Silvio Berlusconi, con Mondadori, è il più importante editore di sinistra, è vero, ma non potrebbe – come ha chiesto ieri Antonio Socci su Libero – mutare la propria ragione sociale commerciale, diventare insomma di destra, per una ragione di spicciola economia: non avrebbe più clientela. Né, tanto meno, fornitori della materia prima, gli autori che sono quello che sono perché devono andare da Fabio Fazio in tivù, devono vendere e farsi amare dalle professoresse democratiche. Tutto qua. Ecco perché l’appello di Vito Mancuso – uscire tutti dal catalogo di Segrate, tutti fuori – è caduto nel vuoto.
Non c’è casa più politicamente corretta della cultura. E Mondadori, col suo prestigio, non può avventurarsi oltre i lidi sicuri del dogma. Compreso l’antiberlusconismo di maniera. Non c’è altro marchio tra gli acculturati, poi, che la sinistra. E sempre vale – ahimè – il teorema più che perfetto stabilito da Michele Serra: “Sono doppiamente svantaggiati gli scrittori di destra. I lettori di sinistra non li leggono perché sono di destra, i lettori di destra, invece, non leggono”.
Quello che giustamente chiede Socci, “raccontare fatti nuovi, la nuova cultura che germoglia”, non può accadere per l’inamovibilità di un sistema collaudato nel luogo comune e nel riflesso condizionato: quello del buttarsi a sinistra. Lettori compresi. Io che vengo dal Cattiverio (restandoci, perfino in chiave saracena), sono un autore Mondadori, non sputo certo nel piatto in cui mangio e capisco le ragioni della Casa quando mi mandano a mangiare in cucina. L’apparato della cosiddetta immagine è assai attento nel veicolare un’aura di sacrale compostezza laica, democratica e de sinistra. La vittoria di Antonio Pennacchi allo Strega – e stiamo parlando di un grande scrittore, un comunista, non di un mammasantissima chic e radical – mi ha fatto godere oltre che per il merito, per tutto quello che ne consegue in termini di cautela. Pennacchi è un dio della parola forte e chiara, uno che non conosce la mezza misura e che ha il garbo rivoluzionario dell’Italia proletaria fascio-comunista. E’ uno che non c’entra con la cricca delle mezze vergini di sinistra, uno che non potrà andare da Fabio Fazio o da Serena Dandini e non potrò mai dimenticare quando, all’indomani dello Strega, vidi gli amici in Mondadori, segnati in volto dal terrore all’idea di vedere Pennacchi alle prese con il suo primo appuntamento pubblico: nientemeno che una serata a Viterbo, al festival di “Caffeina”. Non a Mantova, dunque, non a Capalbio, non in un posto adatto alle professoresse democratiche, ma “in mezzo a tutti quei fasci”. Nella città, insomma, dove Giorgio Almirante andava a chiudere le campagne elettorali. Ovviamente fu un trionfo, “Canale Mussolini” ebbe la sua festa ma ancora oggi, a me e a Pennacchi, c’intimano affettuosamente di stare lontani perché quando siamo insieme, io e lui, ci facciamo da reciproco detonatore per sparate fuori dal target delle professoresse democratiche (Dio le stramaledica!). E quindi zitti, a maggior ragione con il Campiello alle porte, con tutte quelle professoresse democratiche della giuria popolare, tutte così sensibili.
Quella scena, quella di Viterbo, mi svegliò il ricordo di un altro episodio, quando agli inizi della sfolgorante ascesa di Paolo Giordano, l’autore de “La solitudine dei numeri primi”, misi a disposizione il Teatro Stabile di Catania per organizzare una serata. Un’occasione anche commercialmente ghiotta: grande folla, grandi numeri, ottima visibilità. Avevamo appena collaudato una formula semplice e accattivante: fare intervistare l’autore da un lettore particolare e il nome che, per simpatia, per affinità generazionale con l’autore e per il forte richiamo di pubblico che ne sarebbe derivato, fu quello di Giorgia Meloni, il ministro. Non ci fu verso. Manco poco e avrebbe chiamato perfino Marina Berlusconi per scongiurare l’arrivo della Meloni. E quando feci questa obiezione, “Se avessi scelto Giovanna Melandri avreste certamente apprezzato la scelta”, la risposta fu: “Ma è una cosa diversa”.
