L’11 settembre non ha cambiato la storia, l’ha solo accelerata. Provocando guerre, fame e odio. A sostenere questa tesi non è la sinistra pacifista (evaporata, per la verità, sotto il sole di Libia), bensì il SIR, l’agenzia dei vescovi italiani, con un intervento di Riccardo Moro, economista ed esperto di geopolitica, nonché direttore della Fondazione Giustizia e Solidarietà, l’organismo creato dalla Conferenza Episcopale Italiana e attivo sui temi della giustizia economica internazionale.
Le tesi di Moro costituiscono un approccio assai poco corretto, rispetto alla guerra globale al terrorismo che ha caratterizzato il decennio post-11/9: «La presidenza Bush era arrivata alla Casa Bianca con ambizioni internazionali grandiose e temerarie. Dopo anni di concessioni alle Nazioni Unite era ora che l’America giocasse di nuovo il suo ruolo storico. Nell’avvio del nuovo secolo, definitivamente battuto il comunismo, gli USA avrebbero dovuto promuovere la democrazia e il libero mercato nel mondo, assumendo senza pavidità le necessarie responsabilità militari. Tuttora è possibile leggere i ‘principi’ ispiratori di quella politica sul sito www.newamericancentury.org firmato nel 1997, tra gli altri, da uomini come Jeb Bush, il fratello del futuro presidente, Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz, futuri ministro e viceministro della Difesa». Tale premessa storico-ideologica costituisce, secondo Moro, il presupposto di ciò che successe: «È in quell’àmbito che nacque l’idea di esportare la democrazia con le armi, ben prima che le Torri venissero colpite». Sono analisi che è facile reperire nei siti web di cosiddetta controinformazione, ma che non si pensava potessero trovare ospitalità nell’agenzia-stampa di riferimento della CEI. Né ci si sarebbe aspettati di leggere l’audace riflessione per cui «di fronte a queste scelte l’attentato non cambiò realmente la storia, ne rese solo più rapido lo sviluppo: le intenzioni militari di chi davvero contava nell’Amministrazione Bush erano già determinate e l’attentato fu l’occasione per metterle in atto con un consenso altrimenti più difficile da ottenere».
Ciò che avvenne dopo è, secondo l’economista cattolico, la logica conseguenza della dottrina neocon che dominava alla Casa Bianca: «A seguito dell’attacco alle due Torri, come si ricorderà, l’esigenza di ‘giustizia’ argomentava il consenso intorno ad un’azione che ‘punisse’ i colpevoli. Si intervenne così in Afganistan, senza peraltro avere la certezza della presenza di Osama Bin Laden. Ottenuta la caduta dei talebani, ci si spostò in Iraq contro Saddam Hussein, anche se questi non aveva rapporti con Al Qaeda. Per giustificare l’intervento militare vennero presentati – persino davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – ‘studi’ e ‘prove certe’ dell’esistenza di armi di distruzione di massa, in seguito rivelatisi falsi e costruiti ad arte». Di fronte a questa escalation militare, come ci si ricorderà, Giovanni Paolo II – annientato ormai nel corpo, ma saldo nei principi, avrebbe levato, inutilmente, un disperato anatema. E, forse memore di quell’accorato appello, l’editoriale del SIR non fa sconti nemmeno sui tragici risultati che la cosiddetta lotta al terrore ha sortito: «Il successo dell’esportazione della democrazia con le armi è sotto gli occhi di tutti. A Bagdad e a Kabul la situazione è tuttora irrisolta e il rapporto tra Occidente e mondi arabo e musulmano sono gravemente peggiorati. Né gli USA si sono affermati ‘storicamente’. Anzi, proprio quella stagione politica, con la liberalizzazione selvaggia del mercato finanziario, ha creato le premesse per la drammatica crisi finanziaria che è stato l’ultimo regalo dell’Amministrazione Bush. Grazie a quella crisi gli USA conoscono ora disoccupazione e declassamento del debito, mentre sul piano economico si irrobustiscono nuovi attori».
