venerdì 13 novembre 2009

Strappare l’architettura agli architetti

«Prova a immaginare te stesso dentro l’architettura che hai progettato: ti ci senti bene?». Quando il professor Nikos Salingaros pone questa domanda ai laureandi di architettura nell’università del Texas dove insegna, i giovani sbalordiscono: nulla di ciò che gli è stato insegnato nei quattro anni precedenti li ha preparati a porsi una simile questione. Anzi.
Salingaros è in Italia per presentare il suo volume «No alle Archistar», della Libreria Editrice Fiorentina. Le Archistar sono gli architetti strapagati e acchiappa-tutto nei grandi progetti internazionali. Da tempo Salingaros, matematico per formazione, li accusa non solo di essere gli esponenti di un’architettura malata, ma che fa anche male alla salute fisica, psichica e spirituale dell’uomo.
A Roma, ho assistito a una conferenza-stampa del professore. Poichè erano presenti più architetti che giornalisti (e pochi studenti muti di domande, probabilmente esterrefatti di ascoltare il contrario di ciò che si sono sentiti insegnare), hanno finito per parlarsi tra loro. E francamente, rinunciando alla lingua di legno delle riviste di architettura. Cos’hanno detto?
Tutti d’accordo, visto che pochi sentivano, che occorre «riportare l’uomo al centro della progettazione». Che bisogna tornare a «progettare la normalità» e non le stravaganze. O anche che (Wittfrida Mitterer, direttrice della rivista Bio-Architettura) che «le architetture tradizionali sono di per sè eco-sostenibili», intendendo proprio le architetture popolari («vernacolari»), non foss’altro perchè usano materiali locali e sono adeguate al clima locale, oltre che alla cultura umana del luogo.
Perchè allora non si costruiscono case tradizionali? Un problema è che per quelle c’è bisogno di artigiani, e gli artigiani «ormai sono rarissimi, e perciò carissimi». In compenso, abbiamo abbondanza di architetti laureati. In Italia, ha rivelato Amedeo Schiattarella, presidente dell’Ordine di Roma, c’è un architetto ogni 400 abitanti. Viene il sospetto che esista un rapporto diretto tra la densità di architetti e la densità di orrori edilizi che ci occupano i nostri suoli. Ma forse no; all’estero, i nostri studenti d’architettura sono ben considerati, hanno cultura (forse hanno studiato storia dell’arte, si spera), e sono per lo più sottoccupati: gli enti pubblici non hanno in mente che le archistar straniere.
Il fatto è che i nostri studenti non hanno pratica. La professoressa Mitterer, che insegna anche in Austria, dice che a Vienna gli studenti vengono mandati nei cantieri già nei primi sei mesi: anche per aiutarli a capire se hanno scelto la strada giusta o no. I nostri, nei cantieri non vanno mai.
Tristi assensi riscuote l’ammissione che Bernini non è uscito dalla facoltà di architettura, eppure se l’è cavata non male nel progetto di San Pietro, collonnato e tutto. Anzi, nè i costruttori di cattedrali, nè quelli che fecero le terme di Diocleziano, nè uno dei grandie edifici del nostro passato artistico, hanno mai frequentato una università. Spesso non ne sappiamo i nomi, perchè essi stessi si consideravano non più che artigiani. Nulla del divisimo sprezzante dei Fuksas, dei Piano, dei Libeskind.
E poi un intermezzo satirico: «Le archistar non abitano negli edifici che costruiscono». Si scelgono (ne hanno i mezzi) antichi palazzi storici. Per esempio: Gregotti, autore dell’orribile quartiere Zen di Palermo, covo di malattie morali e patibolari, fu beccato tempo fa da quei «mascalzoni» di «Le Iene» in casa sua: un palazzo ottocentesco al centro di Roma con affreschi alle pareti, fontane (alcune delle cose che non si fanno più perchè mancano gli artigiani) e decine di stanze.
«Il quartiere Zen è bellissimo», ha insistito Gregotti con Lucci (la Iena) che lo intervistava, «Ma lei ci vivrebbe?», incalza la iena. La risposta: «Io non faccio il proletario, faccio l’architetto» (e poi si dicono di sinistra).
Il tragicomico è che una simile illuminazione la dobbiamo trovare in un programma sboccato TV, non su «Casabella» o «AR», o le altre riviste dell’architettura criminal-progressista, dove la frase di Gregotti meriterebbe di essere stampato in eterno.
Lucien Steil, architetto famoso con un bel papillon, spiega: «Io porto gli studenti americani di architettura a vedere le antiche città italiane, perchè respirino e si intridano delle soluzioni urbanistiche di queste città fatte per l’uomo e dall’uomo, della qualità di relazioni umane che permettono. Come mai invece in Italia si scimmiottano le archistar?».
Il perchè viene implicitamente fuori da spezzoni di conversazioni fra gli addetti ai lavoro. Il giovane architetto Ettore Maria Mazzola, con il dente avvelenato («Dodici anni di precario ricercatore!») cita il piano urbanistico per Bari stilato nel 1931, che fissò una sorta di diritto dell’architettura. Per esempio, stabiliva il principio che anche se l’edificio di città è privato, «la facciata non è del proprietario, ma della comunità». Cita anche lo slogan – o il proposito – dell’Istituto Case Popolari fascista: «La casa sana ed educatrice».
Capito? La casa popolare, per quelli là, doveva essere «educatrice». Ossia: non doveva diventare ghetto separato e discriminante, la zona desolata dei poveri separata dalla città dei ricchi (vedi banlieues parigine in rivolta permanente).
La Mitterer: «Bisogna riconoscere che l’ultima volta in cui si è stati capaci di fare urbanistica è stato durante il fascismo».
Ecco dunque perchè le burocrazie pubbliche locali, Comuni, Regioni, non sanno far altro che rivolgersi ai Libeskind o ai Meier: d’accordo, questi dispongono di potenti studi e di macchine enormi e intimidatorie di pubbliche relazioni, ed hanno di fronte committenti ignoranti oltrechè anonimi (e dunque irresponsabili). Ma l’incultura architettonico-urbanistica in Italia viene in gran misura dalla necessità – politicamente corretta – di «saltare» un periodo che si raccordò coscientemente alla tradizione costruttiva antico-romana. La censura ha prodotto una frattura, uno iato col passato artistico nazionale. Abbiamo perso la nostra «lingua» architettonica, elaborata da generazioni nei secoli.
E Salingaros? Ha finito per parlar poco, ascoltando divertito gli architetti presenti che parlavano fra loro. Per chi non lo conosce, dò qui sotto alcuni esempi delle realizzazioni delle Archistar contro le quali ha ingaggiato, forte della sua origine greca e della sua cultura europea, una lotta solitaria.
(di Maurizio Blondet - fonte: http://www.effedieffe.com/)

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