«Niente è così stupido e poco italiano come l'intolleranza, il disprezzo preconcetto verso gli stranieri, e il volersi chiudere nel guscio. Non c'è nulla di meno italiano del ripudio a priori d'ogni sapienza, esperienza, eccellenza straniera. Non c'è invece nulla di più anticamente, tradizionalmente, permanentemente italiano dell'accogliere, assimilare, ripensare, riplasmare ogni sapienza, esperienza, eccellenza». Parole di un'attualità incredibile, eppure sono state scritti negli anni Trenta da Berto Ricci, poeta di talento e organizzatore di riviste, in quella che aveva fondato e gli somigliava di più, L'Universale.
Pochi anni prima delle leggi razziali lui arrivò a scagliarsi contro lo stesso nazionalismo, in nome di una vocazione italiana, appunto, all'universalità e al cosmopolitismo: «Il mondo - scriveva - tende alla sua unità, nel senso d'accrescere e smisuratamente moltiplicare gli scambi e i rapporti fra i popoli, gli amori, gli odi, le reciproche dipendenze: unico risultato reale della politica moderna, se buono o cattivo non so, ma certo inevitabile e dominante, contro cui non val forza né teoria, né vale chiudersi grettamente nella provincia nativa. Saranno più forti quelli che più prontamente accetteranno codesta realtà valendosene con saggezza generosa: quelli che avranno più vita da donare, più cuore da spendere, e invece d'aspettare l'urto esterno rannicchiati nella contemplazione di se stessi, invece di mettersi in atto di difesa». A distanza di settant'anni dalla sua scomparsa nel deserto africano di Bir Gandula - il 2 febbraio del '41, abbattuto dall'aviazione britannica - forse è giunto il momento di riscoprirne la figura e l'importanza che ebbe, oltre che nel panorama culturale degli anni Trenta quale maestro di personaggi come Montanelli, Bilenchi e tanti altri che, anche nell'Italia del secondo dopoguerra non hanno mai nascosto il debito di riconoscenza nei confronti dell'intellettuale fiorentino.
Quando infatti, nei primi anni Novanta, Indro Montanelli - da poco reduce dal suo "strappo" con Berlusconi e con quella che si rifiutava di definire "destra" - fu sollecitato a indicare la sua formazione politico-culturale, rispose senza esitazioni: «La destra in cui da giovane militavo io, con Romano Bilenchi, Ottone Rosai e parecchi altri, faceva capo a un quindicinale, L'Universale, e a un giovane professore di matematica, Berto Ricci. Quando il gerarca del Minculpop, dal quale dipendeva il permesso di pubblicazione, ci chiese - proseguiva Montanelli - quali tematiche ci promettevamo di sviluppare, rispondemmo come la cosa più semplice e naturale di questo mondo: "La formazione in Italia di una coscienza civile"…».
Montanelli, che nel dopoguerra dirà «Sono stato fascista dal momento in cui ho potuto essere qualcosa», durante una vacanza estiva a Rieti, dove lavorava suo padre e dove lui frequentò il liceo, conobbe Diano Brocchi - sindacalista fascista e nel dopoguerra dirigente di Cisnal e Msi - una figura che lo affascinò e contagiò politicamente. E tramite Brocchi entrò a sua volta in confidenza e in amicizia proprio con Berto Ricci e i suoi sodali: Romano Bilenchi, Mino Maccari, Elio Vittorini, Ottone Rosai e Leo Longanesi. Ma il suo vero e unico maestro fu - a suo dire - fu indubbiamente Berto Ricci: «Se oggi», ha annotato lo storico Sandro Gerbi, «il suo nome è abbastanza conosciuto, anche al di fuori della cerchia degli specialisti, lo si deve soprattutto a Montanelli. Il quale più volte, nell'arco di settant'anni, ne scrisse sempre con ammirazione e rimpianto».
E Ricci, che - come ricordava ancora Montanelli - voleva trasformare il fascismo «dalla mezza burletta qual era stata sino ad allora» in «una rivoluzione autentica», aveva comunque un mai rinnegato passato da anarchico. Si era avvicinato al fascismo attraverso le posizioni "ribelli" della rivista Il Selvaggio di Maccari per poi fondare nel 1931 a Firenze con alcuni amici il "suo" mensile - poi quindicinale - L'Universale. Il programma del foglio, che uscirà fino all'estate del '35, è stato così descritto proprio da Montanelli: «Era un giornale frondista, che predicava il ritorno alla "prima ondata" e la necessità della "terza ondata". Attaccava tutte le autorità costituite, accusandole di eterodossia borghese e di antirivoluzionarismo». E Indro lo ha spiegato bene: «Nel fascismo non ci furono soltanto i gerarchi e i salti nel cerchio di fuoco e tutte le altre pagliacciate che ci umiliarono agli occhi del mondo e di noi stessi. Ci furono anche degli uomini come Ricci...»
