Caro Direttore, vedo che anche Il Giornale ha salutato con commozione la scomparsa di Steve Jobs e quindi sono sicuramente dalla parte del torto, ma un po' perché ci sono abituato e un po’ perché ormai ho un'età, mi permetti di dire, che, salvo restando il rispetto per il talento, per il dolore, per la morte etcetera etcetera, a me di Steve Jobs non è mai importato nulla.
L'altro ieri ho visto sul Corriere un «Addio Steve» a firma di Beppe Severgnini, con tanto di Jackson Browne usato come dedica poetica. Severgnini è uno specialista in epitaffi: tempo fa ne fece uno di Indro Montanelli con tanto di quadro a olio, lui e Indro insieme nella stessa tela, riprodotta sul quotidiano di via Solferino immagino per gentile concessione del diretto interessato vivente. Sarò irrispettoso, ma allora mi venne da ridere.
Adesso mi viene da ridere leggendo Severgnini che verga il suo omaggio commosso non nella Cremona natia, ma «nella luce lattiginosa di Sa Pa, Vietnam settentrionale, la Cina oltre un fiume, wi-fi che funziona, Mac Book Air sulle ginocchia». E mi viene da ridere leggendo Jovanotti che sulla Stampa saluta Steve Jobs come «l'eroe di chi crede che la vita finisce solo quando finisce, neanche un attimo prima». Non mi sembra una grande novità, ma non «penso positivo», non scrivo canzoni dove madre Teresa di Calcutta abbraccia Che Guevara, non vado da Fabio Fazio. E va da sé che darei tutti i reportage, di Severgnini e no, scritti con un Mac Book per uno solo di Montanelli o di Malaparte battuto a macchina, dettato ai dimafoni, telefonato, inviato per posta...
Per quel che poco che so, dobbiamo a Jobs i personal computer e i cellulari, schematizzo e volgarizzo, ma credo di rendere l'idea. Sommessamente dico che ne avrei fatto volentieri a meno, ma che comunque non mi hanno cambiato la vita più di tanto. Continuo a usare il computer come una macchina per scrivere che mi evita la brutta copia, continuo a maledire il cellulare, di cui ignoro ogni altra funzione, perché lo devo tenere aperto qualora dal giornale qualcuno mi cerchi per farmi lavorare (a volte succede).
È curioso che gli amanti dello slow food e della qualità della vita, gli spregiatori della globalizzazione e i difensori della privacy, gli adepti della bicicletta nelle metropoli e della lentezza del vivere, siano al tempo stesso i corifei della rete, dell’email, della connessione in tempo reale. Sarà anche vero che non è più l'epoca dell'aut-aut, del sì sì, no no, ma mai come adesso si vuole tenere insieme tutto, il sogno e la sugna, per intenderci.
Il bello è che, tornati dalle vacanze, senti quegli stessi dirti: «Che pace, ho spento il telefonino, staccato il computer, nessuno che mi rompesse le palle...» ma se è questo quello che vogliono, perché rendersi schiavi di un meccanismo che li sovrasta?
Mi dirai che la modernità ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Sono sufficientemente intelligente (non molto, ma sufficientemente sì) per capire che macchine e aerei, radio e televisioni fanno parte del nostro vivere quotidiano, ma il loro trasformarli in feticci non mi sembra un traguardo. Saremo anche al dominio della tecnica profetizzato da Spengler, ma non vedo che piacere ci sia nell'essere dominati.
Ieri la figlia di una mia amica mi ha detto che andava «in manifestazione perché vogliono chiudere Wikipedia. Si imparano un sacco di cose su Wikipedia» mi ha detto seria. «Per esempio il significato di una parola, come se fosse un’enciclopedia...». Il bello è che lei, in casa, le enciclopedie ce l'ha, più documentate, ovviamente, di Wikipedia, ma non le usa. Non sono alla moda ed è più faticoso cercare su un libro che cliccare. Solo che la vita, culturale e no, non dovrebbe avere come criterio principe la comodità. Se così sarà, non mi aspetto un grande futuro per le prossime generazioni.
«È il solito antimoderno», sento già le obiezioni. Ma ti confesso che gli innamorati tout court del progresso li trovo insopportabili. Facci caso, le cose più intelligenti e più profetiche sulla modernità le hanno dette e scritte i non moderni e sono loro ad aver lasciato un'impronta, un segno di diversità. E certo, indietro non si torna, ma bisognerebbe però chiedersi in nome di che cosa si debba andare avanti.
Leggo in Jovanotti che grazie a Jobs siamo passati «dall’analogico al digitale»: non so bene che cosa significhi, ma a me l'analogico, qualsiasi cosa sia stato, mi andava bene e non vedo perché mi debba riposizionare come digitale e in quanto tal andarne fiero. Continuo a leggere libri di carta e a sfogliare giornali di carta, penso che il bello di un film sia il vederlo al cinema, posseggo un cellulare ma solo perché sono un vile e non ho il coraggio di quel mio amico professore di scienza politiche che ha minacciato di denunciare la sua università al Tribunale dell’Aja per i diritti umani se si ostinava a volergliene imporre l’uso. E ancora, se devo ringraziare qualcuno gli scrivo un biglietto e sai benissimo che questo articolo è stato scritto con la stilografica e poi ricopiato al computer. Mi sono perso qualcosa? Sicuramente. Mi sono perso l’essenziale? Non credo proprio.
