giovedì 5 novembre 2009

Non servono nuovi Pantheon ciascuno scelga i suoi riferimenti

Irridente e corrosiva, la “provocazione” di Francesco Specchia apparsa su queste pagine risulta quantomai opportuna e salutare. Che cosa c’è di meglio oggi, intellettualmente, che dissacrare il cosiddetto Pantheon della cultura di destra dopo che esso è stato ipocritamente modificato, aggiornato, negato, fatto a pezzi dalle oligarchie partitiche? E allora basta con l’ossequio formale ai campioni del pensiero che tali comunque restano a dispetto delle abiure e delle strumentalizzazioni. Non c’è più bisogno di declinarli a fini impropri, tanto per dimostrare di avere un pedigree accettabile.

È necessario continuare a leggerli questi scrittori “maledetti” che di tanto in tanto diventano casi culturali soprattutto se a scoprirli è una sinistra colta, ma a corto di riferimenti. Ci meravigliammo assai anni fa quando l’intellighentia progressista si chinò pensosa su Evola e Guénon, su Jünger e Spengler, su Schmitt e Gentile, su Pirandello e D’Annunzio, su Marinetti e Malaparte, su Drieu La Rochelle e su Montherlant per spenderli quali critici della modernità e “riabilitarli”, dunque, dopo il tempo dell’ignominia.

Visione “aristocratica”

E ci siamo meravigliati ancora di più scoprendo che una qualche destra, molto imprecisata, si vergogna quasi di attaccarsi a questi come ad altri esegeti della crisi nonché apologeti di una visione del mondo spirituale e, se si può dire, “aristocratica”. Sicché il Pantheon è andato da tempo a farsi benedire. Ed allora, cerchiamo oltre, come suggerisce Specchia, riferimenti che non necessariamente devono esprimere una cultura minoritaria, ma non “minore”. Basta l’azzardo a non fermarsi alle categorie ideologiche, a saltare su scrittori, artisti, intellettuali che sostengono le ragioni di un sentire tradizionale nel bel mezzo della catastrofe del senso comune, quando tutte le certezze si stanno disfacendo sotto i nostri occhi.

Non occorre, dunque, un Pantheon, e se qualcuno si prova ad edificarlo è cosa buona e giusta demolirlo, ma è indispensabile praticare un sentimento della libertà che faccia irruzione nei non classificabili al fine di trovare parole giovani, non usurate per definire il presente e immaginare l’avvenire, ben oltre, naturalmente, le centrifughe culturali che riducono tutto in una indistinta molle pappa nella quale con voluttà ci si immergono i cercatori dell’ovvio, i signori del pensiero debole, gli indifferenti che sguazzano nella decadenza emettendo gridolini di stupore quando s’imbattono in una qualsivoglia insostenibile leggerezza, a Venezia come a Cannes, alla Buckmesse di Francoforte come al Salone del libro di Torino.

E allora, caro Specchia, torniamo ai classici dove c’è umanità e vita, teniamoci nel cuore i poeti che hanno segnato la nostra giovinezza, non dimentichiamo che a 45 anni un tipo dalla penna penna facile e dalla katana affilata scrisse il suo capolavoro, dopo aver prodotto cinquanta libri eccellenti che gli valsero la candidatura al Nobel, ponendo fine alla sua vita per puro patriottismo o, se si preferisce, per testimoniare l’immortalità dei valori della Tradizione. Troppo poco o troppo davvero per una destrina piccola piccola che s’affaccia alla ribalta evitando accuratamente di incontrare imbarazzanti figure che non c’entrano niente con la politica di plastica, né con la cultura minimalista?

Dato e non concesso, comunque, che de Maistre, Bonald, Donoso Cortés, Burke e von Haller non si portano più ed è bene che, insieme con Dante e Machiavelli e Guicciardini, restino a guardia di una storia che non si può confondere con le mode, rovistiamo altrove, non per edificare - Dio ce ne scampi - nuovi Pantheon. La ricerca è libera. Ma a me è piaciuto imbattermi nella vita come avventura di Bruce Chatwin e di Ryzard Kapuscinsky; nel viaggio attraverso il nichilismo del più grande scrittore americano vivente: Cormac McCarty che con La strada ci ha immesso in un universo disperato realistico e crudo, profondamente nostro; nella ribellione di J. M. Coetzee quando in Aspettando i barbari non esista a schierarsi per l’affermazione coraggiosa della verità, fino a scoprire perfino l’amore; nel conservatorismo trascendentale del più straordinario saggista sudamericano, Nicolàs Gomez Dàvila, autore praticamente di un solo volume (fatto e disfatto tante volte), In margine ad un testo implicito, che nella sua Colombia tormentata in pochi hanno letto, ma coloro i quali hanno avuto la fortuna si immergersi nelle sue pagine ne sono usciti come trasformati, parola di García Márquez: «Se non fossi comunista penserei in tutto e per tutto come lui», disse una volta.

Ma c’è anche un conservatorismo tangibile, spendibile politicamente, del quale ci si dovrebbe appropriare a prescindere da come la si pensa, quello di Russell Kirk e ancor più di Roger Scruton, il più grande ideologo antimodernista, compositore e giurista, letterato e agitatore di idee. Il suo Manifesto dei conservatori è la visione di un anticipatore, capace di trasfondere gli stilemi classici del conservatorismo nella modernità, ma anche capace di tenersi avvinto alla sua storia che è poi quella di tutti noi: «Per gli europei», si legge in un suo libro, «è impossibile ignorare il fatto che la loro fede si è ormai ridotta al lumicino, che vive nei palazzi, nelle pinacoteche e nei conventi, e pulsa nella letteratura e nella musica del nostro Continente, ma non nel cuore della sua gente. È proprio per questo che abbiamo bisogno di un nuovo tipo di movimento, altrimenti rischiamo di scomparire».

Stretti alle proprie radici

E di scomparire non ha nessuna voglia il cineasta e poeta iraniano Abbas Kiarostami che legato alla sua identità c’impartisce con le liriche e i film lezioni spirituali inadatte ai moderni vagabondi tra le letture facili, ma appetite da chi vuole tenersi stretto alle proprie radici. Non è conservatorismo tutto questo? E non lo richiama forse la musica del più grande compositore contemporaneo, l’estone Arvo Part che ha reinventato la musica sacra nel tempo della Gaia Apocalisse del relativismo pratico? E non ci riconduce alle stesse atmosfere la giovane, straordinaria, seducente pianista e scrittrice Hélène Grimaud che con le note e le parole ci conduce alla ricerca d’assoluto?

No, non è un nuovo Pantheon. È un percorso, piuttosto. Così nessuno potrà demolirlo. Come non è stato demolito il più conservatore tra gli scrittori (attendo sereno anatemi e confutazioni) della seconda metà del secolo scorso, nostro contemporaneo più di chiunque altro: Pier Paolo Pasolini. Sei d’accordo, caro Specchia, che chi come lui avrebbe venduto volentieri la Montedison per una lucciola è, a buon diritto, nostro fratello nella nostalgia e nel rimpianto? Sentimenti conservatori, naturalmente...

(di Gennaro Malgieri)

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