Antonio Di Pietro forse non lo sa. Ma quando incita a cacciare a pedate Tizio, Caio e Sempronio imita un precedente illustre. Quello di un leader politico ben più grande di lui, nel bene e nel male. Un Signore dalla vocetta stridula e dal cinismo assoluto che aveva attraversato gli orrori del Novecento: Palmiro Togliatti. Anche il Migliore voleva cacciare a pedate il suo avversario storico: Alcide De Gaspari. E in un comizio arrivò a mostrare i robusti scarponi che avrebbe calzato per rendere più dura l'espulsione dell'odiato democristiano.
La faccenda risale alla battaglia elettorale del 18 aprile 1948. La vidi da ragazzo nella mia città sul Po. Fu l’ultimo round della guerra civile. I partigiani comunisti avevano riaperto gli arsenali. Giravano liste di padroni da uccidere subito dopo l’immancabile vittoria. Capitalisti grandi e piccoli spedirono in Svizzera le famiglie. E De Gasperi chiese alla Francia di dare asilo politico ai dicì costretti a emigrare. Poi tutto finì grazie alla sconfitta del Fronte popolare.
Quella del 1948 fu la prima campagna elettorale che ebbe un vincitore sicuro: la Democrazia cristiana. E lo stesso accadde in tutte le elezioni successive, sempre vinte dalla Balena Bianca e sempre perse dal Pci. Quando un voto si conclude in modo certo, il ricorso alle urne rivela la sua utilità democratica. Accadrà così anche a fine marzo, nel voto per le Regioni? Non ne sono del tutto sicuro.
La pessima aria che tira mi fa immaginare uno scenario molto fosco. Certo, uno dei due blocchi avrà la meglio. Ma la sua vittoria verrà subito contestata da chi ha perso. Rivedremo la bolgia dei ricorsi, delle sentenze, dei giudizi di molteplici Tar, degli scontri fra giuristi di tutti i calibri. Alla fine, gli elettori potrebbero ritrovarsi con un pugno di mosche. Costretti a riconoscere che nessuno dei due blocchi ha vinto. Anzi che hanno perso entrambi.
La doppia sconfitta sarà causata dallo stato disastroso dei contendenti. Il centrodestra avrà al suo interno un vincitore sicuro: la Lega. Ma il Popolo della libertà scoprirà di avere le pezze al culo. Con un leader stremato da una campagna spesa nel difendersi dalla miriade di inchieste giudiziarie. Compresa l’ultima avviata da una procura di provincia, quella di Trani (Bari). Che dopo aver intercettato il premier e il direttore del Tg1, avrebbe indagato Berlusconi nientemeno che per concussione. Reato compiuto per aver tentato di sopprimere l’Annozero di Michele Santoro.
Se fossi un elettore del centrodestra, l’ultimo blitz giudiziario mi farebbe correre alle urne per votare il Cavaliere. Ma se lo aiutassi a vincere, mi troverei costretto a pormi qualche domanda: che cosa accadrà adesso? Riuscirà Berlusconi a governare per i tre anni che mancano alle elezioni politiche del 2013? Sarà forte abbastanza per guidare il Paese?
Una risposta l’ho trovata nell’intervista a Pier Luigi Bersani, fatta da Goffredo De Marchis per Repubblica del 12 marzo. Il leader del Partito democratico ha detto: «Berlusconi è troppo forte per essere finito. E un po’ troppo finito per sentirsi davvero forte». Morale della favola: ecco perché «Berlusconi non è in grado di trasmettere un’idea di futuro». Una conclusione che il sommario dell’intervista ha semplificato con chiarezza: «Berlusconi non è più in grado di offrire un futuro» al Paese.
È un’affermazione che obbliga a riflettere, ma a doppio taglio. Infatti può essere rivolta pure al Pd di Bersani. Che futuro può offrire all’Italia un’ammucchiata come quella che abbiamo visto sfilare ieri in piazza del Popolo? A molti ha rammentato la tragica Unione, l’alleanza autolesionista che mandò in crisi il secondo governo di Romano Prodi. Anche il centrosinistra del 2010 è un’accozzaglia di forze che hanno ben poco da spartire fra loro. Ma al tempo stesso è molto diverso dall’Unione di qualche anno fa.
La diversità più vistosa sta nella presenza determinante di un partito, l’Italia dei valori, che in questo intervallo è cresciuto e si è fatto molto vorace. Se Berlusconi è il Caimano del centrodestra, Di Pietro è di certo il Caimano del blocco opposto, l’uomo che di fatto lo guida. In più, l’obiettivo esistenziale di Tonino è mangiarsi, boccone dopo boccone, il partito di Bersani. E dopo averlo divorato, è certo che Di Pietro piangerà sincere lacrime di coccodrillo.
Come tutti i caimani, pure Di Pietro non si pone il problema numero uno del buon politico: fare attenzione alle conseguenze delle parole che pronuncia. I lettori del Riformista conoscono bene il lessico volgare di Tonino e il lugubre catalogo delle sue accuse. Berlusconi è come Mussolini, Hitler, Pinochet. L’Italia è in preda a un nuovo fascismo, la democrazia è morta, le nostre libertà sono finite.
Se fosse coerente, Di Pietro dovrebbe incitare i giovani che lo seguono a imbracciare il fucile, salire in montagna e iniziare una nuova Resistenza, al canto di “Bella ciao”. Non lo fa perché è soltanto un parolaio sbruffone. E il suo scopo è dissanguare il più realista Bersani. Per questo ama l’accozzaglia. Ha detto a Carlo Bertini della Stampa: «Sei o sette leader sul palco di piazza del Popolo? Bene, più saremo e meglio sarà per tutti».
Mi limito a registrare e a rabbrividire. Confesso di avere molti timori sulla sorte del Paese dove vivo e lavoro. Però mi sento con la coscienza a posto. In gennaio ho scritto sul Riformista che non andrò a votare. E così farò. Da bordocampo, voglio vedere in che modo entrambi i Caimani faranno di tutto per perdere.
(di Giampaolo Pansa)
Nessun commento:
Posta un commento