domenica 7 novembre 2010

Anche se Fini punta sui poteri forti Fli continua ad essere un azzardo


Forse voleva far indignare, Flavia Perina, con il fondo vibrante sul Secolo d’Italia di qualche giorno fa. Forse ha pensato, perfino in buona fede, che avesse il dovesse morale di urlare come un cubano censurato da Castro, come un cinese imbavagliato dal regime comunista. Peccato che in questo caso non si discuta di libertà conculcate, ma solo della pretesa dei vertici di un foglio – un tempo patrimonio epidermico di una comunità politica, solida e ghettizzata – di restare in vita senza vendere una copia, e di coprire di contumelie la magna pars di quel mondo, non più disponibile a tollerare le bizzarrie di chi è passato – la stessa direttora Perina, tra gli altri – dal rautismo alla “destra nuova” di Fini e Granata.

“Ci vogliono cancellare”, scrive sul Secolo: questione di soldi per la sopravvivenza che gli ingenerosi padroni dell’ex An rimasti col Cavaliere (La Russa, Gasparri, Alemanno, Matteoli) non vorrebbero concedere alla direzione del giornale, divenuta militarmente finiana. Le questioni che indignano in radice, allora, sono due e non hanno nulla a che fare con l’usbergo irritante del “censurato a priori”: le vendite e la nuova ragione sociale del quotidiano.

Prima questione: possibile che la direttora non avverta il bisogno di scrivere una riga sull’azzeramento della quota lettori? Il Secolo era una voce di trincea acquistata da 8mila italiani negli anni Ottanta, che faceva 14/15mila abbonati (per quanto, nelle stagioni d’oro, la formula del giornale a casa fosse legata al tesseramento al partito; ma è un dato che testimonia comunque un grado elevatissimo di fidelizzazione). Oggi è fatto di pagine invendute, in cui si spara a palle incatenate contro il Cavaliere, e dove il tasso di “libertà” della destra nuova (da opporre ossessivamente al servilismo della “destra vecchia” che ha seguito Berlusconi) si misura dai consensi “politically correct” che vengono dall’altra parte.

Seconda questione: Fini, Perina e sodali – giacché sono stati loro a cambiare idea su tutto e non altri – hanno chiesto a quella comunità politica il permesso di trasformare il giornale di tutti nel megafono di una parte minoritaria? No, non si ha notizia che il presidente della Camera, o la censurata firma, abbiano indirizzato una lettera a quel mondo. Non a La Russa o Alemanno, ma a quelle migliaia di militanti per cui il Secolo era orgoglio e rischio di farsi aprire la testa con una chiave inglese.

Sono lontani i tempi della redazione di Via Milano, della foto in bianco e nero tutti insieme attorno a una palla di cuoio, del centralinista storico che all’alzata della cornetta violentava i timpani con un altisonante “Secolooooooo!”. Tanto, di queste vicende, ne sa Marco Tarchi, oggi ordinario di Scienza politica all’Università di Firenze; uomo che da animatore della Nuova Destra, fondatore del foglio di satira politica “La Voce della Fogna” e dirigente di punta del Movimento sociale, ha patito la censura, quella vera. Un intellettuale di rara sostanza che smaschera impietosamente contraddizioni e ipocrisie dell’oggi finiano.

Professor Tarchi, cos’era il Secolo d’Italia e cos’è diventato?

Il Secolo d’Italia era il quotidiano di un partito che non esiste più – Alleanza nazionale –, che per una serie di noti motivi non si è adeguato alle posizioni della formazione politica in cui quel partito si era integrato. E che, nonostante ciò, fino a pochi mesi fa si dichiarava, nella testata, organo del Popolo della Libertà. Un’evidente incongruenza, che spiega perché oggi quella parte maggioritaria dell’ex An che nel Pdl è rimasta non intenda più sostenere economicamente l’esistenza di un foglio che le rivolge ogni giorno critiche e accuse.

