Non so cosa avrà capito il ladro che mi rubò la Mini Minor e si trovò sul sedile una copia, tutta sottolineata e chiosata, di Cavalcare la tigre di Julius Evola. La sua perdita mi fece soffrire quasi più dell’auto rubata. Avevo vent’anni e consideravo quel libro una specie di manuale pratico di filosofia di vita, un codice d’onore in epoca disonorata, un galateo indispensabile per un Vero Signore, ma non nel senso alto borghese in cui ne scrisse Giovanni Ansaldo o, peggio, delle buone maniere prescritte dalle donne Letizia dei rotocalchi. Il Signore evoliano era «l’uomo differenziato», fiero di distinguersi dalla massa. La sua era un’opera da asceta in campo, come uno Zarathustra disceso dai monti in piena epoca nichilista.
Cavalcare la tigre è un manuale di sopravvivenza metapolitica per chi dissente dal proprio tempo e dal mondo in cui vive; ma, non potendolo modificare, preferisce ritirarsi in attiva solitudine e padroneggiarlo, cavalcarlo per non essere travolto. «Cavalcare la tigre» è un motto cinese, rispolverato anche da Mao, e suggerisce non di affrontare la tigre o tentare la fuga, ma di saltarle in groppa e correre su di lei. È un breviario aristocratico di nichilismo attivo per chi ha scelto non la politica, ma l’apolitìa, come la chiama Evola, o la scelta «impolitica» come invece l’aveva definita Thomas Mann.
Cavalcare la tigre compie ora cinquant’anni e la Fondazione Evola diretta da Gianfranco de Turris ha deciso di ricordare quell’opera che ebbe un effetto bomba sulla destra giovanile, soprattutto quella radicale. E ha organizzato all’Accademia di Romania in Roma un incontro per discutere di quel libro di culto che pervase almeno tre generazioni di non conformisti. Dal ’61 ad oggi continua a essere ristampato continuamente; l’edizione più recente ha l’introduzione di Stefano Zecchi e la postfazione di de Turris, che è il curatore dell’opera omnia evoliana.
Cavalcare la tigre è l’opera di un pensatore legato alla Tradizione il quale, vivendo nell’irreversibile Età Oscura (kaly yuga), in preda a decadenza, desolazione e rovine, favorisce la corsa verso la dissoluzione perché solo raggiungendo il punto zero si potrà poi risalire e invertire la rotta. Una posizione che rischia la complicità con i dèmoni della decomposizione. L’anomìa, il caos, la trasgressione, l’anarchia diventano per l’evoliano occasioni per temprarsi.
Cavalcare la tigre fu il ’68 della destra colta e radicale, la trasgressione nel nome della tradizione. Un Sessantotto ante litteram, uscito ben prima dell’Uomo a una dimensione di Marcuse o della sua Teoria della liberazione e delle altre opere che furono breviari del ’68. Come il suo coetaneo Marcuse (nacquero ambedue nel 1898 e morirono negli anni Settanta) aveva fatto precedere i suoi testi sulla contestazione globale da un saggio sulla liberazione sessuale, Eros e civiltà, così Evola fece precedere la sua tigre dionisiaca da un testo dedicato alla Metafisica del sesso, in cui la trasgressione sessuale poggiava sulla pratica orientale del Tantra.
Nelle mani dei giovani radicali di destra Cavalcare la tigre diventò un libro pericoloso. Ma non perché istigasse alla violenza e al terrorismo, come pensarono alcuni questurini dell’ideologia, ma perché diventò un nobile alibi per scelte anarco-individualiste, per esperienze trasgressive e alienanti e per la fuga dalla politica. Fu la via d’accesso per entrare da destra nel dionisismo di massa che poi esplose nel ’68. O, per altri versanti, fu una password verso l’uso della modernità e dei suoi mezzi, quel «modernismo reazionario» di cui scrisse J. Herf.
Chi cercò invece di restare nell’ambito della milizia politica, vide Cavalcare la tigre come un fiume di confine per tentare una sintesi tra il radicalismo rivoluzionario di destra e quello di sinistra, o anarco-comunista. L’ibridazione assunse vari aspetti, tra cui quello nazi-maoista, e affiorò nella fase iniziale del ’68, per poi lentamente dissiparsi nel livore partigiano degli anni Settanta. Alla fine prevalse l’individualismo, il rifiuto della politica, magari il culto dell’esteta armato, ma nella disperazione eroica e nel rifiuto stoico; genere Yukio Mishima, per intendersi. Quel libro divenne l’alibi per esperienze trasgressive, ma anche per comportamenti sdoppiati, quasi schizoidi o perfino per piccoli compromessi col presente. Fu un alibi sontuoso per cedimenti meschini o comunque umani, troppo umani.
In quel testo Evola tornava alla sua gioventù dadaista e all’Autarca, l’individuo assoluto della sua prima filosofia. Tornava a Nietzsche e al suo nichilismo attivo, incontrava Ernst Jünger, del quale tradusse - nello stesso periodo in cui scriveva Cavalcare la tigre - l’Operaio, e al poeta Gottfried Benn. Fra il Tantra e Dioniso. Poi, davanti al ’68, Evola tornò alla Tradizione, si spinse nel ruolo di teorico di una Destra metastorica e postfascista e si spense nel ’74, in piena epoca di stragi «nere» che gettarono su di lui un’ingiusta luce diabolica, da Grande Ispiratore. Poi la tigre disarcionò i suoi cavalcatori e continuò a correre verso il nulla.