E in quanto particolarmente impegnato sulle questioni del debito estero dei Paesi del Terzo mondo, della lotta alla povertà e del finanziamento dello sviluppo nel quadro della globalizzazione (ha scritto, fra l’altro, per le edizioni Ave, il volume Governare la globalizzazione), Moro coglie invece, fra gli «effetti collaterali» del dopo-11 settembre, un «cambiamento netto, del tutto negativo. Infatti, secondo la sua ricostruzione, ‘gli ultimi anni del Novecento e il Giubileo avevano segnato una straordinaria stagione, con la campagna per la cancellazione del debito estero e il lancio degli ‘Obiettivi di sviluppo del millennio’ da raggiungersi nel 2015 per dimezzare la povertà nel pianeta». Si era pertanto registrato l’incremento di «un impegno internazionale condiviso verso lo sviluppo e la lotta alla povertà». Ma «l’attentato ha di fatto congelato gli impegni e cambiato le priorità nell’agenda internazionale. Senza quell’evento forse oggi gli Obiettivi del 2015 non sarebbero così lontani». E così, «i tremila morti di New York si replicano ogni giorno, moltiplicati, nelle morti per fame o per le guerre dimenticate».
La presa di posizione del SIR non è meno dura sulle conseguenze etico-culturali che tali tragici accadimenti ha determinato: «L’attentato – infatti – ha alimentato l’inchiostro di chi ha trovato parole di rancore orgogliose. Lo ricordiamo con pena». E se «la rabbia fiera e rancorosa, tanto citata ancora in questi giorni, non costruisce nulla», c’è invece necessità di «riconciliazione», innanzitutto «con se stessi, per riuscire a incontrare autenticamente gli altri. Abbiamo bisogno di tessere fili pazienti di dialogo per riconciliarci e servire l’uomo». È facile immaginare che una simile interpretazione – che giunge, va ribadito, da un organo di informazione non certo eterogeneo rispetto alla Conferenza dei vescovi italiani – non piacerà a molti, soprattutto a quelle correnti cristianiste e teocon ben rappresentate nella stampa italiana. D’altra parte, l’analisi di Moro non ci appare lontana da quella espressa da tanti intellettuali non-conformisti che, anche dalle nostre parti, si ha la (buona) abitudine di consultare, da Tarchi a De Benoist, da Fini (Massimo!) a Cardini, fino allo scandaloso Blondet. La polemica, dunque, è servita!
(di Siro Mazza)
Le tesi di Moro costituiscono un approccio assai poco corretto, rispetto alla guerra globale al terrorismo che ha caratterizzato il decennio post-11/9: «La presidenza Bush era arrivata alla Casa Bianca con ambizioni internazionali grandiose e temerarie. Dopo anni di concessioni alle Nazioni Unite era ora che l’America giocasse di nuovo il suo ruolo storico. Nell’avvio del nuovo secolo, definitivamente battuto il comunismo, gli USA avrebbero dovuto promuovere la democrazia e il libero mercato nel mondo, assumendo senza pavidità le necessarie responsabilità militari. Tuttora è possibile leggere i ‘principi’ ispiratori di quella politica sul sito www.newamericancentury.org firmato nel 1997, tra gli altri, da uomini come Jeb Bush, il fratello del futuro presidente, Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz, futuri ministro e viceministro della Difesa». Tale premessa storico-ideologica costituisce, secondo Moro, il presupposto di ciò che successe: «È in quell’àmbito che nacque l’idea di esportare la democrazia con le armi, ben prima che le Torri venissero colpite». Sono analisi che è facile reperire nei siti web di cosiddetta controinformazione, ma che non si pensava potessero trovare ospitalità nell’agenzia-stampa di riferimento della CEI. Né ci si sarebbe aspettati di leggere l’audace riflessione per cui «di fronte a queste scelte l’attentato non cambiò realmente la storia, ne rese solo più rapido lo sviluppo: le intenzioni militari di chi davvero contava nell’Amministrazione Bush erano già determinate e l’attentato fu l’occasione per metterle in atto con un consenso altrimenti più difficile da ottenere».
