Compiaciuto tra i suoi 30 cavalli berberi più belli di quelli di Ben Hur, le amazzoni di scorta con rimmel antisommossa e le sue 500 ninfette italiane prese a nolo, «Papi» Muammar benedice l'amico Silvio e tutto il popolo italiano: questa sì è un'accoglienza da Re! E chissà che anche stavolta, tra le seguaci conquistate dalla sua oratoria e da un pacco di fruscianti bigliettoni, non spunti fuori qualche convertita all'Islam...
Diciamo la verità: era cominciata male, tra Gheddafi e gli italiani. Prima il fastidio delle polemiche sulla cacciata dei nostri connazionali buttati fuori dopo la rivoluzione. Poi lo strascico del rancore per la nostra occupazione coloniale che gli aveva fatto istituire la Giornata della Vendetta. Poi i seccanti sospetti su un suo coinvolgimento in certi episodi terroristici. Poi i missili contro Lampedusa e la rivendicazione della sovranità sulle Tremiti. Per non dire di certe parole di Oriana Fallaci: «Oltre ad essere un tiranno è un gran villanzone». Peggio: «È clinicamente stupido». Peggio ancora: «È senz'altro il più cretino di tutti». Screanzata. Più ancora di Indro Montanelli, che lo aveva bollato come «un sinistro pagliaccio». Più di Reagan, che lo chiamava: «Il cane di Tripoli».
Vabbè, pietra sopra. Tutto cancellato dal rapporto con l'amico Silvio. Lui, Muammar, l'aveva detto già nel lontano 1994: «Io e Berlusconi siamo fatti per intenderci, in quanto rivoluzionari. Prevedo per lui grandi successi nella gestione dello Stato, così com'è stato nella gestione del Milan. La sua personalità è apparsa all'orizzonte cambiando tutto da cima a fondo». Certo, il Cavaliere non ha accettato tutti i suoi consigli su come risolvere le grane parlamentariste. L'anno scorso in Campidoglio, ad esempio, aveva detto: «Il partitismo è un aborto della democrazia. Se me lo chiedesse il popolo italiano gli darei il potere. Annullerei i partiti, affinché il popolo possa prendere il loro posto. Non ci sarebbero più elezioni e si verificherebbe l'unità di tutti gli italiani. Basta destra e sinistra. Il popolo italiano eserciterebbe il potere direttamente, senza rappresentanti». Quindi, all'università «La Sapienza», aveva spiegato che questa è l'essenza della democrazia: «Demos in arabo vuol dire popolo e crazi vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie». Aristotelico.
Allora, alle «letterine» affittate perché ascoltassero a ottanta euro l'una il sermone maomettano, aveva rivelato: «Sapete che al posto di Gesù crocifissero un suo sosia?». Questa volta, tra i sorridenti inchini e gli ossequiosi salamelecchi dei nostri uomini di governo solitamente ostili, diciamo così, a certi discorsi, è andato oltre: «L'Islam dovrebbe diventare la religione di tutta l'Europa». Lo dicesse l'imam di una sgangherata moschea di periferia sarebbe scaraventato fuori tra strilli di indignazione. Lo dice lui? Spallucce. È la politica, bellezza.
Così è fatto, «Papi» Muammar: adora essere circondato da cammelli, cavalli e puledre. Il tutto con una sobrietà che in quattro decenni di potere è diventata leggendaria. Oddio, diciamo la verità: il Colonnello si muove nel solco di una storia antica. È un secolo che gli italiani dalla Libia si aspettano cose spropositate. Basti ricordare come, per eccitare la fantasia dei lettori prima della conquista, l'inviato de «La Stampa» Giuseppe Bevione scriveva che laggiù c'erano «ulivi più colossali che le querce» e che l'erba medica poteva «essere tagliata 12 volte all'anno» e che i poponi crescevano «a grandezze incredibili, a venti e trenta chili per frutto». Va da sé che, con questi poponi alle spalle, il re beduino della Jamahiriyya non poteva essere da meno.
