lunedì 10 maggio 2010

La Russa: Gianfranco, dì qualcosa di destra

Via Venti Settembre, a Roma, sede del ministero della Difesa: pochi passi e, all’angolo, c’è via delle Quattro Fontane. Per quei 3 milioni di italiani elettori di un partito che si chiamava Movimento sociale italiano la zona è familiare assai. C’era la sede a Palazzo del Drago. Fuori era parcheggiata la Fiat 500 di Giorgio Almirante e i fattorini del Secolo d’Italia, il quotidiano di questo partito proibito dalla Costituzione, a molti ufficiali del ministero recapitavano di nascosto la copia del giornale con gli articoli di Clemente Graziani. Sembra, è il caso di dirlo, un secolo fa.

Adesso l’inquilino del dicastero «dei valori di Patria e di custodia di valori nazionali» è Ignazio La Russa, uno che è stato attivista di quel partito, poi fondatore di Alleanza nazionale, quindi cofondatore del Popolo della libertà. La Russa è rimasto dentro le mura del Pdl mentre Gianfranco Fini, il suo ex leader, sta consumando una guerra per abbandonare definitivamente Silvio Berlusconi.

Che cosa accadrà, ha fatto una corrente a Milano?

Non è una corrente ma un posto dove la parola destra ha un preciso riferimento. Punto. All’interno del Pdl. Punto. Fosse stata una corrente…

Fosse stata una corrente avrebbe radunato un po’ più di gente da tutta Italia, e va bene, ma che cosa è accaduto con Fini?

Io la racconto per com’è andata. Poi se la sbroglia lei per come la deve scrivere. Se si fosse trattato di garantire piena libertà di opinioni all’interno del partito, ebbene, Fini avrebbe trovato in me il vessillifero. Ma di sabotare e uscirmene dal partito che sto contribuendo a costruire non se ne parla. Succede questo, è accaduto questo: quel giorno, prima di andare da Berlusconi, Fini chiama me perché mi riconosce qualcosa: mi ha visto nel partito, nella sede di via Mancini, a Milano, due anni prima che io conoscessi lui. Ci mettiamo a piangere. Parliamo di una storia lunga più di 30 anni. E mi spiega: tra un’ora vado da Berlusconi e gli dico che: a) mi sono pentito di avere fondato il Pdl; b) fondo dei gruppi parlamentari autonomi. Praticamente una scissione quando subito dopo, convocando lui una riunione, chiama a raccolta i suoi senza però invitare me. Tutto diventa chiaro, perfino troppo. Vuole la rottura. E con lui ci sono quelli che devono tutto a lui.

Ma Italo Bocchino non deve tutto a lui, anzi è stato perfino osteggiato da Fini che lo aveva messo ultimo in lista sperando che non venisse eletto.

È vero. La famosa vicenda della Caffettiera di Roma, con me, Maurizio Gasparri e Altero Matteoli accusati di congiura, altro non era che una riunione riservata per cercare una strategia in difesa di Italo. Fini a tutti i costi lo voleva umiliare. Sono contento che adesso abbia cambiato idea.

Con la conseguenza di questi destini separati.

Italo alza sempre l’asticella. Ottenuto un risultato, passa oltre.

Ma questo Pdl è un partito che sente sinceramente suo?

Senza dubbio alcuno. Mio. Non è certo il Movimento sociale, ma già Alleanza nazionale non era neppure il partito per come l’abbiamo conosciuto. Lo iato, o chiamatelo come cavolo volete, è Fiuggi. Quando veniamo chiamati ad abbandonare la casa del padre, lo facciamo con dolore e con convinzione. Ma con la serena maturità di un figlio che si sposa, va via e però ci torna dal padre nelle occasioni belle, nelle ricorrenze.

A proposito: lei celebra la Liberazione…

Ma la mia coscienza mi impone di dire ciò che per molti anni sarebbe stato inaudito sentire. Quello per cui eravamo stati educati: non rinnegare, non restaurare. Anzitutto la pacificazione degli italiani. Mi danno la scorta oggi che la gente mi dà le pacche sulle spalle, dovevano darmela prima quando rischiavo la pelle.

Non rinnegare, non restaurare. Leo Longanesi aveva scritto un libro con un grande titolo: «Un morto tra noi».

