Nella mutazione extralinguistica del K, da Kossiga al K Krepi, con il secondo qui non usato per far prima ma per mandare meglio a quel paese, non c’è una variabile del linguaggio ma la solita cara eversione. Con detonazione erotica. E’ una fior di laureata che sta digitando sul proprio display “Spero k krepi kon le tue troie”, non una pollastra svampita. E’ una consapevole manipolatrice di parola e di conseguente volontà che sta fabbricando l’invettiva. E’ Sara Tommasi, lei, e l’uomo, il destinatario, il predatore alfa, insomma, il combattente destinato alla sconfitta, non sa – ahilui – di dover affrontare il suo trasloco nel Walhalla con la vestizione propria degli eroi. Ricoperto di smagliante sugna tragicomica. Ecco, ancora non sa. Ma lei sì. Perché lei, al netto dello stile basso di cui sembra essere una cultrice, è pur sempre una femmina.
La detonazione erotica, laddove il “corpo della donna” è una carica di tritolo, è un estatico invito a crepare, tra copula e crapula (kopula e krapula direbbe la bocconiana Tommasi) tra il crepitìo della mitragliatrice e un’ultima erezione. Non possiamo non ricordare la santissima anima di Manfred von Killinger, pluridecorato ufficiale della Wehrmacht, ambasciatore in Romania, che (possano gli dèi averlo caro) accoglie i soldati dell’Armata rossa non senza imbandire sulla propria scrivania vassoi colmi di caviale e coppe di champagne. E non solo. Accuccia tra le proprie membra – irrorate d’adrenalina – la sua segretaria, imbraccia il mitra e spara e mangia e palpa e beve. E sospira. E dunque spara ancora. Su tutti. Eccetto che sulla segretaria. Intenta, la Valkiria, col suo respiro, ad accompagnare l’invitto alla meta finale.
Krepare kon le scrofe è – ed è ben pacifico riconoscerlo, al netto dello stile basso di cui tanti sono cultori – un orizzonte di destinazione in zona Sade. E’ lo zenit del libertinaggio. Un privilegio della mistica eroica, questo è, solo che ci vuole una cosa per portare a termine una simile missione: ci vuole il lingam. E non è poi vero che con i soldi tutto si può. Neppure il potere più determinato può disporre di carne se poi non gli funziona il lingam. Bill Clinton – e facciamo un esempio che aggrada ai palati schizzinosi – dovette ricorrere al sigaro per sopperire. Ma non riuscì. Gli risultò solo un tubo in surrogato. E manco l’artifizio chirurgico oggi tanto in uso, può. E’ un tubo. Né il miracolo in pillole. Sempre un tubo resta.
Nulla, dunque, può. E soprassediamo anche sull’effettiva efficacia del bunga bunga, perché oltre ai Sanbitter, alle visioni di “Baarìa”, alle incursioni galanti di Silvio Berlusconi in area di passatempo è il lingam caldo – il lingam innervato di sangue e giammai ceroso – quello che le femmine cercano. E non per farci il miao miao delle gatte in calore. Ma per innalzare il sacrificio al cosmo, disporre i fuochi, storcerlo infine quel lingam e suggerne linfa a detrimento di qualsiasi Kali Yuga.
Ci vuole il lingam e nessun idolo ideologico può svaporarne la malia del kreparci perfino, per quegli eccessi dell’entusiasmo, come capitò a Mario Alicata, un notabile bolscevico, trasferito cadavere, nottetempo, dall’appartamento di una prostituta all’ufficio di Botteghe oscure, la sede del Pci. Ecco, ancora un invitto alla meta finale. E sempre per sottrarre l’immanifesto al Kali Yuga.
