La violenza di Autonomia Operaia e dei movimenti studenteschi degli anni ’70, l’eversione nera di Franco Freda, le inchieste del giudice Pietro Calogero, la paura dei professori sprangati, la rabbia di chi voleva cambiare il mondo ma aveva dei cattivi maestri. E ancora, le P38 e le sale del bar Pedrocchi, le stradine medievali di Padova e la guerriglia urbana (scatenata per scardinare i gangli dello Stato a partire da Nord-Est), i morti ammazzati dalle Brigate rosse e chi è finito in galera aspettando troppo a lungo una sentenza di assoluzione, gli appelli di Radio Sherwood e le finestre chiuse di chi non aveva il coraggio di guardar fuori.
Questo è altro troverete nel libro della giornalista Silvia Giralucci, L’inferno sono gli altri (Mondadori, pagg. 180, euro 17,50), che arriva in libreria oggi, in coincidenza con il «Giorno della memoria» delle vittime del terrorismo. La Giralucci ha vissuto sulla propria pelle gli «anni di piombo» - suo padre Graziano fu ucciso nel ’74 dalle Br durante un assalto a una sede dell’Msi - e ha svolto un lungo percorso di ricerca per capire come Padova sia stata travolta da quella spirale di violenza. Tutti ricordano il «processo 7 aprile» che ne segno l’inizio della fine. L’iter giudiziario, frutto di una lunga indagine del giudice Calogero, ebbe esiti controversi: molte accuse rivolte a Toni Negri e agli altri militanti vennero provate ma cadde l’idea di un collegamento diretto con le Br.
Silvia Giralucci ha voluto indagare e sentire le voci di chi ebbe un ruolo in quel dramma. Il risultato è un ritratto a più voci per cercare la verità, senza odio. Ottenuto raccogliendo in prima persona testimonianze di persone diversissime: il professor Guido Petter che da partigiano si ritrovò accusato di essere «servo dello Stato» e abbattuto a sprangate, la militante Cecilia Z. che tifava per la rivolta, lo stesso giudice Calogero, il giornalista del Mattino Pino Nicotri, accusato di essere l’autore della telefonata che indicava il luogo dove si trovava il cadavere di Moro.
Silvia, perché ha deciso di intraprendere questa ricerca?
«Da bambina, vidi una scritta fuori da casa di mia nonna: “Fuori i compagni del 7 aprile”. Erano argomenti di cui in casa non si parlava, ma mi è sempre rimasta nella memoria. Negli anni ho sempre sentito dire che il 7 aprile 1979 era un tabù. Io ho cercato di capire come si è arrivati lì. Non solo perché sono stata colpita direttamente, ma anche perché è una frattura, un non detto che ha coinvolto molti miei coetanei, costretti a fare una scelta di campo senza conoscere i fatti. Tra vittime delle violenze e imputati del processo non c’è mai stato confronto».
Lei si è concentrata soprattutto sul periodo precedente il processo...
«Volevo ricostruire il clima di violenza che ha portato agli arresti del 7 aprile, non la vicenda giudiziaria. Le accuse da cui Toni Negri è stato scagionato fanno spesso dimenticare tutti i fatti per i quali lui e altri imputati sono stati considerati colpevoli. Il processo non è stato solo un teorema sulle Br. Io volevo recuperare la memoria del “prima”. Le ragioni delle persone che si sono esposte personalmente, da una parte e dall’altra...».
Il suo libro da questo punto di vista è coraggioso. Mette assieme voci molto diverse.
«Sì, credo che molti di quelli che sbagliarono fossero in buona fede, non riuscirono a vedere le conseguenze delle loro azioni... L’impressione più triste che ho avuto è che chi scelse la via della violenza ancora adesso a volte non sia riuscito a rielaborare i propri errori. Si limitano a dire: “di queste storie non voglio più parlare...”».
E le vittime? Lei dedica molto spazio al caso di Guido Petter, partigiano, aperto ai movimenti del ’68 ma trasformato in bersaglio...
«Guido Petter è il nonno che tutti vorremmo avere. Non ha mai serbato rancore, eppure ha subìto cose tremende. Nonostante ciò qualcuno dei militanti di allora è ancora capace di dire che quella verso il professore era “ironia”. Eppure il suo studio venne distrutto e lui ripetutamente aggredito».
Anche Nicotri, assolto delle accuse, ricordando quegli anni ricorre a espressioni che suonano stranianti come «violenza di classe “accettabile”». Fa impressione. O no?
«Io le ho riportate come le ha dette... A molti mancò allora la coscienza chiara di ciò che stavano facendo e ancora oggi ti ripetono: “Ma era violenza la nostra o quella dello Stato?”. Giustificano la violenza perché era violenza di massa».
È tutta la città di Padova ad aver portato avanti un processo di rimozione?
«Ancora adesso questa è una città dove un consigliere comunale, del quale non condivido le idee, può finire all’ospedale. È ancora una città in cui ci sono vittime di destra che vengono considerate da molti solo vittime di una parte... Io spero che il mio libro serva a far superare questa logica».
(di Matteo Sacchi)
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