Questo potrebbe essere l’ultimo articolo che scrivo e pubblico. Non perché abbia deciso che è finalmente giunta l’ora di smettere questa insana attività, ma perché, da quel che si legge, annuncia e denuncia in Rete un violento terremoto devasterà la Capitale il prossimo 11 maggio... L’allarme è generale, le paure s’incrociano, c’è chi consiglia di andar via quella notte o almeno di dormire in macchina. La diceria si è diffusa a macchia d’olio, si è gonfiata, arricchita di particolari. E come ogni leggenda metropolitana che si rispetti, tecnicizzata o meno, non si sa quando e come sia nata. Beh, un padre ce l’ha o ce l’avrebbe: è il sismologo e astronomo dilettante Raffaele Bendandi da Faenza (1873-1979), il quale, si afferma perentoriamente, l’avrebbe predetto questo maledetto sisma. Lo si afferma ma non si porta alcuna prova, anzi la cosiddetta previsione è stata seccamente smentita da «La Bendandiana», l’associazione che ne custodisce e studia le carte, che per bocca della sua presidente ha affermato con chiarezza che una tale previsione non è stata mai fatta e che non risulta in nessun documento custodito presso di essa. Insomma, una bufala apocalittica e mediatica. Eppure...
Eppure il potere della Rete è ormai troppo forte: un cosa falsa detta a voce mille e mille volte alla fine diventa vera e non ci sono ragioni, figuriamoci se rimbalza su Internet: è impossibile smentirla. Il meccanismo delle dicerie è noto e studiato da tempo, e quelle che gli antropologi culturali hanno definito ormai come «leggende metropolitane» hanno trovato un terreno fertilissimo e incontrollabile proprio grazie ad un ritrovato della tecnoscienza che, in questo caso specifico, si mescola alla tendenza millenaristica presente ormai da ben prima del 2000.
Non c’è in fondo grande differenza tra l’umanità, che la supponenza illuministica presume incolta e superstiziosa, dell’anno Mille e quella dell’anno Duemila. Allora c’erano predicatori che giravano per borghi e castelli, seguiti da turbe autoflagellantesi, annunciando la fine del mondo allo scoccare del 31 dicembre 999; oggi ci sono turbe virtuali che seguono profeti di sventura mediatici più o meno interessati che ci allarmano e spaventano per una serie di eventi che provocheranno ancora una volta la fine del mondo, parziale (come il terremoto romano) o globale (come nel fatidico 21 dicembre 2012). La civiltà ipertecnologizzata del XXI secolo non si rivela poi troppo diversa da quella del X secolo. La superstizione della catastrofe in agguato è peraltro una costante dell’umanità: su questo piano non si sono fatti passi avanti, anzi grazie ai ritrovati della tecnoscienza si è potenziata una sindrome ancestrale.
Non c’è molto da meravigliarsi: il tema della «fine del mondo» è sempre esistita come ha dimostrato uno storico delle religioni del livello di Ernesto De Martino in uno sterminato studio pubblicato postumo (La fine del mondo, Einaudi, 1977, cui si affianca oggi uno specifico approfondimento filosofico dovuto ad Andrea Tagliapietra, il quale nel suo dotto ma affascinante Icone della fine (Il Mulino), partendo da Kant, nota come di fronte all’idea di una fine definitiva di tutto e di tutti il pensiero di blocchi e si annulli, impotente a pensare oltre. La conseguenza è che, seguendo il ragionamento kantiano, l’esplorazione del vuoto abissale decretato dalla fine viene allora delegato non più alla ragione ma all’ «organo della immaginazione» che elabora così una serie di «immagini apocalittiche», dato che oggi, afferma Tagliapietra, assistiamo «alla ripresa dell’immaginazione della fine e del suo inventario figurale e simbolico». La conseguenza è che «le icone della fine elaborate all’interno del grande codice della tradizione occidentale rioccupano i vuoti del nostro presente, in quegli spazi dell’immaginario che coincidono con i miti della cultura di massa, del cinema e delle narrazioni popolari». E quindi anche della Rete.
Che esista da un bel po’ questo crogiolarsi generale in fantasie angosciose lo conferma un arguto e intelligente saggio di Andrea Kerbaker (Bufale apocalittiche, Ponte alle Grazie) dove si analizzano le apocalissi mancate all’inizio del XXI secolo: dal baco del millennio alla mucca pazza, per concludere che la nostra è ormai la «società degli allarmi» e che siamo condizionati, senza poterlo impedire, dalla «Internazionale della paura» che opera indisturbata grazie ad un mix composto da una informazione istantanea, dal cinismo dei media, dal parere di esperti, dai cosiddetti opinion makers mossi da due unici interessi: quelli di immagine e quelli economici. La nostra, afferma Kerbaker, è una società sostanzialmente ipocondriaca: «La certezza del male, dapprima basata su flebili indizi, cresce, prima piano, poi più rapidamente, acquista spazio mentale sempre maggiore, fino a sgonfiarsi più o meno da sola, in attesa della malattia successiva».