Difficile, comunque, ricordare Ricci senza scivolare nella retorica, tanto più quando si richiama alla memoria un giovane uomo che, malgrado avesse moglie e figli, volle farsi mandare al fronte. Lasciandoci la pelle, a soli trentasei anni, in un luogo che la maggior parte di noi avrebbe difficoltà anche solo a indicare sulla cartina. Nemico della retorica ossequiosa nell'epoca delle maiuscole d'obbligo. Anarchico individualista che non si convertì al fascismo - come si usa dire - ma che pensò, forse illudendosi, di fare del fascismo una permanente rivoluzione libertaria, malgrado la resistenza di un apparato che mai lo amò.
E allora proviamoci con quella prosa secca che tanto apprezzava l'amico e collaboratore Indro Montanelli: «Della sua prosa così asciutta e tagliente - scriveva il giornalista di Fucecchio - e così in contrasto con lo stile del tempo, credo di poter dire che la letteratura giornalistica italiana non ne ha mai avuto di tanto stringente, dura e, qua e là, spavalda». Spavaldo e coerente, fino al limite dell'eresia, come ha sottolineato Paolo Buchignani nel sottotitolo del bel libro che gli ha dedicato nel 1994 - Un fascismo impossibile. L'eresia di Berto Ricci nella cultura del Ventennio (Il Mulino) - ricostruendone per la prima volta tutta la vicenda personale e il ruolo svolto nella vita culturale del Novecento.
Fieramente povero, Ricci, al punto - come ha raccontato Giampiero Mughini - di offrire come banchetto nuziale ai pochi invitati un solo cappuccino. Professore, precario, di matematica e fisica, ma antiaccademico. Patriota ma non nazionalista: «Il nazionalismo - sosteneva - ci renderebbe simili alle altri nazioni europee». Che non hanno avuto Roma.
Quando nel gennaio del '31, giusto ottanta anni fa, dà vita a L'Universale - la cui raccolta, edita oltre quarant'anni fa dalle edizioni del Borghese è ormai introvabile e andrebbe ripubblicata - la scelta del nome non è certo causale. Scrive Buchignani: «Le origini dell'universalismo ricciano risalgono al periodo significativo del Ricci anarchico». L'anarchica ribellione nei confronti della società borghese e «dei suoi idoli gretti» dell'amato Federigo Tozzi, il ribelle che più di ogni altro incarna la comune toscanità e «quindi l'italianità».
Per dare all'Italia un'arte nuova, Ricci chiama attorno a sé «giovani d'ingegno e di carattere» che non si accontentino di servire una causa, ma di darle forma e soprattutto sostanza. Autenticità. Tra loro ci sono gli amici Romano Bilenchi e Dino Garrone, lo scrittore novarese di nascita e pesarese d'adozione che morirà a Parigi, a soli ventisette anni, nel dicembre del '31 e di cui, pochi mesi fa, le Edizioni Interlinea hanno pubblicato un'inedita raccolta di brani intitolata Sorriso degli etruschi. Figli, come lui, di La Voce, Lacerba e de Il Selvaggio di Mino Maccari, che ne ospiterà le prime prove poetiche. Considerano Papini e Soffici i loro maestri, anche se solo i Papini e i Soffici della fase "eversiva" rivoluzionaria, precedente al loro ritorno all'ordine. Tra i poeti amano visceralmente Palazzeschi e «il pazzo bellissimo» Campana e vivono nel costante timore di tradire la poesia con la più baname prassi politica. Hanno letto con passione Mazzini, Oriani e d'Annunzio e vogliono mettere l'arte al servizio della loro contestazione generazionale. E poi c'è il mito che vive tra loro come uno di loro: Ottone Rosai, il pittore di Strapaese che rifugge i borghesi e preferisce starsene con i poveri.
Nel '35 il governo chiude le pubblicazione de L'Universale. Perché all'incoraggiamento iniziale dello stesso Mussolini e ai complimenti rinnovati in privato, seguono successivamente ben altri provvedimenti, di segno opposto. L'idea romantica, coltivata da Berto Ricci e dai suoi ragazzi - di cui era al tempo stesso giovane capo, fratello maggiore e a volte persino padre e compagno di strada - di un fascismo trasgressivo e libertario che potesse alla distanza prevalere sul regime, che combattesse dal di dentro quella che ritenevano una deriva conservatrice, svanisce nella disillusione.
In uno degli ultimi suoi "Avvisi" su L'Universale - siamo al febbraio 1935 - scatta una fotografia di una nitidezza spietata nella sua semplicità: «Finché il controllore ferroviario avrà un tono coi viaggiatori di prima classe, e un altro tono, leggermente diverso, con quelli di terza; finché l'usciere ministeriale si lascerà impressionare dal tipo "commendatore" e passerà di corsa sotto il naso del tipo a "povero diavolo", magari dicendo torno subito; finché l'agente municipale sarà cortesissimo e indulgentissimo con l'auto privata, un po' meno col taxi e quasi punto con quella marmaglia come noi, che osa ancora andare coi suoi piedi; finché insomma in Italia il principal criterio nello stabilire la gerarchia sociale degli individui sarà il denaro o l'apparenza del denaro, potremo dire e ripetere che c'è molto da fare....». C'è da proseguire, ancora oggi, nel mezzo di questi anni Duemila, la lezione di Berto Ricci, ancora convinti che è nostro obbligo costruire «in Italia una coscienza civile…».
(di Roberto Alfatti Appetiti)
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