Il passato – a guardarlo da vicino – è sempre peggio del presente. L’età dell’oro sta nel futuro – se ci sta – ed è legata solo al progresso scientifico. Però anche io non sono che un piccolo uomo legato alle sue debolezze: che male vi fo, direbbe Trilussa, se ancora rivoglio pur non credendoci – o almeno non credendoci più come allora – le scritte sui muri e le grotte di Lourdes? E poi diciamocela tutta: Antonio Pascale ha sicuramente ragione sui pomodori, sulle patate e su tutto il resto. Non si discute. E la prossima volta, alle primarie, voto Pascale. Ma sui cocomeri no però, puttanaeva: i cocomeri non sono più quelli di una volta, compagni. Non mi state a raccontare le fregnacce: i cocomeri d’adesso fanno schifo, “slavarìa”,, come si dice in veneto, acqua slavata, sciacquatura di piatti. ‘Nzanno de gnènte. Vuoi mettere i cocomeri di una volta dell’Agro Pontino, col succo zuccherino che ti si attaccava su tutta la faccia e il collo? Vattelo a mangia’ mo’, un cocomero).
Dice: “Sì vabbe’, ma per quel Giacone che nominavi all’inizio?”. Ahò, e per Giacone evidentemente non c’è più tempo. Ne riparliamo la prossima volta.
(di Antonio Pennacchi - fonte: http://www.mirorenzaglia.org/)
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