(di Marcello Veneziani)
Cavalcare la tigre è un manuale di sopravvivenza metapolitica per chi dissente dal proprio tempo e dal mondo in cui vive; ma, non potendolo modificare, preferisce ritirarsi in attiva solitudine e padroneggiarlo, cavalcarlo per non essere travolto. «Cavalcare la tigre» è un motto cinese, rispolverato anche da Mao, e suggerisce non di affrontare la tigre o tentare la fuga, ma di saltarle in groppa e correre su di lei. È un breviario aristocratico di nichilismo attivo per chi ha scelto non la politica, ma l’apolitìa, come la chiama Evola, o la scelta «impolitica» come invece l’aveva definita Thomas Mann.
Cavalcare la tigre compie ora cinquant’anni e la Fondazione Evola diretta da Gianfranco de Turris ha deciso di ricordare quell’opera che ebbe un effetto bomba sulla destra giovanile, soprattutto quella radicale. E ha organizzato all’Accademia di Romania in Roma un incontro per discutere di quel libro di culto che pervase almeno tre generazioni di non conformisti. Dal ’61 ad oggi continua a essere ristampato continuamente; l’edizione più recente ha l’introduzione di Stefano Zecchi e la postfazione di de Turris, che è il curatore dell’opera omnia evoliana.
Cavalcare la tigre è l’opera di un pensatore legato alla Tradizione il quale, vivendo nell’irreversibile Età Oscura (kaly yuga), in preda a decadenza, desolazione e rovine, favorisce la corsa verso la dissoluzione perché solo raggiungendo il punto zero si potrà poi risalire e invertire la rotta. Una posizione che rischia la complicità con i dèmoni della decomposizione. L’anomìa, il caos, la trasgressione, l’anarchia diventano per l’evoliano occasioni per temprarsi.
Cavalcare la tigre fu il ’68 della destra colta e radicale, la trasgressione nel nome della tradizione. Un Sessantotto ante litteram, uscito ben prima dell’Uomo a una dimensione di Marcuse o della sua Teoria della liberazione e delle altre opere che furono breviari del ’68. Come il suo coetaneo Marcuse (nacquero ambedue nel 1898 e morirono negli anni Settanta) aveva fatto precedere i suoi testi sulla contestazione globale da un saggio sulla liberazione sessuale, Eros e civiltà, così Evola fece precedere la sua tigre dionisiaca da un testo dedicato alla Metafisica del sesso, in cui la trasgressione sessuale poggiava sulla pratica orientale del Tantra.
Nelle mani dei giovani radicali di destra Cavalcare la tigre diventò un libro pericoloso. Ma non perché istigasse alla violenza e al terrorismo, come pensarono alcuni questurini dell’ideologia, ma perché diventò un nobile alibi per scelte anarco-individualiste, per esperienze trasgressive e alienanti e per la fuga dalla politica. Fu la via d’accesso per entrare da destra nel dionisismo di massa che poi esplose nel ’68. O, per altri versanti, fu una password verso l’uso della modernità e dei suoi mezzi, quel «modernismo reazionario» di cui scrisse J. Herf.
Chi cercò invece di restare nell’ambito della milizia politica, vide Cavalcare la tigre come un fiume di confine per tentare una sintesi tra il radicalismo rivoluzionario di destra e quello di sinistra, o anarco-comunista. L’ibridazione assunse vari aspetti, tra cui quello nazi-maoista, e affiorò nella fase iniziale del ’68, per poi lentamente dissiparsi nel livore partigiano degli anni Settanta. Alla fine prevalse l’individualismo, il rifiuto della politica, magari il culto dell’esteta armato, ma nella disperazione eroica e nel rifiuto stoico; genere Yukio Mishima, per intendersi. Quel libro divenne l’alibi per esperienze trasgressive, ma anche per comportamenti sdoppiati, quasi schizoidi o perfino per piccoli compromessi col presente. Fu un alibi sontuoso per cedimenti meschini o comunque umani, troppo umani.
In quel testo Evola tornava alla sua gioventù dadaista e all’Autarca, l’individuo assoluto della sua prima filosofia. Tornava a Nietzsche e al suo nichilismo attivo, incontrava Ernst Jünger, del quale tradusse - nello stesso periodo in cui scriveva Cavalcare la tigre - l’Operaio, e al poeta Gottfried Benn. Fra il Tantra e Dioniso. Poi, davanti al ’68, Evola tornò alla Tradizione, si spinse nel ruolo di teorico di una Destra metastorica e postfascista e si spense nel ’74, in piena epoca di stragi «nere» che gettarono su di lui un’ingiusta luce diabolica, da Grande Ispiratore. Poi la tigre disarcionò i suoi cavalcatori e continuò a correre verso il nulla.
(di Marcello Veneziani)
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