Sia chiaro che adesso non stiamo parlando difficile solo per nobilitare la nostra natura di maiali. Sia chiaro che lingua e linguaggio procedono nel rispetto della materia, così sacra, da non avere altro vocabolario che quello dei nostri progenitori indoeuropei, gli iperborei, i cui altari erano e sono ancora fatti secondo proporzione di femmina perfetta – “Con fianchi larghi, le spalle un po’ meno e stretta alla vita”, e stiamo recitando i Veda. Erano e sono ombre bellissime e circonfuse d’emozioni quelle vicende di amore e vigore e se la nostra era è oscura, furono, sono e saranno leggi di pura luce a vampeggiare alla chiusura del ciclo: e i desideri troveranno la via per compiersi. Sempre che resti chiaro che il piacere, se pure è stato camuffato di vizio, compresso e sfigurato dal tristo democraticismo, è liturgia. E’ un fervore che procede dalla mente allo spirito, “sino alla punta delle unghie” (e stiamo recitando sempre i sacrissimi Veda).
Una felicità così feconda è propria di una stagione pagana. Anche la modernità degli occidentali ha avuto le sue stagioni di furori, ma sempre e solo nell’innesto dell’arte militare e della politica. Il Sessantotto, luogo assai comune presso gli schizzinosi della laicità borghese, è solo un’avventura per educande rispetto alla fantasmagorica epica di Fiume coi suoi legionari in perenne esagitazione creativa. Così come ogni riposo del soldato, in terra d’Africa, fu sempre affollato. E magari con l’enorme lingam di Mafarka il futurista, il re negrone che scavava tra le cosce delle femmine, ne bruciava le carni, o con le ragazze prese a grappoli per godere e figliare, e così fecondare la patria universale, come faceva Indro Montanelli, milite del glorioso Battaglione Eritreo.
Una tristezza da dopo orgia pervade questo inverno che non vuole saperne di morire dolcemente. Sono giornate della buoncostume. E giusto per rimestare nel nostro sciapo brodo che non è certo il folto brolo dell’Ade, tutti i movimentismi che si facevano spontanei in armonia con le polluzioni, quelle dei famosi porci alati, e tutta quella rottura extraparlamentare di giovinezze belle e libertarie, si sono capovolti. A farcela raccontare da Giampiero Mughini (per come l’ha dipinta così bene), quella gioventù della fantasia al potere è risultata tutta ribaltata nel sentire comune di oggi. Allora si faceva politica per rimorchiare, oggi, gli stessi, i rimorchiatori invecchiati, si sono fatti malmostosi e di ogni tetta – se non ora, quando? – fanno rogo.
Ci voleva un Berlusconi, già personaggio dell’orizzonte di Piero Chiara, a far resuscitare il femminismo. E’ in una versione, questo neofemminismo, aggiornata al bisogno non più di castrarlo il Silvio ma di kreparlo tra le troie, sorelle, quest’ultime, misconosciute dalle ottimate che fanno vanto e manto d’indignazione e impegno.
E ci volevano queste donne, sempre nel solco di Lisistrata, a far sciopero della loro stessa natura di femmina, a rinverdire una sinistra fatta solenne dall’ora grave: vedere krepare tra le troie perché, alla fine, non vogliono più che dal letame nascano i fiori. Hanno, infatti, lastricato via del Campo, cantata da Fabrizio De André, di piastrelle pudiche e hanno affrescato i muri delle lucciole di minacciosa e opaca noia.
Sono giornate del comune senso del pudore, queste. Le trasmissioni più in voga si aprono con gli appelli delle suore indignate e chi l’avrebbe mai immaginato di vedere la sovversione del collettivo tramutarsi – e solo perché si va in odio al Peccatore – in un eterno manifesto di pudore e castità? Sono discorsi perfino orecchiati, quello dello scambio simbolico tra suore e femministe, bisogna riconoscerlo. Enrico Berlinguer, coscienza della ruvida morale militante del Pci, ci fece un monito sull’esempio di Maria Goretti, la santa, simbolo di una purezza votata al martirio, e magari si scoprirà che la sinistra è sempre stata di destra se ancora oggi, nella sua vetrina più sgargiante, il pensiero dominante, quello della minoranza moralmente emancipata, quella che declama – se non ora, quando? – non fa che saccheggiare dall’argenteria del pensiero reazionario. Gli ambientalisti sono tali solo perché nutrono il loro entusiasmo di panico per la natura e la vita animale dal sangue e suolo, ovvero dai primordi del Terzo Reich; e pure i degustatori dello slow food, fanno blut und boden. Mangiano le cose buone di una volta, il genuino rapportarsi a strapaese, la nostalgia dell’età felice. Per non dire dei signori procuratori. E tutto quel rigare dritto, poi, è un habitus proprio dei reazionari. E ci voleva Berlusconi per resuscitare la sovversione degli sporcaccioni se poi, il mettere i carabinieri tra le lenzuola, non è proprio voler aderire alla “sperimentazione dei corpi” o alla “extraterritorialità dell’emozione”.