Il suo piccolo Paese, disse un giorno Igor Man, «gli è sempre andato stretto». Detto fatto, si è sempre mosso alla grande. Come quando si presentò al vertice dell'Unione africana ad Addis Abeba facendosi precedere da 15 lussuosissime auto blu personali fatte sbarcare da aerei giganteschi e scandalizzò tutti con due valigie («Un regalo del nostro leader ai capi di Stato africani», spiegarono i diplomatici) piene d'oro zecchino. O quando, sceso a Roma con la solita corte di 300 attaché, pretese che gli montassero una tenda di 60 metri quadrati a Villa Pamphilii con 12 poltrone dai piedi dorati, lampade, divanetti, tavoli e «grandi incensieri per profumar l'ambiente». O quando inaugurò un pellegrinaggio attraverso Swaziland, Mozambico, Malawi, Zimbabwe e Kenia presentandosi in Sudafrica con due Boeing 707 in configurazione Vip, un jet più piccolo d'appoggio, un gigantesco Antonov russo con a bordo due autobus di lusso da 46 posti, sessanta auto blindate e 400 guardie del corpo armate fino ai denti di kalashnikov. Più, piccolo dettaglio regal-pastorale, un container frigorifero di agnelli macellati.
Potevano i figli di tanto padre non seguirne l'esempio? No. Ed ecco Hannibal e Moutassem sgommare in Costa Smeralda al volante di una Ferrari a testa fino a far saltare i nervi del giardiniere della spettacolare villa presa in affitto, furibondo per la quotidiana raccolta di cocci delle bottiglie di champagne millesimato buttate dalla finestra. Ecco il conto preteso per via giudiziaria (la famiglia si era dimenticata di pagare) dall'hotel Excelsior di Rapallo per una vacanza di Al Saadi, detto l'Ingegnere: 392 mila euro per sei settimane. Ecco lo stesso Al Saadi, capricciosamente deciso a «giocare al calciatore professionista», affittare Villa Miotti a Tricesimo: 13 mila euro al mese. Spiccioli per un uomo che, volendo farsi insegnare qualche trucco sul palleggio, raccontò Emanuela Audisio su Repubblica, ingaggiò per gli allenamenti un trainer personale esclusivo: Diego Armando Maradona. Costo: 5 milioni di dollari.
Anche queste cose però, diciamo la verità, finiscono per annoiare. Ed è così che il despota tripolino, un bel giorno, ha deciso di commissionare alla Tesco Ts di Torino un'auto disegnata da lui medesimo. Possibile? Parola dei costruttori dei due prototipi: «Durante la realizzazione di questa macchina, l'équipe tecnica di Tesco Ts ha seguito alla lettera le idee del designer, il Leader, per produrre la vettura perfetta secondo la sua visione». E come poteva essere la vettura perfetta, per sua maestà Muammar? Rifiniture in marmo. Un capriccio è un capriccio. Se no che gusto c'è ad essere il leader di una Jamahiriyya Popolare e Socialista?
(di Gian Antonio Stella)
Diciamo la verità: era cominciata male, tra Gheddafi e gli italiani. Prima il fastidio delle polemiche sulla cacciata dei nostri connazionali buttati fuori dopo la rivoluzione. Poi lo strascico del rancore per la nostra occupazione coloniale che gli aveva fatto istituire la Giornata della Vendetta. Poi i seccanti sospetti su un suo coinvolgimento in certi episodi terroristici. Poi i missili contro Lampedusa e la rivendicazione della sovranità sulle Tremiti. Per non dire di certe parole di Oriana Fallaci: «Oltre ad essere un tiranno è un gran villanzone». Peggio: «È clinicamente stupido». Peggio ancora: «È senz'altro il più cretino di tutti». Screanzata. Più ancora di Indro Montanelli, che lo aveva bollato come «un sinistro pagliaccio». Più di Reagan, che lo chiamava: «Il cane di Tripoli».
Vabbè, pietra sopra. Tutto cancellato dal rapporto con l'amico Silvio. Lui, Muammar, l'aveva detto già nel lontano 1994: «Io e Berlusconi siamo fatti per intenderci, in quanto rivoluzionari. Prevedo per lui grandi successi nella gestione dello Stato, così com'è stato nella gestione del Milan. La sua personalità è apparsa all'orizzonte cambiando tutto da cima a fondo». Certo, il Cavaliere non ha accettato tutti i suoi consigli su come risolvere le grane parlamentariste. L'anno scorso in Campidoglio, ad esempio, aveva detto: «Il partitismo è un aborto della democrazia. Se me lo chiedesse il popolo italiano gli darei il potere. Annullerei i partiti, affinché il popolo possa prendere il loro posto. Non ci sarebbero più elezioni e si verificherebbe l'unità di tutti gli italiani. Basta destra e sinistra. Il popolo italiano eserciterebbe il potere direttamente, senza rappresentanti». Quindi, all'università «La Sapienza», aveva spiegato che questa è l'essenza della democrazia: «Demos in arabo vuol dire popolo e crazi vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie». Aristotelico.
