Non ci siamo ancora; e poi tra poco scatta la pausa estiva e tutti riprenderanno fiato e ci penseranno su. È proprio il caso di accelerare lo “strappo” tra Pdl e finiani, obbligando magari i “pontieri” tipo Andrea Augello a prendere una posizione troppo netta che sarebbe prematura, specie ora che Casini e Rutelli – contro quella che avrebbe potuto essere anche un’ipotesi di decenza politica – hanno quasi avvertito il premier che in caso di defezione di una parte della ex An si faranno avanti loro a tamponare le falle e ad assicurare (a un certo prezzo) la salvezza della maggioranza? Però non possiamo nemmeno dissimularci la gravità anzitutto morale degli ultimi avvenimenti.
Altro che «provocazione», altro che «errore da cui prender le distanze». Può anche darsi che Fabio Granata esca con le ossa rotte dallo scontro che ha provocato; e va da sé che qualche politico da lui non lontano, ma più prudente – Augello, appunto, per esempio – lo rimproveri per aver bruciato qualche tappa intermedia. Ma insomma, chiediamoci: è davvero scritto da qualche parte che la politica sia solo tattica, abilità nell’attendere, spregiudicatezza nel mandar giù tutti i rospi in attesa del momento favorevole? E se una volta tanto fosse invece il caso di far parlare la morale e i principii? Prendete un bravo ragazzo siciliano, uno al quale la cattiva fama della sua terra dà sul serio fastidio e che venera la memoria di Paolo Borsellino; un ragazzo entrato a suo tempo nel Msi non per vane nostalgie neofasciste ma perché guidato da un forte senso dello stato e da una sincera tensione verso la giustizia sociale (ce n’erano, di ragazzi così); uno che una volta emigrato in An ha visto poi il suo partito svuotarsi dall’interno, vendersi a pezzi comprato o ricattato da Berlusconi, e che alla fine si è trovato compagno di partito di mafiosi, di ladri, d’intrallazzatori (con un modesto ma divertente contorno di teocon cattolici fanatici e ipocriti). Uno che in poche settimane si è dovuto ingozzare il caso Scajola, e poi il caso Brancher, e poi il caso Verdini, e quindi a ruota l’una dietro l’altra altre questioni infamanti spudoratamente difese dal premier e dai suoi principali reggicoda. E guardatelo all’opera nell’Antimafia, questo bravo ragazzo siciliano al quale in queste ore è stata aumentata la scorta perché chi si mette su certe strade rischia sul serio. E non volete che a un certo punto la sua coscienza non gli esca dalla bocca, dagli occhi e dalle orecchie? Fabio Granata ha parlato chiaro: non ha attaccato né il sottosegretario Mantovano né alcun altro, ma si è chiesto semplicemente il perché al “pentito” Spatuzza sia stato negato – con un esile ed evidentemente pretestuoso alibi formale – quel regime di protezione che in analoghi casi era stato concesso. Permetterete che, visto il peso della testimonianza di Spatuzza nel caso Dell’Utri (un altro bel macigno sullo stomaco del Pdl), le ragioni di quel trattamento vorremmo conoscerle anche noi. Granata si è riferito a cose obiettivamente note e conosciute da tutti: le “esternazioni” contro le procure di Palermo e di Caltanissetta, le solidarietà formulate nei confronti di Dell’Utri dopo la condanna, cose che fanno sul serio ritenere che vi siano “pezzi di governo” collusi con la malavita. Ma perché: dopo i casi Dell’Utri, Verdini & company, c’è ancora spazio per dubitare che al governo del paese vi siano parecchi di quei tipi che Gaetano Salvemini avrebbe definito “ministri della malavita”? Governo colluso?, si chiede La Russa: Granata faccia i nomi, altrimenti è un quacquaracqua. Se nel cerchio dei complici del Berluska non si fosse ormai perduto ogni ritegno, ci sarebbe quasi da chiedersi se La Russa e Granata non siano compari che si passano la battuta.
Intervenga Fini e si esprima sul suo imprudente collaboratore, starnazzano a gran voce tutti i mammasantissima pidiellini di vecchio e di nuovo lealismo arcoliano. Fini, al solito, non si farà incastrare: darà un colpo al cerchio e uno alla botte, parlerà delle “ragioni” di Granata (fingendo d’ignorare che le sue domande hanno sì sollevato sdegno, ma non ricevuto risposta) e rinnoverà “stima e fiducia” a Mantovano. Ma gli riuscirà sempre più difficile contenere lo sdegno crescente dei suoi, che non ci stanno più a far da complici al partito dalla leadership scandalosa e malavitosa. E che sanno bene che è perfettamente inutile prendersela con i Dell’Utri e i Verdini perché – dicono i francesi – le poisson sent par la tête; e – traducono i napoletani – “o’ pesce fète da’ capa”. Aspetti pure il momento più opportuno: ma si decida, e non si lasci scappare l’autobus sotto il naso.
