Con la scomparsa di Pino Rauti si chiude
virtualmente la parabola di una certa destra italiana, quella
neofascista che, sopravvissuta alla Prima Repubblica, cercò di
ritagliarsi un ruolo nella Seconda, si rifondò, abiurò e si scisse,
infine si autosciolse. Politicamente, Rauti morì al tempo del lavacro di
Fiuggi e dell’annesso candeggio della camicia nera. Rifiutando l’uno e
l’altro, probabilmente sapeva di condannarsi suo malgrado a emblema di
quella visione sterile e nostalgica del Msi e del fascismo di cui pure
era stato negli anni Settanta il più tenace e lucido avversario, ma
alla base di quella scelta c’era più sentimento che ragione, più senso
etico che calcolo. Nel naufragio di quella che era stata la nave della
sua vita, Rauti scelse insomma di affondarvi insieme, ma va anche detto
che il destino gli concesse, nel quindicennio successivo, di vedere
via via finire in fondo al mare le scialuppe di salvataggio allora
approntate con così tanta celerità, ma senza troppa cura. La coerenza,
si sa, in politica non è un valore, ma nella vita di tutti i giorni
impedisce la vergogna.
Intellettuale prestato alla politica, Pino Rauti fu soprattutto un uomo di minoranza e di opposizione, più a suo agio con i libri che con le alchimie delle correnti e delle maggioranze di partito. Non aveva la retorica oratoria di un Giorgio Almirante, né godeva del prestigio di un Pino Romualdi, uno che il Movimento sociale lo aveva fondato in clandestinità, da ricercato politico. Eppure, nella seconda metà deglianni Settanta del secolo scorso, fu per la frangia più inquieta e interessante di quel mondo giovanile il catalizzatore di un’idea di modernizzazione che per un certo periodo sembrò fare breccia in quelloche era rimasto sostanzialmente un partito di reduci e di vinti dalla storia. In sostanza, Rauti elaborò una teoria per la quale invece di rassegnarsi a essere l’ultima trincea dell’anticomunismo e/o la ruota di scorta della Democrazia cristiana, il Msi doveva porsi l’ambizione di «sfondare a sinistra». Fallito il sorpasso del Pci nel 1976, questo partito era destinato, secondo la sua analisi, a logorarsi nella equivoca formula della «solidarietà nazionale » e quindi si apriva la possibilità di proiettarsi all’interno della società civile, alla ricerca di nuovi interlocutori e nuove convergenze.
Per fare questo occorreva, naturalmente, rinnovare il proprio di partito, «andare oltre », aprirsi a nuove e diverse forme di comunicazione e di insediamento sul territorio, cercare di sintonizzarsi più con il malessere che con il benessere, più con gli emarginati che con i «garantiti ». Soprattutto, bisognava farla finita con l’identificazione in una destra conservatrice che, di fatto, lasciava il monopolio delle istanze sociali e del progresso alla sinistra, un pedaggio costoso e che non portava da nessuna parte.
Era quella di Rauti una prospettiva interessante, ma comportava un giro di boa che la minoranza a lui facente capo non era in grado di imporre, e che la maggioranza almirantiana si guarderà bene dall’appoggiare. Finirà nel nulla, ma il non rimodernarsi allora presenterà il conto un decennio dopo.
A un giovane d’oggi,tutto questo appare preistoria, e già il solo parlarne mette in evidenza il salto che successivamente ha fatto la politica. Nel giro di dieci anni, infatti, la caduta del Muro di Berlino aprirà il via allo smottamento e alla scomparsa del comunismo in Europa, il venir meno del fattore K provocherà la fine della Democrazia cristiana come elemento cardine del sistema politico italiano, Tangentopoli e gli scandali legati alla corruzione economico- politica apriranno il varco a quella crisi istituzionale e di potere che va sotto il nome di Prima Repubblica. Nulla sarà più come era stato prima.
Nemmeno, anche se suo malgrado, il Movimento sociale, di cui nel 1990 Rauti è diventato intanto il segretario, al posto di quel Gianfranco Fini intronizzato tre anni prima da un Almirante ormai malato e che ha continuato nel piccolo cabotaggio di un partito sempre più minoritario, stretto fra un reducismo sempre più patetico e un anticomunismo ormai senza più comunisti. È, quella di Rauti, però una segreteria fuori tempo massimo e talmente breve, appena un anno, da apparire più come un incidente di percorso di un Fini non ancora saldamente al comando, che una reale volontà di cambiamento. Una segreteria resa oltretutto possibile grazie a una convergenza dei vari oppositori del dopo Almirante, e non per una reale forza politica del suo eterno avversario. La nuova pillola ricostituente della successiva gestione finiana, sarà «il Fascismo del Duemila»: l’acqua di Fiuggi, di lì a qualche anno, la evacuerà con tutto il resto.
La storia non si fa con i se, e quindi è inutile chiedersi cosa sarebbe potuto essere il Msi se quello «sfondamento a sinistra» da Rauti teorizzato fosse stato veramente messo in pratica. C’era in lui, come in tutti quelli della sua generazione e della sua parte, un misto di sindrome da sconfitti e di fedeltà comunque alle ragioni e ai torti di una sconfitta, che ne faceva dei soggetti politici più a loro agio con la testimonianza che con l’esercizio del potere.
Legati a un’epoca, psicologicamente erano insomma incapaci di liberarsene. E tuttavia, c’era in questa fedeltà a ciò che si era stati, una dignità di cui, visti i nostri tempi, va oggi riconosciuta la caratura.
(di Stenio Solinas)
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