Sono giornate del cupio dissolvi delle categorie di destra e sinistra e ci vuole un grado di degenerazione molto avanzato di eccitamento perché la femmina possa specchiarsi in un maschio degno di legnarla a dovere, come si addice nella collocazione dei fuochi cosmici, ben inteso. Un modello maschile adeguato all’evoluzione femminile non c’è, alle Winks, le bambole d’intelligenza e seduzione, fanno corrispondere i metrosexual, ovvero, una sorta di froci neppure venuti bene. E anche a voler dimenticare il piccolo cortile italiano, tutto il congiurare di finitezza sull’infinito, nelle nostre città del mondo, ci sta rosicchiando la febbre che fa lavorare il pensiero. Molto più che la natura non voglia, fabbricando ovunque nevrastenia e pazzia, propria di gente profondamente egoista, assetata di oro e non di femmina. E così, forse, anche per le femmine. Assetate di oro e non di lingam.
Il leggere e scrivere, in questo periodo, non forgia un minimo di idea. A forza di non voler studiare Massimo Fagioli, il vero rivoluzionario qui in Italia, tutti questi benpensanti della sinistra si sono ritrovati nelle greppie mentali di un signor Antonio qualsiasi. Sullo schermo si svolgevano le scene de “Le tentazioni del signor Antonio”, il film di Federico Fellini con un piccolo Peppino De Filippo travolto dall’esuberanza mammaria di Anita Ekberg. All’epoca non c’era la possibilità di un esorcismo fatto di burka burka, ci si limitava a foderare di panno le lunghe gambe delle sorelle Kessler, chissà adesso, gli idioti di destra, che sgallettate nude metterebbero al posto di quelle, così divine e chissà che anatemi, gli idioti di sinistra, getterebbero su di loro: le vedrebbero già consiglieri regionali, europarlamentari, deputate e maggiorate.
Io sono reazionario, e proprio il burka, oltretutto molto usato dai maschi, proprio no, non mi convince. Il velo, invece, lo voglio, s’addice ad un SL Mercedes in corsa. Non si capisce perché la sinistra dei libertari, delle donne liberate, emancipate nel corpo e nei desideri, perché muova guerra ad Anna Karenina. Ma in verità è tutto chiaro. Sono pomeriggi passati in cauta attesa di nuovi sms, di fotografie, di filmini e di lingam svuotati. Non so se avete presente la puttana, quella ottimista e di sinistra, ecco, quella. E’ portata al rogo e con lei tutte le ragazze raccontate in queste giornate di così atroce caricatura. Tutte fanciulle, sode, la cui aria, in ciascuna, è di quella che si nota al primo colpo d’occhio, celebrate quali donne pubbliche aduse al peccato.
Sono donne la cui vita, si ritrova, d’un sol colpo, abolita. Ragazze, infine, e tali sono, precipitate tra le braccia del Peccatore, non certo costrette, ma ristrette nel cieco cerchio di un’esistenza micragnosa e perciò abbagliate dal soldo facile, dalla possibilità di fare, o lasciar fare, birbonate d’ogni genere. Gentuzza dalla sottana facile mossa dalla spinta delle grandi occasioni. Non sono il “corpo della donna”, non sono le “ragazze tangenti”, e non – come si strilla tra la gente perbene – puttane che, puttane per come sono, di così esagerata favola non se ne trovano in nessun bordello.