Certo che è una cosa diversa buttare a sinistra la fatica promozionale, il messaggio, il mezzo, la parola e l’alfabeto ma pranzare in cucina è più dignitoso dello sputare nel piatto in cui si mangia solo perché al ristorante si accomodano i garanti del conformismo, i critici dei punti qualità sul tasso di anti-berlusconismo degli sputacchiatori a libro paga.
Ovvio che la cultura, a questo punto, specie di questi tempi, debba restare alle professoresse democratiche perché temo che nell’industria editoriale siano un tantino disinformati su quello che succede nel mondo vero. Non lo sanno che la gente preferisce la Meloni alla Melandri, non sanno neppure che “Caffeina”, il festival di Viterbo, è ambito dalla sinistra e che gli operai sono quelli di Pennacchi, non i compulsatori delle classifiche dei libri più venduti.
Temo che dei giornali, gli addetti alla confezione editoriale, sfoglino solo le pagine culturali che sono solo verminai passatisti per dirla con il Filippo Tommaso, non sensori con cui catturare “la nuova cultura che germoglia”. Ovvio che il cardinale Scola è più teologo di Mancuso, ha ragione Socci, ma temo che sarà dura risolverla in dibattito. E’ l’eterna guerra tra la fuffa e la sostanza, l’invincibilità delle cicale sopravvalutate sulle formiche operaie, con la collaborazione attiva del Caimano il quale deve pur dare al pubblico ciò che vuole. E Mondadori non dovrà mai liberarsi dei compagni, anzi.
Magari Berlusconi manco se lo ricorda di essere proprietario di Einaudi, della Mondadori sì perché, a voler essere pignoli, e a volerlo dire noi che siamo di casa, ci pubblicò un libro elettorale. Un titolo fuori catalogo, fuori collana, fuori dall’estetica perfino, cosa ben più importante dell’etica, solo che quella volta, la Casa, ebbe il buon gusto di confezionare la redazione del suddetto libro a palazzo Grazioli, non a Segrate. Giusto per non contaminare la fabbrica culturale con la propaganda.
Per fortuna l’episodio è stato dimenticato ma il commercio è commercio, e migliore venditore di Berlusconi non ce n’è, prova ne sia che quando balenò l’idea di bissare il successo dei successi, ovvero, “Il libro delle barzellette di Totti”, con “Il libro delle barzellette di Berlusconi”, ai dirigenti della casa editrice che tentavano un timido sondaggio sull’eventualità di farlo un libro così, chiedendogli un parere, il più grande editore di sinistra nel mercato rispose: “Fatelo pure il libro delle mie barzellette, altro che. Purchè venda più di quello di Totti”.
(di Pietrangelo Buttafuoco)
Non c’è casa più politicamente corretta della cultura. E Mondadori, col suo prestigio, non può avventurarsi oltre i lidi sicuri del dogma. Compreso l’antiberlusconismo di maniera. Non c’è altro marchio tra gli acculturati, poi, che la sinistra. E sempre vale – ahimè – il teorema più che perfetto stabilito da Michele Serra: “Sono doppiamente svantaggiati gli scrittori di destra. I lettori di sinistra non li leggono perché sono di destra, i lettori di destra, invece, non leggono”.
Quello che giustamente chiede Socci, “raccontare fatti nuovi, la nuova cultura che germoglia”, non può accadere per l’inamovibilità di un sistema collaudato nel luogo comune e nel riflesso condizionato: quello del buttarsi a sinistra. Lettori compresi. Io che vengo dal Cattiverio (restandoci, perfino in chiave saracena), sono un autore Mondadori, non sputo certo nel piatto in cui mangio e capisco le ragioni della Casa quando mi mandano a mangiare in cucina. L’apparato della cosiddetta immagine è assai attento nel veicolare un’aura di sacrale compostezza laica, democratica e de sinistra. La vittoria di Antonio Pennacchi allo Strega – e stiamo parlando di un grande scrittore, un comunista, non di un mammasantissima chic e radical – mi ha fatto godere oltre che per il merito, per tutto quello che ne consegue in termini di cautela. Pennacchi è un dio della parola forte e chiara, uno che non conosce la mezza misura e che ha il garbo rivoluzionario dell’Italia proletaria fascio-comunista. E’ uno che non c’entra con la cricca delle mezze vergini di sinistra, uno che non potrà andare da Fabio Fazio o da Serena Dandini e non potrò mai dimenticare quando, all’indomani dello Strega, vidi gli amici in Mondadori, segnati in volto dal terrore all’idea di vedere Pennacchi alle prese con il suo primo appuntamento pubblico: nientemeno che una serata a Viterbo, al festival di “Caffeina”. Non a Mantova, dunque, non a Capalbio, non in un posto adatto alle professoresse democratiche, ma “in mezzo a tutti quei fasci”. Nella città, insomma, dove Giorgio Almirante andava a chiudere le campagne elettorali. Ovviamente fu un trionfo, “Canale Mussolini” ebbe la sua festa ma ancora oggi, a me e a Pennacchi, c’intimano affettuosamente di stare lontani perché quando siamo insieme, io e lui, ci facciamo da reciproco detonatore per sparate fuori dal target delle professoresse democratiche (Dio le stramaledica!). E quindi zitti, a maggior ragione con il Campiello alle porte, con tutte quelle professoresse democratiche della giuria popolare, tutte così sensibili.