(di Stenio Solinas)
L'altro ieri ho visto sul Corriere un «Addio Steve» a firma di Beppe Severgnini, con tanto di Jackson Browne usato come dedica poetica. Severgnini è uno specialista in epitaffi: tempo fa ne fece uno di Indro Montanelli con tanto di quadro a olio, lui e Indro insieme nella stessa tela, riprodotta sul quotidiano di via Solferino immagino per gentile concessione del diretto interessato vivente. Sarò irrispettoso, ma allora mi venne da ridere.
Adesso mi viene da ridere leggendo Severgnini che verga il suo omaggio commosso non nella Cremona natia, ma «nella luce lattiginosa di Sa Pa, Vietnam settentrionale, la Cina oltre un fiume, wi-fi che funziona, Mac Book Air sulle ginocchia». E mi viene da ridere leggendo Jovanotti che sulla Stampa saluta Steve Jobs come «l'eroe di chi crede che la vita finisce solo quando finisce, neanche un attimo prima». Non mi sembra una grande novità, ma non «penso positivo», non scrivo canzoni dove madre Teresa di Calcutta abbraccia Che Guevara, non vado da Fabio Fazio. E va da sé che darei tutti i reportage, di Severgnini e no, scritti con un Mac Book per uno solo di Montanelli o di Malaparte battuto a macchina, dettato ai dimafoni, telefonato, inviato per posta...
Per quel che poco che so, dobbiamo a Jobs i personal computer e i cellulari, schematizzo e volgarizzo, ma credo di rendere l'idea. Sommessamente dico che ne avrei fatto volentieri a meno, ma che comunque non mi hanno cambiato la vita più di tanto. Continuo a usare il computer come una macchina per scrivere che mi evita la brutta copia, continuo a maledire il cellulare, di cui ignoro ogni altra funzione, perché lo devo tenere aperto qualora dal giornale qualcuno mi cerchi per farmi lavorare (a volte succede).
È curioso che gli amanti dello slow food e della qualità della vita, gli spregiatori della globalizzazione e i difensori della privacy, gli adepti della bicicletta nelle metropoli e della lentezza del vivere, siano al tempo stesso i corifei della rete, dell’email, della connessione in tempo reale. Sarà anche vero che non è più l'epoca dell'aut-aut, del sì sì, no no, ma mai come adesso si vuole tenere insieme tutto, il sogno e la sugna, per intenderci.
Il bello è che, tornati dalle vacanze, senti quegli stessi dirti: «Che pace, ho spento il telefonino, staccato il computer, nessuno che mi rompesse le palle...» ma se è questo quello che vogliono, perché rendersi schiavi di un meccanismo che li sovrasta?
Mi dirai che la modernità ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Sono sufficientemente intelligente (non molto, ma sufficientemente sì) per capire che macchine e aerei, radio e televisioni fanno parte del nostro vivere quotidiano, ma il loro trasformarli in feticci non mi sembra un traguardo. Saremo anche al dominio della tecnica profetizzato da Spengler, ma non vedo che piacere ci sia nell'essere dominati.
Ieri la figlia di una mia amica mi ha detto che andava «in manifestazione perché vogliono chiudere Wikipedia. Si imparano un sacco di cose su Wikipedia» mi ha detto seria. «Per esempio il significato di una parola, come se fosse un’enciclopedia...». Il bello è che lei, in casa, le enciclopedie ce l'ha, più documentate, ovviamente, di Wikipedia, ma non le usa. Non sono alla moda ed è più faticoso cercare su un libro che cliccare. Solo che la vita, culturale e no, non dovrebbe avere come criterio principe la comodità. Se così sarà, non mi aspetto un grande futuro per le prossime generazioni.
«È il solito antimoderno», sento già le obiezioni. Ma ti confesso che gli innamorati tout court del progresso li trovo insopportabili. Facci caso, le cose più intelligenti e più profetiche sulla modernità le hanno dette e scritte i non moderni e sono loro ad aver lasciato un'impronta, un segno di diversità. E certo, indietro non si torna, ma bisognerebbe però chiedersi in nome di che cosa si debba andare avanti.
Leggo in Jovanotti che grazie a Jobs siamo passati «dall’analogico al digitale»: non so bene che cosa significhi, ma a me l'analogico, qualsiasi cosa sia stato, mi andava bene e non vedo perché mi debba riposizionare come digitale e in quanto tal andarne fiero. Continuo a leggere libri di carta e a sfogliare giornali di carta, penso che il bello di un film sia il vederlo al cinema, posseggo un cellulare ma solo perché sono un vile e non ho il coraggio di quel mio amico professore di scienza politiche che ha minacciato di denunciare la sua università al Tribunale dell’Aja per i diritti umani se si ostinava a volergliene imporre l’uso. E ancora, se devo ringraziare qualcuno gli scrivo un biglietto e sai benissimo che questo articolo è stato scritto con la stilografica e poi ricopiato al computer. Mi sono perso qualcosa? Sicuramente. Mi sono perso l’essenziale? Non credo proprio.
(di Stenio Solinas)
Nessun commento:
Posta un commento