Ciò che avvenne dopo è, secondo l’economista cattolico, la logica conseguenza della dottrina neocon che dominava alla Casa Bianca: «A seguito dell’attacco alle due Torri, come si ricorderà, l’esigenza di ‘giustizia’ argomentava il consenso intorno ad un’azione che ‘punisse’ i colpevoli. Si intervenne così in Afganistan, senza peraltro avere la certezza della presenza di Osama Bin Laden. Ottenuta la caduta dei talebani, ci si spostò in Iraq contro Saddam Hussein, anche se questi non aveva rapporti con Al Qaeda. Per giustificare l’intervento militare vennero presentati – persino davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – ‘studi’ e ‘prove certe’ dell’esistenza di armi di distruzione di massa, in seguito rivelatisi falsi e costruiti ad arte». Di fronte a questa escalation militare, come ci si ricorderà, Giovanni Paolo II – annientato ormai nel corpo, ma saldo nei principi, avrebbe levato, inutilmente, un disperato anatema. E, forse memore di quell’accorato appello, l’editoriale del SIR non fa sconti nemmeno sui tragici risultati che la cosiddetta lotta al terrore ha sortito: «Il successo dell’esportazione della democrazia con le armi è sotto gli occhi di tutti. A Bagdad e a Kabul la situazione è tuttora irrisolta e il rapporto tra Occidente e mondi arabo e musulmano sono gravemente peggiorati. Né gli USA si sono affermati ‘storicamente’. Anzi, proprio quella stagione politica, con la liberalizzazione selvaggia del mercato finanziario, ha creato le premesse per la drammatica crisi finanziaria che è stato l’ultimo regalo dell’Amministrazione Bush. Grazie a quella crisi gli USA conoscono ora disoccupazione e declassamento del debito, mentre sul piano economico si irrobustiscono nuovi attori».
E in quanto particolarmente impegnato sulle questioni del debito estero dei Paesi del Terzo mondo, della lotta alla povertà e del finanziamento dello sviluppo nel quadro della globalizzazione (ha scritto, fra l’altro, per le edizioni Ave, il volume Governare la globalizzazione), Moro coglie invece, fra gli «effetti collaterali» del dopo-11 settembre, un «cambiamento netto, del tutto negativo. Infatti, secondo la sua ricostruzione, ‘gli ultimi anni del Novecento e il Giubileo avevano segnato una straordinaria stagione, con la campagna per la cancellazione del debito estero e il lancio degli ‘Obiettivi di sviluppo del millennio’ da raggiungersi nel 2015 per dimezzare la povertà nel pianeta». Si era pertanto registrato l’incremento di «un impegno internazionale condiviso verso lo sviluppo e la lotta alla povertà». Ma «l’attentato ha di fatto congelato gli impegni e cambiato le priorità nell’agenda internazionale. Senza quell’evento forse oggi gli Obiettivi del 2015 non sarebbero così lontani». E così, «i tremila morti di New York si replicano ogni giorno, moltiplicati, nelle morti per fame o per le guerre dimenticate».
La presa di posizione del SIR non è meno dura sulle conseguenze etico-culturali che tali tragici accadimenti ha determinato: «L’attentato – infatti – ha alimentato l’inchiostro di chi ha trovato parole di rancore orgogliose. Lo ricordiamo con pena». E se «la rabbia fiera e rancorosa, tanto citata ancora in questi giorni, non costruisce nulla», c’è invece necessità di «riconciliazione», innanzitutto «con se stessi, per riuscire a incontrare autenticamente gli altri. Abbiamo bisogno di tessere fili pazienti di dialogo per riconciliarci e servire l’uomo». È facile immaginare che una simile interpretazione – che giunge, va ribadito, da un organo di informazione non certo eterogeneo rispetto alla Conferenza dei vescovi italiani – non piacerà a molti, soprattutto a quelle correnti cristianiste e teocon ben rappresentate nella stampa italiana. D’altra parte, l’analisi di Moro non ci appare lontana da quella espressa da tanti intellettuali non-conformisti che, anche dalle nostre parti, si ha la (buona) abitudine di consultare, da Tarchi a De Benoist, da Fini (Massimo!) a Cardini, fino allo scandaloso Blondet. La polemica, dunque, è servita!
(di Siro Mazza)
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