Non posso dimenticare quando, un aprile di molti anni fa, con Pinuccio Tatarella e le nostre mogli eravamo in vacanza. Andavamo a Sankt Moritz e ci veniva comodo passare da Giulino di Mezzegra…

Dove venne assassinato il Duce e dove Bettino Craxi, come ha ricordato recentemente la figlia Stefania, un giorno andò a portare dei fiori?

Appunto. Io proposi a Pinuccio di passare da lì e portare un segno, un fiore, un segno di croce. Ebbene, mi fece una cazziata infinita: «Non si fanno queste cose, ci tengono fermi per sempre». E però aggiungeva: «Le devono fare gli altri». E, infatti, le faceva Craxi.

Aveva ragione Tatarella?

A differenza della sinistra, che nel mondo giovanile ha sempre coltivato la propria ala estremista, a destra, al contrario, i ragazzi sono stati sempre un’avanguardia aperta al dialogo. Già negli anni Cinquanta era così, figurarsi dopo, quando nel 1976, con Pinuccio, Massimo Anderson, Pietro Cerullo e Riccardo De Corato, alzavamo il confronto con Almirante fino a sfidarlo nei contenuti.

È l’anno della scissione di Democrazia nazionale dal Msi. Allora avevano ragione loro, gli scissionisti?

Hanno gettato il seme. Hanno solo sbagliato i tempi e i modi. E i compagni di processione, ovvero la Democrazia cristiana che già aveva scelto di buttarsi col centrosinistra e non voleva far nascere un grande fronte per i moderati italiani. Voleva il compromesso storico. Democrazia nazionale gettò il seme ma oggi posso dire che avevano ragione. Non li seguii nella scissione così come oggi non seguo Fini.

Fini sta per caso sbagliando tempi e modi, allora?

Sono troppe le cose che non capisco di Fini, non so neppure se le cose che dice siano di destra.

Forse Fini dice oggi le cose che ieri, prima di essere espulso dal Msi, predicava Marco Tarchi.

Non credo proprio che siano le stesse cose e su Tarchi, se permette, vorrei dire una cosa: aveva ragione con la sua Nuova destra. Magari sbagliava a scimmiottare la sinistra, ma fu fondamentale per la nostra area con i suoi Campi Hobbit e i suoi libri. E poi non fece la scissione. Fu espulso. E con una motivazione idiota: avere scritto su La Voce della fogna, il più bello dei giornali nati a destra, un articolo satirico sull’organizzazione di Mirko Tremaglia per gli italiani all’estero. Non si censura la satira. Tarchi non lo sa ma io lo difesi in quell’occasione.

Visto il risultato alle elezioni del 2006, con le liste di Tremaglia a fare danno, era una premonizione. Tarchi oggi è un politologo estraneo ai partiti, ma quel Msi era dunque destinato a essere il lievito di un partito maggioritario dei moderati?

E chi, altrimenti? I liberali, il cui partito, il Pli, al tempo, nella costituzione dei governi, poneva la condizione irrinunciabile ed essenziale che li volessero?

Nessuna, ma proprio nessuna nostalgia?

Soggettivamente sì ma oggettivamente no, ma è l’essere stato un ragazzo ciò che rimpiango. L’Italia di oggi somiglia ai miei sogni e la guerra civile la sento remota. Sono cugino di Franca Rame!

Perché, Rame è di Paternò?

Scherzo. Lei è prima cugina della mia prima moglie e così mio figlio è cugino di Franca Rame. Cose che se fossimo in Sicilia faremmo il Natale tutti insieme. A Milano, dove nessuno si saluta, la cosa si perde. In ogni modo io non vorrei perdere me stesso. Rivendico, da ministro, il diritto di cambiare il meno possibile.

Per questo scatta dentro l’attivista che è in lei?

Almeno una notte, in campagna elettorale, devo seminare la scorta e farmi la mia bella alba di attacchinaggio. A proposito di scorta: la prima volta, da vice-presidente della Camera, me ne dettero due di agenti, così gracilini, che una volta, senza offesa, glielo dissi: «Se succede qualcosa, vi difendo io».

(di Pietrangelo Buttafuoco)

Nessun commento:

Posta un commento