Forse sono anche ragazze che con un colpo di sedere, magari in tutti i sensi, hanno beneficiato di un lasciapassare politico, sono solo femmine che nessun burka potrà costringere alla rispettabilità democratica e repubblicana. Quello delle nostre cronache è, dunque, un libertinismo senza libertà. E forse, vista l’età dei protagonisti, anche un libertinismo senza uso di lingam. E se da un lato s’ode: “Sono donna e dico basta”, dall’altro, visti i prezzi, è facile che rispondano: “Sono donna e dico ancora”.
In questa età volgare, nel tempo della democrazia compiuta, quell’antro delle delizie (o, giardino dei supplizi, secondo i punti di vista) e qualsiasi cosa in definitiva sia Arcore è solo una struttura professionale. E tale è, con tanto di ragionieri, bollette da evadere e utilizzatore finale aggrappato al K, solo che non può, in forza dell’indignazione, trasformarsi da pornografia teatrabile in un contrappasso.
Non si può farne, in virtù dell’etica, la nemesi della buona condotta borghese, tipo: dal bunga bunga al burka burka. Un’intera stagione politica che se ne scivola via a causa della femmina è qualcosa che ricorda Troia e il ratto di Elena, una monomania sessuale che brama solo il pedaggio di una ripugnanza istintiva, ovvero, la chiamata alle armi dell’opinione pubblica per eliminare se non uccidere altri che non siano le donne giovani e belle. Eliminare lui in questo caso, il Peccatore. Ed è la solita cara eversione con detonazione erotica la cui miccia è sempre femmina, solo che nessun lenzuolo di burka, la cui pochezza culturale di questo montante neofemminismo fa il paio coi difensori dell’indifendibile, può coprire il vuoto di potere che sfascia nell’imbarazzo la tragicommedia italiana.
In ogni mutazione extralinguistica si annida un dettaglio remoto, lo strascico di un legaccio arcaico e perciò fondante: il potere che è proprio della potenza. E dunque, ancora una volta, il lingam. Solo e sempre il lingam che, nel suo vigore verticale, separa potenza e impotenza.
Ecco, a questo punto occorre rinfrescarsi la mente con una scena presa dal “Novecento” di Bernardo Bertolucci, un film fatto in un’epoca in cui la sinistra sembrava proprio essere una sinistra. C’è Burt Lancaster nei panni di un vecchio proprietario terriero, archetipo del dominus. Entra in una stalla con una ragazzina. Si fa toccare. Con i piedi saldi nello sterco. Non c’è reazione. Palpa anche le mammelle di una mucca. Non c’è reazione. Manda via la ragazzina. Getta una corda sul soffitto. Ne ricava un nodo scorsoio. Ci mette dentro il collo. Mormora: “Il vero dramma di un uomo è quando non gli tira più l’uccello”. Si lascia cadere. E finisce. Finisce l’archetipo. Senza neppure krepare tra le troie, al contrario: congedando l’innocenza. Che è sempre femmina.
(di Pietrangelo Buttafuoco)
Krepare kon le scrofe è – ed è ben pacifico riconoscerlo, al netto dello stile basso di cui tanti sono cultori – un orizzonte di destinazione in zona Sade. E’ lo zenit del libertinaggio. Un privilegio della mistica eroica, questo è, solo che ci vuole una cosa per portare a termine una simile missione: ci vuole il lingam. E non è poi vero che con i soldi tutto si può. Neppure il potere più determinato può disporre di carne se poi non gli funziona il lingam. Bill Clinton – e facciamo un esempio che aggrada ai palati schizzinosi – dovette ricorrere al sigaro per sopperire. Ma non riuscì. Gli risultò solo un tubo in surrogato. E manco l’artifizio chirurgico oggi tanto in uso, può. E’ un tubo. Né il miracolo in pillole. Sempre un tubo resta.
Nulla, dunque, può. E soprassediamo anche sull’effettiva efficacia del bunga bunga, perché oltre ai Sanbitter, alle visioni di “Baarìa”, alle incursioni galanti di Silvio Berlusconi in area di passatempo è il lingam caldo – il lingam innervato di sangue e giammai ceroso – quello che le femmine cercano. E non per farci il miao miao delle gatte in calore. Ma per innalzare il sacrificio al cosmo, disporre i fuochi, storcerlo infine quel lingam e suggerne linfa a detrimento di qualsiasi Kali Yuga.
