Mario Monicelli era uno stoico, nato in un tempo che non era il suo e dove quelle che in altre epoche erano categorie filosofiche coerenti si erano trasformate in caricature, un compromesso di qua, un accomodamento di là e alla fine si poteva essere un po’ tutto e quindi niente, asceti ed epicurei, moralisti e sessuomani, atei e bigotti... Lui era stato uno dei re della commedia all’italiana, che nei suoi momenti più alti non è altro che i l sottolineare i l nostro peggio non credendo più nel nostro meglio.
Scriveva ancora Montherlant che «quando uno ha visto il mondo non gli resta che il suicidio o Dio». Monicelli non era credente, ma non è questo il punto e Montherlant lo spiega molto bene nel rendere più comprensibile quella dicotomia. «I romani avevano creato, secondo il costume di allora, un Giove particolare, che avevano chiamato Jupiter liberatore. Era questo Dio che invocavano suicidandosi. Ciò non significava tanto che il dio vi liberava dei vostri mali o delle vostre angosce, ma che era il Dio degli uomini che, almeno una volta , erano stati liberi: quando avevano chiuso, di propria scelta, la loro vita».
Ecco, Monicelli credeva in quel dio degli uomini. Perché ci si uccide a novantacinque anni? Non avrebbe potuto lasciare alla natura o al tempo il compito di mettere la parola fine? C’è chi ha scritto che in fondo il suicidio è un’affermazione di vita; essere disgustato dalla vita significa avere fede nella vita, ritenerla una festa unica, alla quale non si è stati invitati, una tavola splendidamente apparecchiata dalla quale si viene scacciati pur avendo fame. È per questo che il suicidio non è mai stato così frequente come nelle epoche in cui si crede nella felicità. C’è del vero, ma è anche plausibile che chi si uccide da vecchio lo faccia per stanchezza del vivere: sono scomparsi i punti di riferimento, l’età ha inghiottito amori e amicizie, riti e abitudini, e ogni decennio che passa ti costringe a rivedere ciò che è stato e a cercare di accettare ciò che sarà. Puoi a un certo punto decidere che hai visto troppo e hai sopportato abbastanza e ciò che ti attende sarà sempre peggio di ciò che ti sei già lasciato dietro. Come che sia, nemmeno in questo articolo si riesce a uscire da quella «caricatura postuma » da cui fin dall’inizio si sarebbe voluto prendere le distanze.
In realtà, poiché nessun istinto è più intollerante del desiderio di vivere, fatichiamo a capire perché uno possa decidere consapevolmente di morire. Abbiamo bisogno di giustificarlo, ovvero di scusarlo, lo consideriamo un delitto e così facendo lo calunniamo, perché nessuna ragione morale consente di trattarlo a questa stregua. Nel Cretino in sintesi , l’ultimo libro di Franco Lucentini, anche lui morto suicida otto anni fa, c’è un paragrafo quanto mai emblematico che riguarda la morte e la mania dei mass media di interpretarla. «D’accordo, così non è lecito morire, così nemmeno, così è una vergogna, così è assurdo, così è uno scandalo, così è idiota. La morte è divenuta una discussione, un’avaria, un problema, un errore. A questo punto, la domanda si pone da sé: come diavolo deve morire la gente allora?
(di Stenio Solinas)
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