Oggi, alcuni dei protagonisti di quel dialogo li ritroviamo tra i promotori del “manifesto di ottobre”, definizione che ha a sua volta una storia (e che storia: così si chiamava il provvedimento con il quale, nell’ottobre del 1905, lo zar Nicola II concedeva Costituzione e Parlamento ai russi). Nella versione odierna, che sarà presentata a Milano il 25 ottobre, indica il “progetto per l’Italia contemporanea” che vuole “sfruttare il varco che si è aperto con Futuro e libertà”, in una fase di “sommovimento geologico delle ideologie”, come ha scritto ieri sul Secolo d’Italia Peppe Nanni. Uno dei massimi officianti, con lo stato maggiore della fondazione FareFuturo e con Libertiamo di Benedetto Della Vedova, del laboratorio cultural-politico che ingaggia Franco Cardini e Massimo Cacciari, Angelo Mellone e Giacomo Marramao, Fabio Granata e Franco La Cecla, Flavia Perina e Gianni Borgna. Tutti, di nuovo, apparentati dalla conclamata volontà di “rompere gli steccati”. Ambizione che ha una storia, come si diceva all’inizio. Ma ora che storia è diventata? Se negli anni Ottanta il problema era uscire dalla Guerra fredda, oggi dove va a parare il trasversalismo del “manifesto di ottobre”? E il Cacciari che dialogava ieri con Tarchi su Heidegger è davvero lo stesso che oggi si augura di poter votare Montezemolo?
Marcello Veneziani, ormai lontano da Gianfranco Fini e sempre più convinto che “la destra sia diventata una sinistra in ritardo”, dice al Foglio che c’è “totale estraneità tra processi culturali e la leadership di Fini. C’è invece l’intelligenza di alcuni esponenti a lui vicini, che cercano di dare caratteristiche culturali a un’operazione finiana nata per ragioni tattico-personali. Detto questo, il dialogo è sempre positivo. Personalmente, con Cacciari e Marramao non l’ho mai interrotto. Ma si vuol far scendere nella politica un dibattito che fino a ieri riguardava idee metapolitiche, se non impolitiche. E’ una forzatura, tatticamente conveniente”. Da sinistra, lo storico Luciano Canfora osserva “che i partiti tradizionali si sono disfatti tra l’89 e il ’93, e non c’è ancora un nuovo assetto, tanto che all’interno dei partiti attuali ci sono grandissime difformità di pensiero. Altrove – in Germania, in Francia, in Gran Bretagna – il quadro è stabile, da noi no. Vuol dire che eravamo ‘acerbi’ o che siamo molto avanti o molto indietro? Non lo so. So che le iniziative come quella di cui stiamo parlando sono frutto di questi riassestamenti. Se sono utili? E’ difficile dirlo. Gli intellettuali sono un po’ come gli abitanti delle Isole dei beati descritte da Diodoro Siculo: elastici e capaci di parlare contemporaneamente con due lingue e con due diversi interlocutori”.
Gianfraco De Turris, studioso di Evola e partecipe della prima stagione di dialogo con alcuni intellettuali di sinistra, boccia l’iniziativa del “manifesto di ottobre”, e si stupisce di trovarvi coinvolti da protagonisti “Centanni e Nanni, già esponenti della nuova destra tarchiana. Il dialogo destra-sinistra con persone intelligenti va sempre bene. Ma ai tempi era iniziativa privata, fatta a dispetto dell’ostilità dei partiti di appartenenza, ora è qualcosa a supporto di una nuova forza politica. Qualcosa di confuso, gestito da persone (parlo di chi arriva da An) che hanno cambiato idea alcune migliaia di volte”. Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera, ricorda che l’epoca Tarchi-Cacciari “era quella del ponte tra due blocchi di granito. Ora, per dirla con Bauman, le identità sono liquefatte. E la forma scelta per l’iniziativa, il manifesto e l’appello, profuma di novecentesco e di ‘rive gauche’. Ricordiamo che c’è stata molta ‘rive gauche’ anche a destra, come spiega un famoso saggio di Lottman, che racconta come in periodi presartriani l’egemonia culturale, in Francia, era di destra. ‘Gringoire’, settimanale di destra con simpatie antisemite, vendeva trecentomila copie”. Oggi, nota Battista, “si è sgretolata definitivamente la vecchia identità culturale della destra, a vantaggio di icone liberaldemocratiche come Arendt, Furet, Aron. Poi c’è stata la corsa alle icone della sinistra: non più Flaiano ma Saviano”. E’ la “pietra tombale del passatismo che fu centrale nell’identità missina e ora diventa odiosa alla meglio gioventú finiana”, come ha scritto Alessandro Giuli nel suo pamphlet sulla destra postfascista (“Il passo delle oche”, Einaudi).
Per Marco Tarchi, il “manifesto di ottobre” è, “nel migliore dei casi, una buona operazione di marketing. In tutti questi anni non ho visto nessun nuovo progetto di società delinearsi attraverso Charta minuta o FareFuturo. Penso allo scioglimento di An, con fuochi d’artificio esilaranti, in cui si citava tutto e il contrario di tutto. Il che significa che dietro non c’era nulla, salvo il desiderio di accreditarsi come classe dirigente candidata a scalzare quella di Forza Italia. L’opportunismo in politica serve, ma se c’è identità. Negli anni Ottanta, il dialogo era un tentativo di verificare se ci si poteva riconoscere fratelli su alcuni punti, scorticando le identità ideologiche e vedendo se fosse possibile convergere sull’essenziale. I ‘patroni’ ideali di quell’operazione erano gli autori di culto di una parte, diventati autori di studio dell’altra. Tutto questo avveniva in funzione totalmente alternativa al pensiero liberale, al mercantilismo, all’individualismo, all’occidentalismo. Fa tristezza vedere persone che prefiguravano con toni arditistici il superamento dell’esperienza liberale del Novecento ritagliarsi una nicchia nel politicamente corretto, in tutto quello che fa spettacolo, nell’idea che l’italianità è la Ferrari”.
(di Nicoletta Tiliacos)
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