Intanto, Fabio Granata viene minacciato di venir deferito ai probiviri: dinanzi ai quali mai sono comparsi né Dell’Utri, né Verdini. E io vorrei tanto chiedere a quell’anziano studioso e galantuomo di Vittorio Mathieu, che ai tempi del Giornale di Montanelli mi onorava nella sua amicizia: professore, ma che cosa ci fa lei nel collegio dei probiviri d’un partito egemonizzato da una banda di mascalzoni?
(di Franco Cardini)
Altro che «provocazione», altro che «errore da cui prender le distanze». Può anche darsi che Fabio Granata esca con le ossa rotte dallo scontro che ha provocato; e va da sé che qualche politico da lui non lontano, ma più prudente – Augello, appunto, per esempio – lo rimproveri per aver bruciato qualche tappa intermedia. Ma insomma, chiediamoci: è davvero scritto da qualche parte che la politica sia solo tattica, abilità nell’attendere, spregiudicatezza nel mandar giù tutti i rospi in attesa del momento favorevole? E se una volta tanto fosse invece il caso di far parlare la morale e i principii? Prendete un bravo ragazzo siciliano, uno al quale la cattiva fama della sua terra dà sul serio fastidio e che venera la memoria di Paolo Borsellino; un ragazzo entrato a suo tempo nel Msi non per vane nostalgie neofasciste ma perché guidato da un forte senso dello stato e da una sincera tensione verso la giustizia sociale (ce n’erano, di ragazzi così); uno che una volta emigrato in An ha visto poi il suo partito svuotarsi dall’interno, vendersi a pezzi comprato o ricattato da Berlusconi, e che alla fine si è trovato compagno di partito di mafiosi, di ladri, d’intrallazzatori (con un modesto ma divertente contorno di teocon cattolici fanatici e ipocriti). Uno che in poche settimane si è dovuto ingozzare il caso Scajola, e poi il caso Brancher, e poi il caso Verdini, e quindi a ruota l’una dietro l’altra altre questioni infamanti spudoratamente difese dal premier e dai suoi principali reggicoda. E guardatelo all’opera nell’Antimafia, questo bravo ragazzo siciliano al quale in queste ore è stata aumentata la scorta perché chi si mette su certe strade rischia sul serio. E non volete che a un certo punto la sua coscienza non gli esca dalla bocca, dagli occhi e dalle orecchie? Fabio Granata ha parlato chiaro: non ha attaccato né il sottosegretario Mantovano né alcun altro, ma si è chiesto semplicemente il perché al “pentito” Spatuzza sia stato negato – con un esile ed evidentemente pretestuoso alibi formale – quel regime di protezione che in analoghi casi era stato concesso. Permetterete che, visto il peso della testimonianza di Spatuzza nel caso Dell’Utri (un altro bel macigno sullo stomaco del Pdl), le ragioni di quel trattamento vorremmo conoscerle anche noi. Granata si è riferito a cose obiettivamente note e conosciute da tutti: le “esternazioni” contro le procure di Palermo e di Caltanissetta, le solidarietà formulate nei confronti di Dell’Utri dopo la condanna, cose che fanno sul serio ritenere che vi siano “pezzi di governo” collusi con la malavita. Ma perché: dopo i casi Dell’Utri, Verdini & company, c’è ancora spazio per dubitare che al governo del paese vi siano parecchi di quei tipi che Gaetano Salvemini avrebbe definito “ministri della malavita”? Governo colluso?, si chiede La Russa: Granata faccia i nomi, altrimenti è un quacquaracqua. Se nel cerchio dei complici del Berluska non si fosse ormai perduto ogni ritegno, ci sarebbe quasi da chiedersi se La Russa e Granata non siano compari che si passano la battuta.
Intervenga Fini e si esprima sul suo imprudente collaboratore, starnazzano a gran voce tutti i mammasantissima pidiellini di vecchio e di nuovo lealismo arcoliano. Fini, al solito, non si farà incastrare: darà un colpo al cerchio e uno alla botte, parlerà delle “ragioni” di Granata (fingendo d’ignorare che le sue domande hanno sì sollevato sdegno, ma non ricevuto risposta) e rinnoverà “stima e fiducia” a Mantovano. Ma gli riuscirà sempre più difficile contenere lo sdegno crescente dei suoi, che non ci stanno più a far da complici al partito dalla leadership scandalosa e malavitosa. E che sanno bene che è perfettamente inutile prendersela con i Dell’Utri e i Verdini perché – dicono i francesi – le poisson sent par la tête; e – traducono i napoletani – “o’ pesce fète da’ capa”. Aspetti pure il momento più opportuno: ma si decida, e non si lasci scappare l’autobus sotto il naso.
Intanto, Fabio Granata viene minacciato di venir deferito ai probiviri: dinanzi ai quali mai sono comparsi né Dell’Utri, né Verdini. E io vorrei tanto chiedere a quell’anziano studioso e galantuomo di Vittorio Mathieu, che ai tempi del Giornale di Montanelli mi onorava nella sua amicizia: professore, ma che cosa ci fa lei nel collegio dei probiviri d’un partito egemonizzato da una banda di mascalzoni?
(di Franco Cardini)
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