Allora, alle «letterine» affittate perché ascoltassero a ottanta euro l'una il sermone maomettano, aveva rivelato: «Sapete che al posto di Gesù crocifissero un suo sosia?». Questa volta, tra i sorridenti inchini e gli ossequiosi salamelecchi dei nostri uomini di governo solitamente ostili, diciamo così, a certi discorsi, è andato oltre: «L'Islam dovrebbe diventare la religione di tutta l'Europa». Lo dicesse l'imam di una sgangherata moschea di periferia sarebbe scaraventato fuori tra strilli di indignazione. Lo dice lui? Spallucce. È la politica, bellezza.
Così è fatto, «Papi» Muammar: adora essere circondato da cammelli, cavalli e puledre. Il tutto con una sobrietà che in quattro decenni di potere è diventata leggendaria. Oddio, diciamo la verità: il Colonnello si muove nel solco di una storia antica. È un secolo che gli italiani dalla Libia si aspettano cose spropositate. Basti ricordare come, per eccitare la fantasia dei lettori prima della conquista, l'inviato de «La Stampa» Giuseppe Bevione scriveva che laggiù c'erano «ulivi più colossali che le querce» e che l'erba medica poteva «essere tagliata 12 volte all'anno» e che i poponi crescevano «a grandezze incredibili, a venti e trenta chili per frutto». Va da sé che, con questi poponi alle spalle, il re beduino della Jamahiriyya non poteva essere da meno.
Il suo piccolo Paese, disse un giorno Igor Man, «gli è sempre andato stretto». Detto fatto, si è sempre mosso alla grande. Come quando si presentò al vertice dell'Unione africana ad Addis Abeba facendosi precedere da 15 lussuosissime auto blu personali fatte sbarcare da aerei giganteschi e scandalizzò tutti con due valigie («Un regalo del nostro leader ai capi di Stato africani», spiegarono i diplomatici) piene d'oro zecchino. O quando, sceso a Roma con la solita corte di 300 attaché, pretese che gli montassero una tenda di 60 metri quadrati a Villa Pamphilii con 12 poltrone dai piedi dorati, lampade, divanetti, tavoli e «grandi incensieri per profumar l'ambiente». O quando inaugurò un pellegrinaggio attraverso Swaziland, Mozambico, Malawi, Zimbabwe e Kenia presentandosi in Sudafrica con due Boeing 707 in configurazione Vip, un jet più piccolo d'appoggio, un gigantesco Antonov russo con a bordo due autobus di lusso da 46 posti, sessanta auto blindate e 400 guardie del corpo armate fino ai denti di kalashnikov. Più, piccolo dettaglio regal-pastorale, un container frigorifero di agnelli macellati.
Potevano i figli di tanto padre non seguirne l'esempio? No. Ed ecco Hannibal e Moutassem sgommare in Costa Smeralda al volante di una Ferrari a testa fino a far saltare i nervi del giardiniere della spettacolare villa presa in affitto, furibondo per la quotidiana raccolta di cocci delle bottiglie di champagne millesimato buttate dalla finestra. Ecco il conto preteso per via giudiziaria (la famiglia si era dimenticata di pagare) dall'hotel Excelsior di Rapallo per una vacanza di Al Saadi, detto l'Ingegnere: 392 mila euro per sei settimane. Ecco lo stesso Al Saadi, capricciosamente deciso a «giocare al calciatore professionista», affittare Villa Miotti a Tricesimo: 13 mila euro al mese. Spiccioli per un uomo che, volendo farsi insegnare qualche trucco sul palleggio, raccontò Emanuela Audisio su Repubblica, ingaggiò per gli allenamenti un trainer personale esclusivo: Diego Armando Maradona. Costo: 5 milioni di dollari.
Anche queste cose però, diciamo la verità, finiscono per annoiare. Ed è così che il despota tripolino, un bel giorno, ha deciso di commissionare alla Tesco Ts di Torino un'auto disegnata da lui medesimo. Possibile? Parola dei costruttori dei due prototipi: «Durante la realizzazione di questa macchina, l'équipe tecnica di Tesco Ts ha seguito alla lettera le idee del designer, il Leader, per produrre la vettura perfetta secondo la sua visione». E come poteva essere la vettura perfetta, per sua maestà Muammar? Rifiniture in marmo. Un capriccio è un capriccio. Se no che gusto c'è ad essere il leader di una Jamahiriyya Popolare e Socialista?
(di Gian Antonio Stella)
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