domenica 6 febbraio 2011

Quando il pensiero si tuffa nel santo Graal della poesia


Il 6 febbraio di vent’anni va moriva a Madrid María Zambrano, filosofa e allieva di Ortega y Gasset. Era tornata da sette anni in patria da un lungo e doloroso esilio. Quarantacinque anni lontana dalla sua Spagna per antifranchismo, una vita randagia in una decina di Paesi e per una decina d’anni in Italia, a Roma - abitava in Campo de’ Fiori - dove intrecciò rapporti con Elena Croce, Elémire Zolla e Cristina Campo. Poi un rientro non trionfale nella terra, e infine una morte in disparte. Liberale come il suo maestro, ma aperta al sacro e al metafisico, rapita da Heidegger, dai suoi chiari nel bosco e dal suo pensiero poetante, e tentata da Unamuno, il cantore di don Chisciotte, dell’hispanidad e del sentimento tragico della vita. I testi della Zambrano sono dispersi in una miriade caotica di edizioni; nella mia biblioteca ho contato ben diciotto editori per una trentina di pubblicazioni uscite o tradotte in Italia dal ’91 a oggi.

La maledizione dell’espatrio trovò nella Zambrano un’espressione precisa: desterrados, «espiantati» o «sradicati». Ma la nostra anima, avvertiva María Zambrano in esilio - «è attraversata da sedimentazioni di secoli, le radici sono più grandi dei rami che vedono la luce». La filosofia della Zambrano fiorisce dalla maledizione di essere donna e di non poter aspirare a compiti e lavori riservati ai maschi: «Quando mi resi conto che di fatto non era possibile niente, scoprii la filosofia». Ma aggiunge nella sua mezza autobiografia del 1987: «Sarei stata utile come cane a un archeologo alla ricerca del divino, perché quando arrivavo in un posto che un tempo era stato un luogo sacro, mi mettevo a tremare e non riuscivo a separarmene, rimanevo lì come incollata». Rabdomante del sacro, María Zambrano riteneva che il compito della filosofia fosse quello di trasformare il sacro - e la sua percezione oscura, viscerale - in divino, nella sua espressione chiara e lucente. In lei la filosofia si annoda alla letteratura e infine alla poesia, nella convinzione che non si possa essere grandi filosofi senza essere grandi scrittori.

María Zambrano carica su di sé la maledizione di Antigone, di cui scrisse un elogio, a partire dalla sua condanna ad essere sepolta viva. E la difende da Sofocle che le attribuisce un destino di suicida, invocando la pura innocenza della fanciulla che affronta la discesa agli inferi ed entra nel regno dei morti per raggiungere, con la conoscenza, la libertà e conseguire la perfezione dell’immortalità. Così «oltrepassò con temerarietà i confini delle leggi e i comandamenti degli dei» e venne a trovarsi «nel regno del dio sconosciuto». Antigone, per la Zambrano, è sepolta viva dentro di noi, in ciascuno di noi.

Emerge nel suo pensiero aurorale il ruolo necessario del poeta, di colui che vive perso tra le cose, attaccato alla carne, smarrito tra i sogni e dimentico di sé, come ella scrive. La poesia è dono, la filosofia è ricerca. Il poeta esercita il proprio amore nostalgico per la terra, il filosofo invece esercita la violenza terribile, e maledetta, di spezzare le catene che lo legano alla terra e ai suoi compagni, si fa esule in cerca di assoluto. Ma anche al poeta tocca la sua maledizione: al poeta si addice infatti l’inferno della disperazione e la ricerca di ebbrezza per lenire la perdita della speranza; il poeta è ubriaco di vita perché è disperato e ribelle, esprime nei versi «l’immensa malinconia di vivere». La filosofia diventa così alla fine desolazione, anche nel senso di perdita del suolo e dunque esilio; la poesia è invece consolazione, per alleviare il male di vivere. Ma una consolazione che conduce al martirio, secondo la Zambrano. Il poeta è «perso nella luce, errante nella bellezza, povero per eccesso, folle per troppa ragione, peccatore in stato di grazia», scrive in Filosofia e poesia. Il poeta vuol condividere il sogno e la solitudine, desvive la storia, ovvero la vive al contrario, struggendosi. Il suo desvivere è il corrispettivo esistenziale della decreazione in Simone Weil: il rovescio «maledetto» di vivere e creare.

Affiora infine in María Zambrano, e non solo in lei, l’attenzione verso il lato in ombra della filosofia, che la collega al sapere divino e misterioso della tradizione orfico-pitagorica che la tradizione aristotelica, poi romana, quindi cristiana, infine illuministica, avevano negato. María Zambrano seppe penetrare in quella Basilica di Pitagora che Carcopino scoprì nei pressi di Porta Maggiore a Roma nel 1917, eretta ai tempi dell’imperatore Claudio e poco utilizzata al suo scopo, per l’interdetto del Senatum Consultum e il suicidio del suo fondatore, Tito Statilio Tauro, accusato di praticarvi riti magici e pratiche occulte. La basilica pitagorica fu presto chiusa e murata. Le sue tracce restano ancora nei pressi di Porta Maggiore; unica al mondo, sono ancora in piedi i muri, l’abside e le tre navate. Così rimase, come scrive la Zambrano in L’Uomo e il Divino, quasi intonsa nei suoi bianchi stucchi, di quella bianchezza tanto cara ai pitagorici. Toccò a una donna che avvertiva la presenza del sacro come un segugio riscoprirla nel Novecento, come un capitolo in ombra di quella linea orfico-pitagorica che influenzò anche Platone e poi passò alla clandestinità per l’interdetto di Aristotele, della Roma imperiale e poi della Roma cristiana.

María Zambrano fu testimone d’amore di quella linea d’ombra della filosofia che sconfinava nella sapienza oracolare. A lei fu intestata a Malaga, sua città d’origine, la stazione ferroviaria, per condannarla anche da morta al suo destino viandante.

(di Marcello Veneziani)

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