Fu un passaggio epocale. Come tutte le date ufficiali è solo un riferimento simbolico a un processo più lungo, cominciato prima e proseguito dopo. Il 1º dicembre del 1970 fu promulgata la legge del divorzio. Furono aboliti i reati di adulterio, concubinato e propaganda dei metodi anticoncezionali. Un fronte laico esteso ai comunisti sostenne la legge sul divorzio presentata dal socialista Fortuna e dal liberale Baslini. Erano ormai alle spalle i tempi in cui Togliatti definiva «innaturale» il divorzio (nonostante la sua relazione extramatrimoniale con la Jotti). Il Pci si era secolarizzato e si avviava a diventare la colonna portante di quello che Augusto del Noce avrebbe poi definito «partito radicale di massa». I radicali di Pannella furono infatti l’avanguardia della battaglia sul divorzio, la madre di tutte le battaglie civili che poi seguiranno, aborto incluso. L’Italia usciva dalla protezione parrocchiale, entrava sotto la protezione televisiva, usciva dalla dipendenza verso il modello patriarcale ed entrava nella dipendenza verso il modello americano.
C’era stato prima il boom economico, il Concilio Vaticano II, il ’68 e l’Autunno Caldo. E arrivò poi il divorzio territoriale, la fine dell’Italia dei prefetti, per dar luogo nello stesso 1970 all’Italia delle Regioni. Il divorzio fu la rivincita protestante sull’Italia cattolica, della cui mentalità era figlio anche il vecchio Pci.
In quel tempo, per dirla col Vangelo, il modello civile di maggiore suggestione era la Svezia con la sua società permissiva, individualista e socialdemocratica, single e libertaria ma protettiva e statalista. Meno famiglia ma più Stato, grazie a un pervasivo sistema pubblico. Le minigonne, gli hot pants e il mito del libero amore fecero da cornice leggiadra alla liberazione sessuale. I giornali del tempo, a eccezione del Tempo e del Giornale d’Italia, furono tutti a favore del divorzio e poi del no al referendum di quattro anni dopo, quando restarono sconfitti due svogliati interpreti del fronte antidivorzista, Fanfani e Almirante (a sua volta anch’egli nella situazione togliattiana). Nonostante le due grandi sconfitte del divorzio e dell’aborto, la Dc restò al potere godendo dello stesso consenso elettorale e anche l’Msi nonostante subisse in casa sua un doloroso divorzio (la scissione di Democrazia Nazionale) restò intatto negli anni Ottanta.
Mutò la qualità del consenso per la Dc, la motivazione atlantica prevalse sulla motivazione cristiana, mentre proseguì la motivazione clientelare, col voto di scambio. Nel frattempo la società era mutata: il lavoro alle donne, il benessere economico e la contestazione avevano reso il divorzio inevitabile. Fummo i penultimi in Europa, restò solo la Spagna di Franco, cattolicissima. Il divorzio tra sfera dei valori e politica fu clamoroso nella Dc, che per la prima trovava alleata la destra, per la seconda si univa all’arco costituzionale e si spingeva verso sinistra, fino al compromesso storico con il grosso Pci degli anni ’70. Sicché in famiglia votava con i missini, in aula con i comunisti.
È obbligo civile e culturale considerare la legge sul divorzio necessaria e benefica. Ma a costo di scandalizzare dirò che fu una conquista e una perdita. Come ogni medaglia ha una testa e una croce. La testa fu la libertà, i diritti, l’emancipazione, l’autonomia, soprattutto per le donne. La croce fu che la famiglia cominciò a sfasciarsi come principio, fondamento, dovere, denatalità. Su questo ebbero ragione gli antidivorzisti; non era vero che il divorzio lasciava l’indissolubilità del matrimonio a chi voleva la famiglia tradizionale e dava la possibilità di scegliere diversamente a chi non vi si riconosceva. Perché la famiglia prese a sfasciarsi progressivamente, e lo sappiamo. Dite pure che era inevitabile, e aggiungete che fu un bene, se volete; ma non negate il nesso, non solo simbolico, tra il divorzio e la sfamiglia (il conio è mio, poi lo usò Crepet).
Riducendo il legame nuziale a fatto soggettivo e revocabile, venivano negati la sacralità del matrimonio e il legame comunitario. Forse non era del tutto avventata la distinzione che proposero alcuni cattolici tra matrimonio religioso e unione civile in una specie di doppio regime: chi liberamente decide di sposarsi davanti a Dio accetta l’indissolubilità del legame nuziale, chi viceversa si sposa davanti al sindaco, magari aggiungendo una cerimonia religiosa non vincolante, può decidere di separarsi. Converrete che è un’ipocrisia volere il divorzio munito dai conforti religiosi, separarsi ma con la benedizione del prete... Come fu un’ipocrisia di ritorno della Chiesa negare i sacramenti ai divorziati. Tra le promesse mancate del divorzio ve ne sono tre vistose. La prima è che la famiglia è in crisi ma il «familismo amorale» è in auge e produce i suoi peggiori effetti, e non nelle aree più arretrate o nella malavita, si pensi al nepotismo nelle classi dirigenti e nelle università. La seconda è che le violenze non sono diminuite con le separazioni, anzi a volte hanno esiti più tragici. La terza è che il divorzio non ha generato rapporti più franchi tra coniugi, senza le finzioni, i sotterfugi e le scappatelle delle nozze per sempre; anzi le ipocrisie, le frustrazioni, i tradimenti sono aumentati vertiginosamente. Quel che non potè il divorzio può il telefonino, la prima causa statisticamente accertata dei litigi coniugali. Curiosa infine la parabola invertita delle unioni gay: la famiglia si sfascia ma le coppie omosessuali vogliono parificarsi alle unioni famigliari...
È facile sparlare della famiglia arcaica ante-divorzio e del suo assetto incompatibile con la libera modernità. Di solito si ricordano abusi e ipocrisie, il padre-padrone e la gerarchia domestica. Io vorrei ricordare che per ogni abuso c’erano cento casi di dedizione commovente, per ogni violenza c’erano cento sacrifici personali, per ogni etto d’odio c’era un quintale d’amore. Oggi assai meno. Quella struttura arcaica è irripetibile, merita solo giudizi storici e memorie sentimentali ma è alle nostre spalle. Non disprezziamo quel che è alle nostre spalle. Non sputate sui vostri padri e sulle vostre madri.
(di Marcello Veneziani)
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