venerdì 5 febbraio 2010

Io, l'unico sopravvissuto alle foibe istriane

Graziano Udovisi, classe 1925, originario di Pola, unico sopravvissuto alle foibe istriane, introduce così ciò che lui stesso definisce «l’ultimo racconto sulla mia martoriata Istria».
A distanza di sessantacinque anni si è deciso a raccontare l’orrore e le barbarie vissute sulla propria pelle alla fine della seconda guerra mondiale, quando era tenente della Milizia Difesa Territoriale.
Le torture con staffili ricavati dal fil di ferro attorcigliato, con armi e bastoni, le sevizie che l’hanno quasi privato dell’udito subite nel campo di concentramento allestito dai soldati di Tito a Dignano d’Istria, fino all’infoibamento il 14 maggio, a Fianona, li ripercorre con una straordinaria lucidità nelle toccanti pagine di “Foibe. L’Ultimo testimone” (Aliberti editore, 144 pp., 12 euro, da ieri in libreria).
Che cos’è accaduto?
«Era il 5 maggio 1945. Per salvare il mio reparto, ricercato dai partigiani titini dopo aver ripiegato su Pola, mi presento al comando iugoslavo. L’uomo che trovo dietro la scrivania è un maggiore italiano sicuramente passato dall’altra parte. E lì, comincia il nostro calvario. Quel giorno ci fanno marciare fino a condurci sul bordo del crepaccio, con le mani legate. Sarei stato raggiunto dai colpi dei fucili delle milizie partigiane, così mi sono lasciato precipitare in quella foiba profonda una ventina di metri. E, come per miracolo, riesco a riemergere portando in salvo un mio commilitone, Nini. L’ho afferrato per i capelli».
E dopo è stato anche condannato?
«Due anni di carcere in giro per l’Italia. Capo d’accusa, “collaborazionismo col tedesco invasore”. Il magistrato ha detto persino che “ero superbo” perché per strada non salutavo nessuno. E cosa avrei dovuto fare, ridere?»
Che cosa vorrebbe dire a chi si accosta alla lettura delle sue memorie?
«Purtroppo ricordo tutto quanto del passato. Ne porto dei segni indelebili, basti dire che per le torture subite al rene mi sono dovuto sottoporre a quattro interventi per la calcolosi, i medici reggiani sono stati straordinari con me. A volte mi chiedo se, dopo la morte, quelle immagini spariranno dalla mia mente, ma quanto è accaduto non si cancella, è impossibile farlo. Ventimila morti sono pur qualcosa. Non sono da buttare via, gli italiani non possono dimenticare, la mia regione (l’Istria, ndr) è quella che ha registrato più vittime, sia sotto i bombardamenti, sia per vendetta».
In “Foibe” racconta anche del suo incontro, organizzato dal consigliere reggiano del Pdl Marco Eboli a Roma, il 16 marzo dell’anno scorso, col sindaco Alemanno e il presidente della Camera Fini.
«La medaglia d’oro al valor civile non è tanto un risarcimento morale, rappresenta piuttosto tutti i miei compagni che hanno combattuto con me, spesso derisi e tacciati di essere repubblichini».
Dopo la guerra ha insegnato a lungo nelle scuole elementari. Coi suoi allievi non ha mai fatto parola dell’incubo che ha vissuto.
«Ho insegnato dal 1947 al ’78 a Gonzaga, Novellara, San Bernardino, a Zappiano di Carpi, a Rubiera. Sì, è vero, a loro non hai mai detto nulla, ho preferito rispettare le loro piccole vite».
Anni fa, però, è stato chiamato a parlare nelle scuole?
«Qualche istituto mi ha contattato chiedendomi di raccontare la mia storia. Al mio sì è seguito il silenzio. Perché mai? Io non parlo mai di politica, non sono un politico, ma racconto dei fatti veramente accaduti».
Che ne pensa dell’iniziativa della deputata del Pdl Paola Frassinetti, la quale propone l’istituzione di un albo nazionale «per le associazioni autorizzate a parlare nelle scuole della tragedia delle foibe»?
«Ben venga, ci voleva. Comunque, medaglia d’oro o no, m’interessa solamente una cosa: che la gente capisca che noi istriani, profughi, siamo tutti italiani».

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