Il rischio di essere tacciati di censura, da destra, non sta demolendo ogni istinto di reazione culturale? Si fa strada una resa sistematica “a prescindere”, in nome della quale tutto si può fare pur di non essere accusati di “mettere il bavaglio”…

Nella lunga storia delle scissioni nei partiti, l’argomento dell’altrui censura è sempre stato abbondantemente utilizzato. Chi oggi sta dalla parte di Fini sa bene come costui abbia gestito in passato il suo partito, negando sistematicamente a chi dissentiva il diritto di farlo. Non si può dimenticare che la metafora delle correnti come metastasi da estirpare è stata usata dall’attuale presidente della Camera, pochi anni fa, per tappare la bocca a chi ne metteva in discussione la linea.

Il direttore del Secolo usa la stessa tattica di Santoro?

Certamente, in entrambi i casi il vittimismo ha larga circolazione. Flavia Perina denuncia il “fastidio per chi è fuori dal coro” manifestato oggi dal Pdl. Ma il Secolo d’Italia di quel fastidio ha un’antica tradizione. Ne ho parecchi ricordi personali. Ai tempi di Almirante, chi cantava fuori dal coro anche per poche note finiva rapidamente fuori dal partito e il Secolo d’Italia lo condannava alla non-esistenza. Una condanna che poteva durare a lungo. Personalmente, non solo quando venni dichiarato “decaduto dall’iscrizione” dal Msi, di cui ero dirigente nazionale, non venni mai più citato neppure quando della Nuova Destra e di me scrivevano un po’ tutti i giornali italiani; ma ancora nel 1997 – sedici anni dopo, con Fini presidente di An – una redattrice di quel quotidiano mi telefonò per dirmi che aveva letto il mio libro Dal Msi ad An (un testo scientifico, privo di qualsiasi inflessione valutativa), che lo aveva apprezzato ma non poteva scriverne perché un ordine di servizio interno – nientemeno! – aveva chiarito che il mio nome non andava fatto… Anche lamentarsi della “onnipresenza televisiva” di Belpietro e Sallusti, quando Rossi, Campi, la stessa Perina e gli altri esponenti di Futuro e Libertà sono invitati, e trattati coi guanti, in tutti i salotti tv, è decisamente fuori luogo.

Come fa la Perina a escludere che il metro di consenso verso le posizioni finiane derivi anche dal numero di lettori del giornale? Non ammette, il direttore del Secolo, che il “nuovo mondo” di Fini possa misurarsi con la verifica del consenso di popolo?

Il discorso andrebbe ampliato. Il sistema di contributi pubblici consente all’editoria di partito di restare in vita a prescindere dal sostegno dei lettori, con tanti saluti al mercato, tanto esaltato per le sue presunte virtù regolative. Poiché i partiti incassano un robusto rimborso elettorale, dovrebbe spettare solo a loro finanziare i propri organi di stampa. Salvo poi verificare che riscontro hanno in termini di consenso.

È giusto che il giornale di una intera comunità politica mantenga la stessa testata quando esso assume definitivamente le posizioni di una corrente minoritaria e in contrasto frontale con la maggioranza?

Più che giusto o ingiusto, è politicamente insensato pretendere che ciò venga consentito da coloro che da quel giornale ricevono continui attacchi.

La Perina nell’articolo di fondo ripete la parola “destra” per sette volte. Come giudica il fatto che la stessa etichetta propria del pur multiforme universo della Fiamma venga utilizzata oggi negli editoriali del Secolo e di Farefuturo? Che annuncia… “Chiamateci futuristi. Ma di un futurismo pacifico, pacificato, liberato, liberale e democratico. Postmoderno. Riformista. Sorridente. Solare”.

Quello di Fli è un difficile equilibrismo. Non vuole perdere le simpatie di molti ex elettori di An, che ne avevano accettato la collocazione a destra del centrodestra, e nel contempo ha bisogno di raccogliere il plauso di ambienti di sinistra, che lo legittimino come l’alternativa ragionevole, seria, pacata – e molto meno difficile da sconfiggere elettoralmente – al berlusconismo. Questo è il motivo di un uso della categoria di destra che rasenta il controsenso: oggi la si esalta, ieri la si dichiarava da superare, domani chissà.