Ci vuole il lingam e nessun idolo ideologico può svaporarne la malia del kreparci perfino, per quegli eccessi dell’entusiasmo, come capitò a Mario Alicata, un notabile bolscevico, trasferito cadavere, nottetempo, dall’appartamento di una prostituta all’ufficio di Botteghe oscure, la sede del Pci. Ecco, ancora un invitto alla meta finale. E sempre per sottrarre l’immanifesto al Kali Yuga.
Sia chiaro che adesso non stiamo parlando difficile solo per nobilitare la nostra natura di maiali. Sia chiaro che lingua e linguaggio procedono nel rispetto della materia, così sacra, da non avere altro vocabolario che quello dei nostri progenitori indoeuropei, gli iperborei, i cui altari erano e sono ancora fatti secondo proporzione di femmina perfetta – “Con fianchi larghi, le spalle un po’ meno e stretta alla vita”, e stiamo recitando i Veda. Erano e sono ombre bellissime e circonfuse d’emozioni quelle vicende di amore e vigore e se la nostra era è oscura, furono, sono e saranno leggi di pura luce a vampeggiare alla chiusura del ciclo: e i desideri troveranno la via per compiersi. Sempre che resti chiaro che il piacere, se pure è stato camuffato di vizio, compresso e sfigurato dal tristo democraticismo, è liturgia. E’ un fervore che procede dalla mente allo spirito, “sino alla punta delle unghie” (e stiamo recitando sempre i sacrissimi Veda).
Una felicità così feconda è propria di una stagione pagana. Anche la modernità degli occidentali ha avuto le sue stagioni di furori, ma sempre e solo nell’innesto dell’arte militare e della politica. Il Sessantotto, luogo assai comune presso gli schizzinosi della laicità borghese, è solo un’avventura per educande rispetto alla fantasmagorica epica di Fiume coi suoi legionari in perenne esagitazione creativa. Così come ogni riposo del soldato, in terra d’Africa, fu sempre affollato. E magari con l’enorme lingam di Mafarka il futurista, il re negrone che scavava tra le cosce delle femmine, ne bruciava le carni, o con le ragazze prese a grappoli per godere e figliare, e così fecondare la patria universale, come faceva Indro Montanelli, milite del glorioso Battaglione Eritreo.
Una tristezza da dopo orgia pervade questo inverno che non vuole saperne di morire dolcemente. Sono giornate della buoncostume. E giusto per rimestare nel nostro sciapo brodo che non è certo il folto brolo dell’Ade, tutti i movimentismi che si facevano spontanei in armonia con le polluzioni, quelle dei famosi porci alati, e tutta quella rottura extraparlamentare di giovinezze belle e libertarie, si sono capovolti. A farcela raccontare da Giampiero Mughini (per come l’ha dipinta così bene), quella gioventù della fantasia al potere è risultata tutta ribaltata nel sentire comune di oggi. Allora si faceva politica per rimorchiare, oggi, gli stessi, i rimorchiatori invecchiati, si sono fatti malmostosi e di ogni tetta – se non ora, quando? – fanno rogo.
Ci voleva un Berlusconi, già personaggio dell’orizzonte di Piero Chiara, a far resuscitare il femminismo. E’ in una versione, questo neofemminismo, aggiornata al bisogno non più di castrarlo il Silvio ma di kreparlo tra le troie, sorelle, quest’ultime, misconosciute dalle ottimate che fanno vanto e manto d’indignazione e impegno.
E ci volevano queste donne, sempre nel solco di Lisistrata, a far sciopero della loro stessa natura di femmina, a rinverdire una sinistra fatta solenne dall’ora grave: vedere krepare tra le troie perché, alla fine, non vogliono più che dal letame nascano i fiori. Hanno, infatti, lastricato via del Campo, cantata da Fabrizio De André, di piastrelle pudiche e hanno affrescato i muri delle lucciole di minacciosa e opaca noia.