Quella scena, quella di Viterbo, mi svegliò il ricordo di un altro episodio, quando agli inizi della sfolgorante ascesa di Paolo Giordano, l’autore de “La solitudine dei numeri primi”, misi a disposizione il Teatro Stabile di Catania per organizzare una serata. Un’occasione anche commercialmente ghiotta: grande folla, grandi numeri, ottima visibilità. Avevamo appena collaudato una formula semplice e accattivante: fare intervistare l’autore da un lettore particolare e il nome che, per simpatia, per affinità generazionale con l’autore e per il forte richiamo di pubblico che ne sarebbe derivato, fu quello di Giorgia Meloni, il ministro. Non ci fu verso. Manco poco e avrebbe chiamato perfino Marina Berlusconi per scongiurare l’arrivo della Meloni. E quando feci questa obiezione, “Se avessi scelto Giovanna Melandri avreste certamente apprezzato la scelta”, la risposta fu: “Ma è una cosa diversa”.
Certo che è una cosa diversa buttare a sinistra la fatica promozionale, il messaggio, il mezzo, la parola e l’alfabeto ma pranzare in cucina è più dignitoso dello sputare nel piatto in cui si mangia solo perché al ristorante si accomodano i garanti del conformismo, i critici dei punti qualità sul tasso di anti-berlusconismo degli sputacchiatori a libro paga.
Ovvio che la cultura, a questo punto, specie di questi tempi, debba restare alle professoresse democratiche perché temo che nell’industria editoriale siano un tantino disinformati su quello che succede nel mondo vero. Non lo sanno che la gente preferisce la Meloni alla Melandri, non sanno neppure che “Caffeina”, il festival di Viterbo, è ambito dalla sinistra e che gli operai sono quelli di Pennacchi, non i compulsatori delle classifiche dei libri più venduti.
Temo che dei giornali, gli addetti alla confezione editoriale, sfoglino solo le pagine culturali che sono solo verminai passatisti per dirla con il Filippo Tommaso, non sensori con cui catturare “la nuova cultura che germoglia”. Ovvio che il cardinale Scola è più teologo di Mancuso, ha ragione Socci, ma temo che sarà dura risolverla in dibattito. E’ l’eterna guerra tra la fuffa e la sostanza, l’invincibilità delle cicale sopravvalutate sulle formiche operaie, con la collaborazione attiva del Caimano il quale deve pur dare al pubblico ciò che vuole. E Mondadori non dovrà mai liberarsi dei compagni, anzi.
Magari Berlusconi manco se lo ricorda di essere proprietario di Einaudi, della Mondadori sì perché, a voler essere pignoli, e a volerlo dire noi che siamo di casa, ci pubblicò un libro elettorale. Un titolo fuori catalogo, fuori collana, fuori dall’estetica perfino, cosa ben più importante dell’etica, solo che quella volta, la Casa, ebbe il buon gusto di confezionare la redazione del suddetto libro a palazzo Grazioli, non a Segrate. Giusto per non contaminare la fabbrica culturale con la propaganda.
Per fortuna l’episodio è stato dimenticato ma il commercio è commercio, e migliore venditore di Berlusconi non ce n’è, prova ne sia che quando balenò l’idea di bissare il successo dei successi, ovvero, “Il libro delle barzellette di Totti”, con “Il libro delle barzellette di Berlusconi”, ai dirigenti della casa editrice che tentavano un timido sondaggio sull’eventualità di farlo un libro così, chiedendogli un parere, il più grande editore di sinistra nel mercato rispose: “Fatelo pure il libro delle mie barzellette, altro che. Purchè venda più di quello di Totti”.
(di Pietrangelo Buttafuoco)
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