Cos’era la “nuova destra” di Tarchi e cos’è la “destra nuova” di Fini? Conosce bene il presidente della Camera: sono svolte che l’hanno sorpresa o in nuce era tutto annunciato?

Sono due soggetti di ispirazione culturale, mentalità, idee e modalità di azione profondamente diverse. Nel libro “La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova Destra”, che ho curato di recente per Vallecchi, ne ho dato dimostrazione nell’unico modo onesto e trasparente possibile: rinviando alle idee espresse dalla ND nei suoi moltissimi testi e documenti, e confrontandole con le odierne posizioni degli ambienti finiani. Sono separate da un abisso. Ma mentirei se dicessi che le svolte di Fini e, soprattutto, il sostegno che esse hanno ricevuto da alcuni ex esponenti della Nuova Destra mi hanno sorpreso. In politica, il senso delle opportunità da cogliere ha un ruolo cruciale, e l’opportunismo che ne deriva è frequente. Oggi, Fini, che ha sempre teso ad adeguarsi rapidamente al mutare degli scenari, garantisce a chi lo circonda visibilità e trattamenti di favore in molti ambienti. Di rado, in politica, la coerenza paga.

Attorno a Fini si è coagulato un seguito di rautiani, socialisti, radicali, orlandiani. Perché? Si possono conciliare le posizioni di chi vuole laicamente un ritorno alla ex An, di chi resta nella sostanza berlusconiano, e di chi urla ogni giorno arrivando ad accusare stimate personalità di questo governo “di ostacolare l’accertamento della verità sulle stragi di mafia”?

Come dicevo, in politica si creano a volte spazi di opportunità che aprono prospettive insperate a soggetti che si sentivano sottovalutati, emarginati, incompresi. Così è accaduto quando l’affrettata creazione del Pdl e il suo mancato decollo organizzativo hanno provocato un forte malessere interno. Fli sta raccogliendo in giro per l’Italia una composita truppa di esponenti locali del Pdl delusi da mancate candidature o ricandidature, bocciati alle elezioni, in rotta con i ras territoriali. Non hanno in comune una radice culturale né un progetto politico, ma uno stato d’animo. Che può essere un forte collante, a condizione però che il movimento, diventando partito, abbia successo e crei posti di rilievo per tutti i postulanti. Altrimenti, ci si può dissolvere con la stessa rapidità con cui ci si era coagulati. Per sovrappiù, Futuro e Libertà è poco coesa anche nel vertice – che si è aggregato contro Berlusconi, più che per qualcosa di preciso. Insomma, la sua è una scommessa non priva di azzardi. Anche se, come ha ammesso Barbareschi in un’intervista al Corriere della Sera, Fli punta molto sul sostegno dei “poteri forti”, che possono garantire risorse adeguate su più piani.

La destra che vuole “fare cultura” e promuovere una parte ha bisogno del Secolo?

Alla destra servirebbero una formazione e una mentalità dei quadri intermedi e dei militanti molto più aperte a sensibilità culturali. Ma non ci sono. Quando appartenevo a quell’ambiente, da cui oggi sono lontano non meno che dalla sinistra e dal centro, ho predicato a lungo quella necessità, fra l’irrisione di molti. A destra, si è quasi sempre contrapposta la retorica del fare allo sforzo del pensare, dipingendo gli intellettuali come dei parassiti avidi e sempre in cerca di padroni e protettori. Ma senza elaborare idee originali non si costruiscono progetti politici solidi e modelli di società trasferibili nella realtà. Il Secolo d’Italia degli ultimi anni non ha mai svolto questo ruolo, limitandosi ad appropriarsi di elaborazioni altrui per stupire e attirare l’attenzione dei commentatori con effetti speciali quasi sempre ispirati a punti di vista “politicamente corretti”. Mi pare un po’ poco per pretendersi, oggi, indispensabili a dare linfa ad una formazione politica ambiziosa.

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