martedì 10 maggio 2011

Ecco come soccorre un italiano


Che storia ci stiamo raccontando? Dov’è l’indifferenza per la tragedia dei migranti? Dove la nostra sazietà egoista? O la grettezza di chi preferisce un cadavere africano galleggiante, pasto premio per gamberi antropofagi, alla fatica di trovargli asilo. La cosa stupefacente di questa drôle de guerre incivile non è che gli italiani di ogni ordine e grado, uomini di Stato e privati cittadini lampedusani, abbiano appena contribuito a salvare cinquecento e più naufraghi provenienti dall’inferno sub sahariano (ha ragione Silvio Berlusconi, prima o poi commineranno a Lampedusa il Nobel per la Pace in tempi di catastrofi umanitarie). La cosa incomprensibile è come nel centro del discorso pubblico si sia conficcata una narrazione bugiarda, un’autorappresentazione criminalizzante dei nostri criteri di ospitalità verso le vittime indirette dell’incendio maghrebino o verso i migranti cui questo incendio ha spalancato i porti del Mediterraneo.

L’Italia berlusconiana è uno strano animale politico che ha imparato a diffidare della chiacchiera universalista, non teorizza l’accoglienza indiscriminata ma intanto pratica la salvezza di massa. Al dettaglio o all’ingrosso che sia, con o senza l’approvazione degli euroburocrati imbelli o dei pallidi sibariti anglo-francesi buoni a far colonia in Libia ma con le porte di casa ben sprangate. C’è però un fondo di autolesionismo che ci tocca nel vivo: nel sentire comune vellicato dai mezzi d’informazione – e alimentato dalla testa quadra di chi ha confuso la battaglia antiberlusconiana con il disamor di Patria – si è andato affermando un senso di colpa antropologico in base al quale gli italiani sarebbero indegni del loro status di privilegiati. Lo sarebbero di fronte ai bambini colorati aggrappati alle trecce delle loro madri e ai sogni di tutti gli altri randagi del mare che hanno trovato una tomba di gruppo sui fondali.

Questa menzogna urlata cozza contro una verità indebolita dalla sua interpretazione corrente: sappiamo fare benissimo quel che a forza di prediche gratuite dall’esterno abbiamo preso a predicarci da noi stessi; spendiamo soldi e fatica nel soccorso immediato (anche senza languori caritatevoli) di chiunque sbarchi sulle nostre coste; abbiamo una tale quantità d’associazioni di volontariato da dover semmai dubitare che alcune di queste finiscano per concimare l’indigenza pur di non smarrire quattrini e monopoli in fatto di dolore; il nostro ministro dell’Interno, Roberto Maroni, è un leghista coi fiocchi e a una settimana dalla giostra delle amministrative avrebbe avuto ogni convenienza nel fare la faccia cattiva verso gli allogeni, invece ha subito dichiarato: “Stanno scappando proprio perché lì si continua a combattere e non possono essere in alcun modo rimpatriati”.

Certo abbiamo smesso di offrire libagioni a Nettuno e non sappiamo comandare ai suoi marosi così avidi di sacrifici umani. Ma nella nostra memoria ancestrale di naviganti e pirati e, troppo spesso in passato, naufraghi mediterranei non è mai scomparso Omero: “I mendicanti e gli stranieri sono mandati da Zeus”. Sul dio Xenios (nume tutelare degli stranieri) o in nome di Giove Ospitale la civiltà ha costruito il suo sistema di relazioni internazionali e per millenni la “sacertà dell’ospite” ha sorretto l’istinto pratico e il luogo comune che separa gli uomini dai barbari. A questa sacralità, naturalmente, ha sempre fatto da controparte la signoria della legge e dei limiti temporali di ospitalità da parte del popolo accogliente. Certe disposizioni d’animo non si perdono mai del tutto, non in Italia almeno, a giudicare dalle tante istantanee che ritraggono naufraghi neonati tra le capaci braccia dei siciliani. Tutto sta a saperlo raccontare senza complessi.

(di Alessandro Giuli)

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