domenica 10 ottobre 2010

Dossieraggi killeraggi pompieraggi


Che cosa ho imparato nei primi anni di giornalismo? Alla Stampa, al Giorno e al Corriere della sera, mi hanno insegnato che l’inchiesta è il top della professione, la prova di eccellenza, il traguardo glorioso di un cronista. A Repubblica la pensava nello stesso modo Eugenio Scalfari. Del resto lui veniva da anni di Espresso. E con Lino Jannuzzi aveva scritto un’indagine rimasta famosa contro il Piano Solo del generale Giovanni De Lorenzo.

Piero Ottone, direttore del Corriere della sera, amava molto le inchieste. Ne ricordo una che scrissi per lui, insieme a Gaetano Scardocchia. Era il febbraio 1976 quando emerse lo scandalo Lockheed, la grande azienda americana che fabbricava aerei. La Lockheed era sospettata di aver pagato tangenti a politici italiani per facilitare la vendita dei suoi Hercules C 130, destinati all’aeronautica militare.

Vedo dai miei taccuini che Scardocchia e io pubblicammo sul Corriere ben tredici articoli, un numero insolito per l’epoca, tirando in ballo eccellenze della politica e dell’industria. Le reazioni furono tante.

non escludo che nella nostra indagine ci fossero errori. Ma nessuno ci accusò di aver fatto del dossieraggio. O di aver tentato di uccidere moralmente questo o quel big.

Oggi qualunque inchiesta giornalistica sfiori un potente diventa subito un dossier. E gli autori dell’indagine vengono bollati come killer che sparano parole micidiali quanto le pallottole. Siamo dunque arrivati al dossieraggio e al killeraggio.

Il lancio della nuova moda è merito soprattutto di Italo Bocchino, il numero uno delle teste di cuoio di Gianfranco Fini. Qualunque leader politico vorrebbe avere uno scudiero come lui. Bocchino ha imparato meglio di tutti una vecchia lezione mediologica: il mezzo è il messaggio. Se ripeti all’infinito, su tutti i media, che l’uovo di Cristoforo Colombo era di gesso, qualcuno finirà per crederci.

Dopo cinquant’anni di giornalismo, posso permettermi di ridere delle trovate di Bocchino. Pensando che anche lui, come tutti i ras della casta partitica, preferisca il pompieraggio. Ossia l’arte di spegnere con getti d’acqua gelida qualsiasi notizia in grado di infastidire un leader. E al tempo stesso pomparne l’immagine illibata, priva di macchie. È quanto è stato tentato per Gianfranco Fini e per la storiaccia della casa di Montecarlo, del cognato intraprendente, dei favori ottenuti dalla Rai.

Ma Il Giornale di Vittorio Feltri e Libero di Maurizio Belpietro sono andati avanti per la loro strada. Suscitando la desolata irritazione dei media che da sempre combattono Silvio Berlusconi con le stesse armi. Ossia con campagne giornalistiche protratte per settimane e settimane, senza andare per il sottile. Anche in questo caso è prevalsa la nevrosi anti-Cav. Se l’obiettivo è il maledetto Berlusca, tutto è lecito. Se invece sotto tiro stanno gli oppositori del premier, allora devono entrare in scena i pompieri.

Ho spiegato più volte che del Cavaliere non m’importa nulla. Non l’ho mai votato, né l’ho mai frequentato. La stessa indifferenza ho per il presidente della Confindustria, la signora Emma Marcegaglia. Adesso nel mirino del Giornale e di Libero c’è lei, per aver dichiarato al pubblico ministero napoletano di sentirsi minacciata dal quotidiano di Feltri e di Alessandro Sallusti. Per di più a causa di articoli mai pubblicati, però pubblicabili. Avallando in questo modo un’indagine pesante sul comportamento del vertice del Giornale, Sallusti e Nicola Porro.

Sono convinto che l’inchiesta giudiziaria si rivelerà una bolla di sapone. Ma posso anche sbagliarmi. Un antico detto cinese sostiene che la giustizia è come un timone: dove lo giri, la barca va da una parte o dall’altra. Sull’affare Marcegaglia esistono però un paio di certezze.

La prima riguarda il comportamento della signora Emma. Fare il presidente di Confindustria è un mestiere simile a quello del leader di partito. Palmiro Togliatti sosteneva che, per fare politica, fosse necessario avere la pelle del rinoceronte. Vale a dire essere insensibile ai colpi degli avversari. Ho fatto in tempo a conoscere Angelo Costa, l’armatore genovese per due volte capo di Confindustria. Era un vero duro, classe 1901, e non sarebbe mai andato a lamentarsi con un altro padrone dei problemi che gli potevano venire da un giornale.

La potente signora Marcegaglia, invece, si è comportata come Winston Churchill, senza esserlo. Lui diceva: «Parlo soltanto con le proprietà dei giornali, mai con i direttori e i giornalisti». Emma si è condotta così, telefonando a Fedele Confalonieri, che sta nel consiglio d’amministrazione del Giornale. Senza rendersi conto di maneggiare un boomerang. E di mettersi al centro della scena. Un palco ruvido perché non privo di problemi per la sua azienda.

Lei temeva un dossier e l’ha avuto subito. Prima ancora che dal Giornale e da Libero, da una testata della sponda opposta. È Il Fatto Quotidiano che, con un giorno d’anticipo, ha pubblicato lo scabro articolo di un bravo giornalista economico, Vittorio Malagutti. Intitolato “Quanti guai per l’azienda di Emma la zarina”.

Morale della favola? In tempi di politica debole e confusa, i giornali è meglio lasciarli stare. Stampare notizie sgradite ai potenti è sempre stato il loro compito. Del resto il clima cattivo, denunciato per primo dal “Bestiario”, non è colpa della stampa. Bensì dei violenti che la minacciano di continuo, anche nelle persone dei giornalisti. Come è accaduto, sta accadendo e seguiterà ad accadere.

(di Giampaolo Pansa)

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