Su, moriamo abbracciati. È questa la proposta costruttiva che Fini ha saputo fare a Berlusconi, come quegli uxoricidi-suicidi. Io mi dimetto se tu ti dimetti, dice Fini, ma dietro il kamikaze si nasconde il furbetto: se si dimette Berlusconi si va alle urne, le Camere si sciolgono e loro, i presidenti, vanno comunque a casa. Il suo appello sa di falso. E pure di indecente, quando si appella all’etica.
La parabola incresciosa di Fini sembra quella di un Nicolazzi della Seconda Repubblica. Chi di voi ricorda Nicolazzi, uno degli ultimi segretari del sole malato, come da noi a Sud si chiamava l’estrema stagione del Partito socialdemocratico? Forse nessuno, ed è una ragione in più per accostarlo alla parabola di Fini. Un alleato minore, di basso profilo. La parabola di Fini ricorda quasi un racconto di Buzzati: da direttore a vice, da vice a impiegato, da impiegato a usciere. Da delfino di Berlusconi a vice di Casini, da leader della destra a iscritto del partito di Bocchino, da riferimento per un terzo degli italiani a riferimento per un trentesimo dei medesimi, stando alle previsioni a lui favorevoli. Fini somiglia davvero a Mariotto Segni, che, come tutti dissero, vinse la lotteria ma perse il biglietto vincente. Al di là dei suoi meriti, Fini era destinato per la legge del vuoto e del video a diventare l’erede di Berlusconi. Era stato con lui per sedici anni e la sua scelta di sciogliere An e di confluire, di malavoglia, nel Popolo della libertà, diversamente da Casini, lasciava intuire un ragionamento: stringo i denti perché poi toccherà a me. Certo, non tutti sarebbero stati d’accordo, a cominciare dalle Lega, ma il numero 2 del Pdl, anche nei sondaggi, era comunque il favorito. Anche perché si era tolto di mezzo il concorrente diretto, Casini. E invece cominciò a rendere vistosa e radicale la sua opposizione interna. Attacchi inconcepibili da chi aveva sottoscritto tutto quel che fino allora si era fatto.
Eccetto una critica, a mio parere fondata, all’evanescenza del Pdl, che poteva essere un buon punto di partenza per ricucire il dissidio, dandogli ragione e chiedendo a lui di occuparsi del partito, lasciando immune il governo e la leadership. Ma i due ormai non si sopportavano più e il lato personale prevalse sul calcolo politico.
Ora la collocazione extraterrestre del Fli, il suo forzato alloggio in un seminterrato del Terzo polo, i suoi ondeggiamenti tra la sinistra e la ritirata, fotografano un partito avvitato nella tattica e incapace di strategia. Diviso in quattro-cinque correntine, peggio dei vecchi partitini, con Granata che gode perché così «ci liberiamo della zavorra»: ma sì, continuate a liberarvi della zavorra, fino alla scissione finale, quella dell’atomo. Il distacco di alcuni intellettuali lo conferma; ma anche il giudizio critico che della creatura finiana danno tutti i più significativi esponenti della destra pensante e della nuova destra. I più motivati del Fli, e vorrei dire i migliori, sono tutti di estrazione antifiniana, exrautiani, vecchi seguaci della nuova destra, tardivi sessantottini, trentennali sognatori di andare al di là della destra e della sinistra... C’è chi spolvera un nemico storico di Fini, il grande Beppe Niccolai, e lo usa per dare nobiltà al rancore; chi si impossessa di Giano Accame che con Fini non ha nulla da spartire, c’è chi ruba a Giorgio Pisanò la definizione di fascismo e libertà e viene elogiato dal Corriere della sera; c’è chi scippa a Generoso Simeone la paternità dei campi hobbit degli anni Settanta... E c’è persino chi aderisce a Fini nel nome di colui che è dal profilo umano, etico e ideale la sua Antitesi Radicale: Berto Ricci... Tutto un piccolo mondo antifiniano che, approfittando della proverbiale vacuità del suo leader, crede di poter riempire la scatola vuota finiana di ciò che a loro piace. Tra loro c’è anche gente di qualità e in buona fede, che identifica il berlusconismo con l’americanizzazione, il consumismo, il degrado del tempo nostro e lo avversa. Ma combattere una battaglia di civiltà sotto Fini, con Casini e Rutelli, e inevitabilmente dentro la santa alleanza antiberlusconiana, con Vendola e Bersani, con Di Pietro e Santoro, e contro un popolo misto ma nel complesso destrorso, mi pare una follìa. Le scelte realiste, dal loro punto di vista, a me sembrano due: proiettarsi nel futuro, e lavorare nel centro-destra perché dopo Berlusconi vi sia una presenza significativa di quelle idee che An di Fini non ha saputo rappresentare. O ritirarsi dalla politica perché il degrado è generale e non lascia speranze. Ma scegliere Fini, liquidatore di tutte le destre e manovrato da loschi burattinai, ieri alleato del Male Berlusconiano e oggi complice del Peggio Antiberlusconiano, mi pare idiota. Fini persegue un suo disegno e un suo rancore personale. Lasciatelo friggere. Quando parlava Fini è salito un mitomane sul palco. Ho avuto l’impressione che i mitomani sul palco fossero due.