L’ultimissimo caso del terremoto romano lo conferma: è ciò che Kerbaker definisce come quel «senso di entropia, storicamente connaturato alla natura stessa dell’uomo: un costante memento mori che nelle varie epoche ha portato all’immaginazione di svariate catastrofi finali». Ce ne faremo una ragione e sopravviveremo anche a questo.
(di Gianfranco de Turris)
Eppure il potere della Rete è ormai troppo forte: un cosa falsa detta a voce mille e mille volte alla fine diventa vera e non ci sono ragioni, figuriamoci se rimbalza su Internet: è impossibile smentirla. Il meccanismo delle dicerie è noto e studiato da tempo, e quelle che gli antropologi culturali hanno definito ormai come «leggende metropolitane» hanno trovato un terreno fertilissimo e incontrollabile proprio grazie ad un ritrovato della tecnoscienza che, in questo caso specifico, si mescola alla tendenza millenaristica presente ormai da ben prima del 2000.
Non c’è in fondo grande differenza tra l’umanità, che la supponenza illuministica presume incolta e superstiziosa, dell’anno Mille e quella dell’anno Duemila. Allora c’erano predicatori che giravano per borghi e castelli, seguiti da turbe autoflagellantesi, annunciando la fine del mondo allo scoccare del 31 dicembre 999; oggi ci sono turbe virtuali che seguono profeti di sventura mediatici più o meno interessati che ci allarmano e spaventano per una serie di eventi che provocheranno ancora una volta la fine del mondo, parziale (come il terremoto romano) o globale (come nel fatidico 21 dicembre 2012). La civiltà ipertecnologizzata del XXI secolo non si rivela poi troppo diversa da quella del X secolo. La superstizione della catastrofe in agguato è peraltro una costante dell’umanità: su questo piano non si sono fatti passi avanti, anzi grazie ai ritrovati della tecnoscienza si è potenziata una sindrome ancestrale.
Non c’è molto da meravigliarsi: il tema della «fine del mondo» è sempre esistita come ha dimostrato uno storico delle religioni del livello di Ernesto De Martino in uno sterminato studio pubblicato postumo (La fine del mondo, Einaudi, 1977, cui si affianca oggi uno specifico approfondimento filosofico dovuto ad Andrea Tagliapietra, il quale nel suo dotto ma affascinante Icone della fine (Il Mulino), partendo da Kant, nota come di fronte all’idea di una fine definitiva di tutto e di tutti il pensiero di blocchi e si annulli, impotente a pensare oltre. La conseguenza è che, seguendo il ragionamento kantiano, l’esplorazione del vuoto abissale decretato dalla fine viene allora delegato non più alla ragione ma all’ «organo della immaginazione» che elabora così una serie di «immagini apocalittiche», dato che oggi, afferma Tagliapietra, assistiamo «alla ripresa dell’immaginazione della fine e del suo inventario figurale e simbolico». La conseguenza è che «le icone della fine elaborate all’interno del grande codice della tradizione occidentale rioccupano i vuoti del nostro presente, in quegli spazi dell’immaginario che coincidono con i miti della cultura di massa, del cinema e delle narrazioni popolari». E quindi anche della Rete.
Che esista da un bel po’ questo crogiolarsi generale in fantasie angosciose lo conferma un arguto e intelligente saggio di Andrea Kerbaker (Bufale apocalittiche, Ponte alle Grazie) dove si analizzano le apocalissi mancate all’inizio del XXI secolo: dal baco del millennio alla mucca pazza, per concludere che la nostra è ormai la «società degli allarmi» e che siamo condizionati, senza poterlo impedire, dalla «Internazionale della paura» che opera indisturbata grazie ad un mix composto da una informazione istantanea, dal cinismo dei media, dal parere di esperti, dai cosiddetti opinion makers mossi da due unici interessi: quelli di immagine e quelli economici. La nostra, afferma Kerbaker, è una società sostanzialmente ipocondriaca: «La certezza del male, dapprima basata su flebili indizi, cresce, prima piano, poi più rapidamente, acquista spazio mentale sempre maggiore, fino a sgonfiarsi più o meno da sola, in attesa della malattia successiva».
L’ultimissimo caso del terremoto romano lo conferma: è ciò che Kerbaker definisce come quel «senso di entropia, storicamente connaturato alla natura stessa dell’uomo: un costante memento mori che nelle varie epoche ha portato all’immaginazione di svariate catastrofi finali». Ce ne faremo una ragione e sopravviveremo anche a questo.
(di Gianfranco de Turris)
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