mercoledì 1 dicembre 2010

La scelta stoica e terribile di andarsene a modo suo

«Il suicidio permette di sfuggire alla vi­ta; ma non permette di sfuggire alla ca­ricatura postuma, e specialmente alla caricatura fatta, per leggerezza e pas­sione, delle ragioni del vostro suici­dio » scrisse Henry de Montherlant pri­ma di uccidersi a 76 anni. Una volta morto, ci fu chi sostenne che quel col­po di pistola sparato alla tempia di un scrittore grande e famoso, era dovuto alla paura di diventare cieco: una ra­gione plausibile, per un gesto altri­menti incomprensibile, e insieme una ragione pietosa, il suicidio come debolezza, incapacità ad accettare i mali della vita. Eppure, come si era interrogato lui stesso, se il suicida è un vinto, che male c’è? «Dalla società? È un onore. Dalla malattia, dalla vecchia­ia? È la natura. Da un nemico? È un soffio nel vento della morte, la vita è fatta di questo. Che il suicida sia o no uno sconfitto, ha poca importan­za, se con il suo suicidio ha te­stimoniato due cose. Il suo co­raggio e il suo dominio. E ciò detto, se ammiro il coraggio di quelli che si uccidono, am­miro anche il coraggio di quanti, per una quindicina di secoli, i secoli del cristianesi­mo, hanno sopportato tutto, le cose più atroci, senza suici­darsi. Il coraggio di morire e il coraggio di non morire».

Mario Monicelli era uno stoico, nato in un tempo che non era il suo e dove quelle che in altre epoche erano cate­gorie filosofiche coerenti si erano trasformate in caricatu­re, un compromesso di qua, un accomodamento di là e al­la fine si poteva essere un po’ tutto e quindi niente, asceti ed epicurei, moralisti e ses­suomani, atei e bigotti... Lui era stato uno dei re della com­media all’italiana, che nei suoi momenti più alti non è al­tro che i l sottolineare i l nostro peggio non credendo più nel nostro meglio.

Scriveva ancora Monther­lant che «quando uno ha visto il mondo non gli resta che il suicidio o Dio». Monicelli non era credente, ma non è questo il punto e Monther­lant lo spiega molto bene nel rendere più comprensibile quella dicotomia. «I romani avevano creato, secondo il co­stume di allora, un Giove par­ticolare, che avevano chiama­to Jupiter liberatore. Era que­sto Dio che invocavano suici­dandosi. Ciò non significava tanto che il dio vi liberava dei vostri mali o delle vostre ango­sce, ma che era il Dio degli uo­mini che, almeno una volta , erano stati liberi: quando ave­vano chiuso, di propria scel­ta, la loro vita».

Ecco, Monicel­li credeva in quel dio degli uo­mini. Perché ci si uccide a novan­tacinque anni? Non avrebbe potuto lasciare alla natura o al tempo il compito di mette­re la parola fine? C’è chi ha scritto che in fondo il suicidio è un’affermazione di vita; es­sere disgustato dalla vita si­gnifica avere fede nella vita, ri­tenerla una festa unica, alla quale non si è stati invitati, una tavola splendidamente apparecchiata dalla quale si viene scacciati pur avendo fa­me. È per questo che il suici­dio non è mai stato così fre­quente come nelle epoche in cui si crede nella felicità. C’è del vero, ma è anche plausibi­le che chi si uccide da vecchio lo faccia per stanchezza del vi­vere: sono scomparsi i punti di riferimento, l’età ha in­ghiottito amori e amicizie, riti e abitudini, e ogni decennio che passa ti costringe a rivede­re ciò che è stato e a cercare di accettare ciò che sarà. Puoi a un certo punto decidere che hai visto troppo e hai soppor­tato abbastanza e ciò che ti at­tende sarà sempre peggio di ciò che ti sei già lasciato die­tro. Come che sia, nemmeno in questo articolo si riesce a usci­re da quella «caricatura postu­ma » da cui fin dall’inizio si sa­rebbe voluto prendere le di­stanze.

In realtà, poiché nes­sun istinto è più intollerante del desiderio di vivere, fati­chiamo a capire perché uno possa decidere consapevol­mente di morire. Abbiamo bi­sogno di giustificarlo, ovvero di scusarlo, lo consideriamo un delitto e così facendo lo ca­lunniamo, perché nessuna ra­gione morale consente di trat­tarlo a questa stregua. Nel Cre­tino in sintesi , l’ultimo libro di Franco Lucentini, anche lui morto suicida otto anni fa, c’è un paragrafo quanto mai em­blematico che riguarda la morte e la mania dei mass me­dia di interpretarla. «D’accor­do, così non è lecito morire, così nemmeno, così è una ver­gogna, così è assurdo, così è uno scandalo, così è idiota. La morte è divenuta una discus­sione, un’avaria, un proble­ma, un errore. A questo pun­to, la domanda si pone da sé: come diavolo deve morire la gente allora?

Come cercatori d'oro, tutti si precipitavano a monte per scavare fuori la ve­rità vera, portare alla luce omissioni e responsabilità lontane e vicine, dirette e indi­rette, minime e madornali. Noi guardiamo a monte e fac­ciamo esposti, denunce, cor­tei, decreti, dibattiti, accerta­menti. Là in fondo, a valle, ci sarebbe sempre il vecchio De­stino, ma non lo vogliamo ve­dere più». Monicelli si è ucci­so gettandosi nel vuoto. Era malato, hanno fatto sapere le agenzie di stampa, era stanco e si sentiva solo... Muoiono co­sì pensionati e vedovi, studen­ti e professori, scrittori. Mori­rono così anche Primo Levi e, appunto, Franco Lucentini. Punto e basta.

(di Stenio Solinas)

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