(di Marcello Veneziani)
La parabola incresciosa di Fini sembra quella di un Nicolazzi della Seconda Repubblica. Chi di voi ricorda Nicolazzi, uno degli ultimi segretari del sole malato, come da noi a Sud si chiamava l’estrema stagione del Partito socialdemocratico? Forse nessuno, ed è una ragione in più per accostarlo alla parabola di Fini. Un alleato minore, di basso profilo. La parabola di Fini ricorda quasi un racconto di Buzzati: da direttore a vice, da vice a impiegato, da impiegato a usciere. Da delfino di Berlusconi a vice di Casini, da leader della destra a iscritto del partito di Bocchino, da riferimento per un terzo degli italiani a riferimento per un trentesimo dei medesimi, stando alle previsioni a lui favorevoli. Fini somiglia davvero a Mariotto Segni, che, come tutti dissero, vinse la lotteria ma perse il biglietto vincente. Al di là dei suoi meriti, Fini era destinato per la legge del vuoto e del video a diventare l’erede di Berlusconi. Era stato con lui per sedici anni e la sua scelta di sciogliere An e di confluire, di malavoglia, nel Popolo della libertà, diversamente da Casini, lasciava intuire un ragionamento: stringo i denti perché poi toccherà a me. Certo, non tutti sarebbero stati d’accordo, a cominciare dalle Lega, ma il numero 2 del Pdl, anche nei sondaggi, era comunque il favorito. Anche perché si era tolto di mezzo il concorrente diretto, Casini. E invece cominciò a rendere vistosa e radicale la sua opposizione interna. Attacchi inconcepibili da chi aveva sottoscritto tutto quel che fino allora si era fatto.
Eccetto una critica, a mio parere fondata, all’evanescenza del Pdl, che poteva essere un buon punto di partenza per ricucire il dissidio, dandogli ragione e chiedendo a lui di occuparsi del partito, lasciando immune il governo e la leadership. Ma i due ormai non si sopportavano più e il lato personale prevalse sul calcolo politico.
Ora la collocazione extraterrestre del Fli, il suo forzato alloggio in un seminterrato del Terzo polo, i suoi ondeggiamenti tra la sinistra e la ritirata, fotografano un partito avvitato nella tattica e incapace di strategia. Diviso in quattro-cinque correntine, peggio dei vecchi partitini, con Granata che gode perché così «ci liberiamo della zavorra»: ma sì, continuate a liberarvi della zavorra, fino alla scissione finale, quella dell’atomo. Il distacco di alcuni intellettuali lo conferma; ma anche il giudizio critico che della creatura finiana danno tutti i più significativi esponenti della destra pensante e della nuova destra. I più motivati del Fli, e vorrei dire i migliori, sono tutti di estrazione antifiniana, exrautiani, vecchi seguaci della nuova destra, tardivi sessantottini, trentennali sognatori di andare al di là della destra e della sinistra... C’è chi spolvera un nemico storico di Fini, il grande Beppe Niccolai, e lo usa per dare nobiltà al rancore; chi si impossessa di Giano Accame che con Fini non ha nulla da spartire, c’è chi ruba a Giorgio Pisanò la definizione di fascismo e libertà e viene elogiato dal Corriere della sera; c’è chi scippa a Generoso Simeone la paternità dei campi hobbit degli anni Settanta... E c’è persino chi aderisce a Fini nel nome di colui che è dal profilo umano, etico e ideale la sua Antitesi Radicale: Berto Ricci... Tutto un piccolo mondo antifiniano che, approfittando della proverbiale vacuità del suo leader, crede di poter riempire la scatola vuota finiana di ciò che a loro piace. Tra loro c’è anche gente di qualità e in buona fede, che identifica il berlusconismo con l’americanizzazione, il consumismo, il degrado del tempo nostro e lo avversa. Ma combattere una battaglia di civiltà sotto Fini, con Casini e Rutelli, e inevitabilmente dentro la santa alleanza antiberlusconiana, con Vendola e Bersani, con Di Pietro e Santoro, e contro un popolo misto ma nel complesso destrorso, mi pare una follìa. Le scelte realiste, dal loro punto di vista, a me sembrano due: proiettarsi nel futuro, e lavorare nel centro-destra perché dopo Berlusconi vi sia una presenza significativa di quelle idee che An di Fini non ha saputo rappresentare. O ritirarsi dalla politica perché il degrado è generale e non lascia speranze. Ma scegliere Fini, liquidatore di tutte le destre e manovrato da loschi burattinai, ieri alleato del Male Berlusconiano e oggi complice del Peggio Antiberlusconiano, mi pare idiota. Fini persegue un suo disegno e un suo rancore personale. Lasciatelo friggere. Quando parlava Fini è salito un mitomane sul palco. Ho avuto l’impressione che i mitomani sul palco fossero due.
(di Marcello Veneziani)
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