«Ho fatto tutto di corsa in una specie di frenesia che mi bruciava l’animo. Ho così commesso anche molti errori. E tuttavia, quello che io penso è che nella mia vita ho reso grandi servigi all’Italia. La storia, se non sarà scritta da storici di regime, dirà quanto questo è vero. Certo non merito di essere condannato a morire lontano dal mio Paese». Così Bettino Craxi rispose ad una mia domanda se si pentiva dei suoi errori e se aveva la tentazione di tornare in Italia. A rileggere quella risposta, provo uno strano sentimento: la tenerezza per l’orco. Era un dicembre dei suoi ultimi anni e Craxi era ricoverato al Policlinico Taoufik di Tunisi. Era già un Craxi postumo, che ragionava con il distacco della storia, giudicandosi come in una specie di Spoon river. Aveva un piede, non per modo di dire, già nella fossa. Temeva per l’Italia l’avvento di un nuovo ventennio, riteneva il bipolarismo «un’offesa alla democrazia ed una rappresentazione falsa della reale società politica». Sosteneva che gli italiani in maggioranza fossero di centrodestra e Berlusconi fosse il vero propulsore di quello schieramento, che altrimenti sarebbe andato «in frantumi». Considerava D’Alema il politico caratterialmente più vicino a lui, figlio come lui della partitocrazia. E si divertiva a notare che «quando D’Alema alza la voce gli danno del miglior Craxi».
Sottovalutava l’effetto Di Pietro in politica e considerava Fini «un vuoto incartato», in cui «le forme prevalgono sulla sostanza». Pubblicai l’intervista su un settimanale che allora dirigevo, Lo Stato, titolandola: Intervista al miglior politico degli ultimi vent’anni. Confermo il giudizio, anzi il tempo accresce e non diminuisce la sua statura. Spiaceva dirlo a uno come me, che non è mai stato socialista o di sinistra. Uno che combatteva l’arroganza e la corruzione del potere. Uno che giudicava nel complesso necessaria l’inchiesta Mani pulite. Ma a Craxi si deve il governo più duraturo della prima Repubblica, che ha coinciso con il periodo di migliore vitalità, ottimismo e benessere del nostro paese, e di grande considerazione internazionale.
Craxi mise in crisi il consociativismo catto-conf-comunista, con supporto di laici e bella stampa; tentò di modernizzare la sinistra e di sdoganare la destra, fuoriuscendo dalla pregiudiziale antifascista dell’arco costituzionale; varò il nuovo concordato e agì sulla scala mobile, pensò ad una grande riforma istituzionale che riportasse al centro della politica la decisione, l’elezione diretta del leader, e alimentò la revisione storica, la passione nazionale e risorgimentale, il socialismo tricolore. Sarà stata mitizzata ma Sigonella fu un mirabile esempio di sovranità nazionale; che forse costò caro a Craxi e ad Andreotti. Craxi si circondò non solo di nani e ballerine, ma anche di intelligenze politiche affilate, che tutt’oggi si rivelano di prim’ordine, anche al governo. Ciò non diminuisce di una virgola le sue responsabilità nell’Italia del malaffare, della partitocrazia e delle tangenti.
Lo statista aveva anche un suo doppio, Ghino di Tacco, o il Cinghialone come lo chiamava allora Feltri. Certo non fu lui a introdurre la corruzione politica e il finanziamento losco dei partiti in Italia, già in uso grazie alla sinistra democristiana sin dagli anni Cinquanta e i primi socialisti affaristi di potere degli anni Sessanta. Ma lui cercò di non far schiacciare il Psi nella morsa tra il Pci che godeva di sostegni anche economici dell’Est e aveva la rete delle coop, e della Dc che gestiva potere e sottopotere. Nel complesso Craxi fu davvero lo statista degli anni Ottanta, dal Riflusso a Tangentopoli. A dieci anni dalla sua morte merita una via a Milano e Roma, non solo ad Hammamet.
E qui vorrei fare un discorso storico sulla prima Repubblica. Proverò a indicare i dodici apostoli della prima Repubblica, ovvero i leader che meritano di passare dalla cronaca alla storia e di essere ricordati nella toponomastica. A parte i presidenti della Repubblica che lo sono d’ufficio e a prescindere dai meriti reali, io direi De Gasperi, Moro e Fanfani che furono i più significativi democristiani di governo. Tra i comunisti direi Togliatti, grande leader, saggio Guardasigilli e gran costituente, anche se becero complice dei crimini comunisti, e Di Vittorio, che difese la dignità e i diritti dei lavoratori. Berlinguer merita rispetto per la sua sobrietà politica e morale e per il lento distacco dal comunismo sovietico, ma non ebbe speciali meriti, grandi intuizioni e grande statura politica. Tra i liberali, avendo già Einaudi iscritto d’ufficio tra i presidenti, direi Malagodi e tra i repubblicani non sarei così certo di La Malfa nel paragone con Pacciardi, combattente partigiano, costituente e primo precursore della Nuova Repubblica. Poi a destra, tra i missini, Almirante, che fu il più grande oratore della prima Repubblica. E tra i socialisti Nenni e Craxi (Saragat è già nella galleria del Quirinale). Restano ancora un paio di viventi, che non amo affatto ma che credo abbiano scritto pagine di storia della prima Repubblica: Andreotti, seppur in modo obliquo, è stato la sfinge, il ventriloquo e il top model della prima Repubblica romanesca, cinica e clericale; e Pannella, che ha avuto un ruolo decisivo - seppur nefasto a mio parere - nel mutamento civile del nostro paese.
Tra i viventi che passeranno alla storia in verità c’è un terzo, col sorriso stampato in faccia insieme al Duomo; quello che inventò dal nulla un partito di maggioranza e una coalizione vincente, sdoganò ex fascisti e selvatici leghisti al governo, fondò di fatto il bipolarismo e guidò il governo più longevo della Repubblica italiana. Ma questa è un’altra storia, e forse un’altra Repubblica. Comunque non fatelo sapere all’interessato: messo lì, in mezzo ai dodici apostoli, potrebbe montarsi la testa.
(di Marcello Veneziani)
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