Sono giornate del comune senso del pudore, queste. Le trasmissioni più in voga si aprono con gli appelli delle suore indignate e chi l’avrebbe mai immaginato di vedere la sovversione del collettivo tramutarsi – e solo perché si va in odio al Peccatore – in un eterno manifesto di pudore e castità? Sono discorsi perfino orecchiati, quello dello scambio simbolico tra suore e femministe, bisogna riconoscerlo. Enrico Berlinguer, coscienza della ruvida morale militante del Pci, ci fece un monito sull’esempio di Maria Goretti, la santa, simbolo di una purezza votata al martirio, e magari si scoprirà che la sinistra è sempre stata di destra se ancora oggi, nella sua vetrina più sgargiante, il pensiero dominante, quello della minoranza moralmente emancipata, quella che declama – se non ora, quando? – non fa che saccheggiare dall’argenteria del pensiero reazionario. Gli ambientalisti sono tali solo perché nutrono il loro entusiasmo di panico per la natura e la vita animale dal sangue e suolo, ovvero dai primordi del Terzo Reich; e pure i degustatori dello slow food, fanno blut und boden. Mangiano le cose buone di una volta, il genuino rapportarsi a strapaese, la nostalgia dell’età felice. Per non dire dei signori procuratori. E tutto quel rigare dritto, poi, è un habitus proprio dei reazionari. E ci voleva Berlusconi per resuscitare la sovversione degli sporcaccioni se poi, il mettere i carabinieri tra le lenzuola, non è proprio voler aderire alla “sperimentazione dei corpi” o alla “extraterritorialità dell’emozione”.
Sono giornate del cupio dissolvi delle categorie di destra e sinistra e ci vuole un grado di degenerazione molto avanzato di eccitamento perché la femmina possa specchiarsi in un maschio degno di legnarla a dovere, come si addice nella collocazione dei fuochi cosmici, ben inteso. Un modello maschile adeguato all’evoluzione femminile non c’è, alle Winks, le bambole d’intelligenza e seduzione, fanno corrispondere i metrosexual, ovvero, una sorta di froci neppure venuti bene. E anche a voler dimenticare il piccolo cortile italiano, tutto il congiurare di finitezza sull’infinito, nelle nostre città del mondo, ci sta rosicchiando la febbre che fa lavorare il pensiero. Molto più che la natura non voglia, fabbricando ovunque nevrastenia e pazzia, propria di gente profondamente egoista, assetata di oro e non di femmina. E così, forse, anche per le femmine. Assetate di oro e non di lingam.
Il leggere e scrivere, in questo periodo, non forgia un minimo di idea. A forza di non voler studiare Massimo Fagioli, il vero rivoluzionario qui in Italia, tutti questi benpensanti della sinistra si sono ritrovati nelle greppie mentali di un signor Antonio qualsiasi. Sullo schermo si svolgevano le scene de “Le tentazioni del signor Antonio”, il film di Federico Fellini con un piccolo Peppino De Filippo travolto dall’esuberanza mammaria di Anita Ekberg. All’epoca non c’era la possibilità di un esorcismo fatto di burka burka, ci si limitava a foderare di panno le lunghe gambe delle sorelle Kessler, chissà adesso, gli idioti di destra, che sgallettate nude metterebbero al posto di quelle, così divine e chissà che anatemi, gli idioti di sinistra, getterebbero su di loro: le vedrebbero già consiglieri regionali, europarlamentari, deputate e maggiorate.
Io sono reazionario, e proprio il burka, oltretutto molto usato dai maschi, proprio no, non mi convince. Il velo, invece, lo voglio, s’addice ad un SL Mercedes in corsa. Non si capisce perché la sinistra dei libertari, delle donne liberate, emancipate nel corpo e nei desideri, perché muova guerra ad Anna Karenina. Ma in verità è tutto chiaro. Sono pomeriggi passati in cauta attesa di nuovi sms, di fotografie, di filmini e di lingam svuotati. Non so se avete presente la puttana, quella ottimista e di sinistra, ecco, quella. E’ portata al rogo e con lei tutte le ragazze raccontate in queste giornate di così atroce caricatura. Tutte fanciulle, sode, la cui aria, in ciascuna, è di quella che si nota al primo colpo d’occhio, celebrate quali donne pubbliche aduse al peccato.
