Gianfranco Fini detesta il lavoro, le masse e il partito. E’ così da una vita, da quando Giorgio Almirante gli ha inflitto la responsabilità del Movimento sociale italiano, poi trapiantato in An, quindi divenuto un terzo del Pdl, ora lievitato nella ciambella agrodolce di Futuro e libertà. La presidenza della Camera si addice a Fini per il solo fatto che non richiede sforzi professionali prolungati. Quanto alle masse, sono carne da comizio e nulla più: materia eccitabile da un’oratoria maratonesca e consumata come quella finiana. Infine il partito, che nell’orizzonte di Fini è come dire il lavoro. Ne ha sempre colto la necessità tattica, lo ha sempre amministrato come un condominio nel quale gli inquilini facevano massa critica, ma in fondo lo ha sempre disprezzato.
Come in An, così in Fli le correnti sono al tempo stesso i canali di scolo delle tensioni interne – la cui manutenzione, a forza di valvole di sfogo e tortuose ingegnerie idrauliche, è indispensabile per evitare tracimazioni – e una cloaca maxima da costeggiare turandosi il naso. Perché di liquami si tratta e Fini ha sempre voluto mantenere le scarpe pulite, pur d’illudersi di calpestare un giorno i prati all’inglese ben tosati dai giardinieri dell’establishment.
(di Alessandro Giuli)
Come in An, così in Fli le correnti sono al tempo stesso i canali di scolo delle tensioni interne – la cui manutenzione, a forza di valvole di sfogo e tortuose ingegnerie idrauliche, è indispensabile per evitare tracimazioni – e una cloaca maxima da costeggiare turandosi il naso. Perché di liquami si tratta e Fini ha sempre voluto mantenere le scarpe pulite, pur d’illudersi di calpestare un giorno i prati all’inglese ben tosati dai giardinieri dell’establishment.
(di Alessandro Giuli)
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