Sono donne la cui vita, si ritrova, d’un sol colpo, abolita. Ragazze, infine, e tali sono, precipitate tra le braccia del Peccatore, non certo costrette, ma ristrette nel cieco cerchio di un’esistenza micragnosa e perciò abbagliate dal soldo facile, dalla possibilità di fare, o lasciar fare, birbonate d’ogni genere. Gentuzza dalla sottana facile mossa dalla spinta delle grandi occasioni. Non sono il “corpo della donna”, non sono le “ragazze tangenti”, e non – come si strilla tra la gente perbene – puttane che, puttane per come sono, di così esagerata favola non se ne trovano in nessun bordello.
Forse sono anche ragazze che con un colpo di sedere, magari in tutti i sensi, hanno beneficiato di un lasciapassare politico, sono solo femmine che nessun burka potrà costringere alla rispettabilità democratica e repubblicana. Quello delle nostre cronache è, dunque, un libertinismo senza libertà. E forse, vista l’età dei protagonisti, anche un libertinismo senza uso di lingam. E se da un lato s’ode: “Sono donna e dico basta”, dall’altro, visti i prezzi, è facile che rispondano: “Sono donna e dico ancora”.
In questa età volgare, nel tempo della democrazia compiuta, quell’antro delle delizie (o, giardino dei supplizi, secondo i punti di vista) e qualsiasi cosa in definitiva sia Arcore è solo una struttura professionale. E tale è, con tanto di ragionieri, bollette da evadere e utilizzatore finale aggrappato al K, solo che non può, in forza dell’indignazione, trasformarsi da pornografia teatrabile in un contrappasso.
Non si può farne, in virtù dell’etica, la nemesi della buona condotta borghese, tipo: dal bunga bunga al burka burka. Un’intera stagione politica che se ne scivola via a causa della femmina è qualcosa che ricorda Troia e il ratto di Elena, una monomania sessuale che brama solo il pedaggio di una ripugnanza istintiva, ovvero, la chiamata alle armi dell’opinione pubblica per eliminare se non uccidere altri che non siano le donne giovani e belle. Eliminare lui in questo caso, il Peccatore. Ed è la solita cara eversione con detonazione erotica la cui miccia è sempre femmina, solo che nessun lenzuolo di burka, la cui pochezza culturale di questo montante neofemminismo fa il paio coi difensori dell’indifendibile, può coprire il vuoto di potere che sfascia nell’imbarazzo la tragicommedia italiana.
In ogni mutazione extralinguistica si annida un dettaglio remoto, lo strascico di un legaccio arcaico e perciò fondante: il potere che è proprio della potenza. E dunque, ancora una volta, il lingam. Solo e sempre il lingam che, nel suo vigore verticale, separa potenza e impotenza.
Ecco, a questo punto occorre rinfrescarsi la mente con una scena presa dal “Novecento” di Bernardo Bertolucci, un film fatto in un’epoca in cui la sinistra sembrava proprio essere una sinistra. C’è Burt Lancaster nei panni di un vecchio proprietario terriero, archetipo del dominus. Entra in una stalla con una ragazzina. Si fa toccare. Con i piedi saldi nello sterco. Non c’è reazione. Palpa anche le mammelle di una mucca. Non c’è reazione. Manda via la ragazzina. Getta una corda sul soffitto. Ne ricava un nodo scorsoio. Ci mette dentro il collo. Mormora: “Il vero dramma di un uomo è quando non gli tira più l’uccello”. Si lascia cadere. E finisce. Finisce l’archetipo. Senza neppure krepare tra le troie, al contrario: congedando l’innocenza. Che è sempre femmina.
(di Pietrangelo Buttafuoco)
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